Il nonno del Manzoni. A 250 anni dalla pubblicazione di “Dei delitti e delle pene”

Massimiliano Fortuna

Di solito, in un ordinario percorso scolastico liceale, si incontra brevemente la figura di Cesare Beccaria quando viene il momento di studiare Manzoni. Qui si apprende che la madre di Alessandro Manzoni, Giulia Beccaria, era figlia del «celebre giurista», autore di un noto libretto, Dei delitti e delle pene, che proponeva una revisione in senso umanitario della giustizia penale.

Ma fuori d’Italia, pur senza arrivare all’eccesso di affermare che è più facile che sia Manzoni a venire connotato come il nipote di Beccaria, la riconoscibilità di quest’ultimo non necessita del supporto di altri nomi, dal momento che quel libro è considerato il più eminente contribuito dato dalla cultura italiana all’età dei Lumi.

In effetti la risonanza internazionale di Dei delitti e delle pene fu enorme, immediata – a renderne testimonianza potrebbe essere sufficiente la lettera piena di ammirazione che Voltaire inviò a Beccaria nel maggio del 1768: «Voi avete spianato il cammino dell’equità, nel quale tanti uomini procedono ancora come barbari. La vostra opera ha fatto del bene e ne farà ancora».

Apparso anonimo nel luglio del 1764 il trattato compare in traduzione francese già l’anno successivo. Nel volgere di un breve arco di tempo seguiranno pubblicazioni nelle principali lingue europee. Arriva persino l’invito di Caterina II, che Beccaria declinerà, di recarsi a Pietroburgo per contribuire alla stesura del nuovo codice penale russo.

Davvero Dei delitti e delle pene può venir considerato un libro spartiacque, anche se non si tratta certamente di una pianta che appare all’improvviso in un terreno brullo, al contrario, sorge su un suolo già fertile e dissodato da numerosi predecessori, a partire da quel Montesquieu che Beccaria menziona sin dalle prime pagine del suo trattato. Non solo, lo stesso nucleo concettuale di Dei delitti e delle pene è in parte il frutto di una riflessione comune nata all’interno della milanese Accademia dei Pugni, animata dai fratelli Pietro e Alessandro Verri. Indubbiamente però Beccaria e la sua opera si situano al centro di un processo epocale, quello che segna il passaggio dalla pratica giudiziaria e penale dell’Ancien Régime a quella dei moderni stati di diritto.

Questo processo si può forse sintetizzare in un’unica parola: secolarizzazione. Il primo cardine di questa secolarizzazione della giustizia consiste in un diverso modo di considerare il colpevole: si passa dallo statuto di «peccatore» a quello di «criminale». Vale a dire che, secondo la nuova prospettiva, il metro di giudizio di un delitto non viene ritenuto di natura morale – non si valuta il vizio individuale di colui che lo commette –, bensì di natura sociale, inerisce cioè all’utilità e alla sicurezza della società alla quale l’autore del crimine appartiene. Questo conduce a concepire la pena non più sotto forma di una «espiazione», ma come una «riparazione»: compito della giustizia non dovrà essere quello di salvare un’anima afflitta dal peccato, bensì di far pagare la violazione di una regola che contribuisce all’ordine sociale.

Dunque alla pena non toccherà più di venire intesa come una sorta di anticipazione dell’Inferno, con conseguente accanimento sul corpo del condannato, che patendo su questa terra può scampare a un patimento eterno nel mondo a venire, ma come semplice strumento attraverso il quale la società difende se stessa – non però con lo scopo di annientare il criminale, ma con il proposito di correggerlo per poterlo, al termine di un percorso riparatore, reintrodurre nel corpo sociale.

L’effetto più evidente correlato a questa distinzione tra espiazione e riparazione consiste forse nel proposito, in Beccaria costantemente sullo sfondo, di umanizzare la procedura inquisitoria, a partire dal rifiuto della tortura come criterio per attingere, attraverso il dolore, la verità giudiziaria: «il delitto è certo o incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, e’ non devesi tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i di cui delitti non sono provati» (Dei delitti e delle pene, XVI). In queste parole di Beccaria affiora un altro pilastro del diritto moderno: la presunzione di innocenza, che si affianca al rifiuto di considerare la «denunzia segreta» alla stregua di un elemento di prova.

Quello a cui si tenta di dar corpo in Dei delitti e delle pene è, in buona sostanza, l’ideazione di un nuovo paradigma penale, radicato nella convinzione che lo scopo del punire consista soprattutto nell’impedire al reo di nuocere alla società e nel correggerlo. Per Beccaria la funzione prioritaria della giustizia dovrebbe in realtà essere quella di prevenire il crimine, prima ancora che punirlo, mettendo in atto processi riformatori che attenuino quelle eccessive diseguaglianze che divengono terreno di crescita delle inclinazioni criminali.

