Raccontare per la storia

Angela Dogliotti

Anna Bravo, Raccontare per la storia, Einaudi, Torino 2014, pp. 224, € 18,00. Traduzione di Jonathan Hunt

Il Centro internazionale di studi Primo Levi ha da poco pubblicato, per i tipi di Einaudi, la lezione Primo Levi di Anna Bravo, Raccontare per la storia.
Il testo si articola in due parti: la lezione della storica torinese su alcuni aspetti significativi, per la storia, dell’opera di Primo Levi, e un’Appendice che raccoglie i testi dell’autore cui si fa riferimento nella lezione e testi di altri autori/autrici su temi analoghi a quelli affrontati da Levi, in termini simili o opposti.
Il titolo, apparentemente enigmatico, è in realtà una chiara esplicitazione del rapporto tra memoria e storia nel racconto di Primo Levi: un racconto “per” la storia della Shoah e per la costruzione di una memoria pubblica capace di riflettere sulla condizione umana proprio a partire da eventi estremi come l’esperienza di Auschwitz.
Anna Bravo sceglie tre temi, tra le tante lezioni che Primo Levi ha offerto alla riflessione storica:
la deportazione per motivi razzisti, la “zona grigia”, la violenza dei “giusti”.
La storiografia del dopoguerra, fortemente attratta dall’esperienza della resistenza come “embrione di una società diversa”1 aveva trascurato la storia della deportazione. Il deportato, il prigioniero e, a maggior ragione, l’ebreo, ultimo degli ultimi nella gerarchia dei prigionieri, sono figure oscurate dal primato del combattente in armi, e ciò bene evidenzia il legame che si stabilisce nella memoria pubblica tra cittadinanza e uso delle armi (chi meglio rappresenta il “cittadino” è il soldato combattente, almeno dalla rivoluzione francese in poi …). Levi, invece, mette in primo piano non l’epica del guerriero ma la condizione di chi, nell’ordine aberrante del lager, si ritrova ad occupare l’ultimo gradino a causa di una ideologia razzista.
È questa la prima lezione che egli offre alla storia.
La seconda lezione sta nel coraggio di proporre categorie nuove per rileggere la Shoah: una di queste è il concetto di “zona grigia”, realtà ambigua “dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi”, “classe ibrida dei prigionieri-funzionari”2 . Di qui si sviluppano diverse questioni che Anna Bravo analizza, anche nelle banalizzazioni che il concetto ha subìto in seguito o nella sua trasformazione da concetto a metafora, usata per rappresentare “ogni realtà che appare opaca, nascosta, mal definita” (p.73), perdendo così molto del suo significato originario e dei suoi caratteri fondanti.
Nella storiografia e nella memorialistica della resistenza il concetto è stato usato a volte in modo distorto come un “liberi tutti” dalle responsabilità del passato o per indicare l’attendismo di chi non ha scelto tra resistenza armata e fascismo, dimenticando così la realtà, “invisibile” a questi occhiali, dei resistenti senza armi, che “attendisti” non sono, piuttosto resistenti in modo diverso, non armato, ma non per questo meno efficace, all’oppressione nazifascista.
La lezione di Primo Levi si può invece ritrovare nelle numerose e recenti ricerche di storia locale sulle stragi nazifasciste, volte ad affrontare “con franchezza il processo che portò alcune comunità a trasferire la responsabilità dai tedeschi ai partigiani” perché come lui, “conducono un’analisi accurata dei conflitti, paure, rancori innescati o esasperati dalla strage, dei poteri locali […] (p. 85).
Infine, il concetto di “zona grigia” consente a Levi di riformulare la questione del giudizio morale sui prigionieri che hanno contribuito al funzionamento del lager, nei confronti dei quali spesso il giudizio è stato in genere molto duro: in quanto collaboratori sono dei traditori, secondo un’ottica bipartita carnefice/vittima. Attribuendo i “colpevoli” al campo avverso e preservando “l’immagine di purezza assegnata al popolo delle vittime” (p. 87), infatti, si crea una netta separazione tra gli uni e gli altri, che è certo più tranquillizzante, ma meno idonea a cogliere la complessità del reale.
Riconoscere, invece, l’esistenza di una “zona grigia”, lungi dal portare a confondere le due condizioni o ad affermare che viviamo tutti inconsciamente dinamiche di vittima/carnefice, aiuta a vedere il limite presente anche nel comportamento di chi si trova in una posizione di offeso, di vittima (perché l’innocenza assoluta non è data), come accade ad esempio nell’episodio raccontato da Levi nel quale egli si sente colpevole di “nosismo” (l’“egoismo esteso a chi ti è più vicino”) perché, assetato, ha diviso le poche gocce d’acqua solo con l’amico più caro e non con gli altri compagni di squadra. E quindi aiuta ad avere un atteggiamento capace di meglio comprendere anche il “collaboratore”, pur distinguendo le varie forme e i diversi tipi di comportamento messi in atto in tale ruolo.
A questo proposito Anna Bravo commenta: “È vitale stringersi fra simili, movimento istintivo che consente di comunicare e di agire in solido. È mortifera la trasformazione della comunanza in complicità, degli aggregati in clan belligeranti che vedono in se stessi il luogo dell’umanità, negli altri il luogo della sua negazione” (p. 97).
Ecco un’altra profonda lezione che ci viene da Primo Levi.
Forse, osserva ancora Anna Bravo, l’intero capitolo sulla zona grigia si può leggere anche come una difesa/diffida dalle idealizzazioni.
L’ultimo tema scelto da Anna Bravo nella sua lezione su Levi è quello della riflessione sulla violenza dei “giusti”, sulla giustizia punitiva partigiana, sul dolore provocato non solo a chi ne è colpito ma anche a chi lo esercita.
Anche qui Levi dimostra che “non si passa indenne attraverso il male altrui” e che i dilemmi sul male minore, su come fare la scelta giusta quando nessuna scelta appare veramente tale perché comporta una uccisione, sono parte viva e sofferta dell’esperienza resistenziale, dilemmi che in quanto tali vanno riportati alla luce come Primo Levi fa limpidamente, con profondità e concretezza.
È un’altra sua grande lezione per la storia.
La riflessione di Anna Bravo ce lo ricorda con passione e rigore.

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