Per quel che concerne l’aspetto repressivo, Beccaria fa propri una serie di criteri che, sul piano dei principi, ci appaiono tanto scontati oggi, quanto potevano risultare inusuali e innovativi nella società dell’epoca: la pena deve essere egualitaria, applicarsi a tutti senza distinzione di classe sociale; non deve consistere in un supplizio corporeo ma semmai nella privazione della libertà, anche accompagnata dai lavori forzati; deve essere comminata con celerità e situarsi il più possibile vicino all’infrazione commessa; deve risultare proporzionata al crimine ed essere moderata (la «dolcezza delle pene» è uno dei capitoli più noti del libro) ma certa:

«uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse, … la certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre maggior impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità» (Dei delitti e delle pene, XXVII).

Ma dove Beccaria spicca come innovatore assoluto – non solo, come ovvio, rispetto ai giuristi tradizionalisti, ma anche nei confronti di riformatori come Montesquieu e Kant o di egualitari come Rousseau – è nel rifiuto della pena di morte, pena, a differenza della prigione, non remissibile in caso di errore giudiziario.

Secondo Roberto Espositoi questa posizione rivela il nucleo filosofico più profondo e originale dell’opera di Beccaria, vale a dire un «attacco alla categoria teologico-politica di sovranità».ii Il sovrano, tale per diritto divino, nei fatti possedeva un potere illimitato nei confronti del corpo dei sudditi, disponeva della loro vita. Questo «disporre» era, come si accennava, il portato di quella sovrapposizione tra delitto e peccato «attraverso la comune identificazione con la colpa nei confronti di un potere in origine divino».iii Beccaria pone le basi per sottrarre l’ambito della vita umana alla disponibilità del potere sovrano, la vita è un bene la cui rinuncia non può essere delegata a chi detiene il diritto di punire.

Questa posizione antiteologica e antisovrana porta con sé anche la condizione del carattere impersonale della giustizia, che si esplicita, ad esempio, nel rifiuto del potere gemello rispetto a quello di dare la morte, il potere di concedere la grazia: come il sovrano non può condannare a morte, allo stesso modo non può togliere a suo piacimento una pena, interrompendo l’esecuzione di una legge. Viene dunque messa radicalmente in discussione la stessa fonte ideologica della punizione sovrana, perché, nota Esposito, «il principio che regola il supplizio regale … non è quello della giusta retribuzione, ma della esibita sproporzione tra delitto e castigo».iv

Foucault ha scritto che nella liturgia della pena dell’Ancien Régime lo spettacolo non era improntato alla misura ma all’eccesso e allo squilibrio: «ciò che era stato fino ad allora sotteso alla pratica dei supplizi, non era un’economia dell’esempio … ma una politica del terrore: rendere sensibile a tutti, sul corpo del criminale, la presenza scatenata del sovrano. Il supplizio non ristabiliva la giustizia, riattivava il potere»,v perché in fondo ogni delitto era riconducibile a uno solo, quello di lesa maestà.

A distanza di tempo si può dunque sostenere, senza incertezze, che la diffusione dell’opera di Beccaria ha finito anche per coincidere con la sua affermazione. I magistrati hanno cominciato a essere concretamente influenzati dalle sue pagine e a riformare i codici penali ispirandosi ai suoi principi. La prima tappa cruciale è stata la rivoluzione francese e il tentativo di pensare un regime fondato sui diritti dell’uomo, che però come sappiamo non condurrà all’abolizione della pena di morte ma, attraverso lo strumento della ghigliottina, alla ricerca di un’esecuzione quanto più rapida e indolore. Però «questo moderno concetto di diritto penale inquadra il regime dei delitti e delle pene negli stati europei che si vanno lentamente democratizzando nel corso del XIX secolo».vi

Oggi nel mondo 109 stati su 192 hanno abolito la pena capitale, o rinunciano a praticarla; nelle grandi democrazie occidentali, a parte la vistosa eccezione degli Stati Uniti, la condanna a morte al momento non è che un ricordo.

Sembra difficile negare che una delle più apprezzabili conquiste politico-sociali raggiunte dalla cultura europea sia quella di aver introiettato nelle sue istituzioni un’idea di punizione che non può essere sganciata dal rispetto del colpevole, considerato sempre come una persona la cui sicurezza e la cui integrità vanno garantite. La moderna concezione dello stato di diritto ha molti padri, uno di questi è certamente Beccaria, tocca a noi ora essere degni figli della sua moderazione e della sua integrità liberale. Anzi, visto che sono passati oltre due secoli, diciamo di essergli nipoti, proprio come il Manzoni.

Note

i Pensiero vivente, Einaudi, Torino 2010.

ii Ivi, p. 138.

iii Ivi, p. 140.

ivIbidem.

v M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976, pp. 53-4.

vi M. Porret, Beccaria, il Mulino, Bologna 2013, p. 99.


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