Dal Gerusalemme I al Vaticano III. I Concili nella storia tra Vangelo e potere
Luigi Sandri, Dal Gerusalemme I al Vaticano III. I Concili nella storia tra Vangelo e potere, Il Margine, Trento 2013, pp. 1080, € 30,00
Consiglierei di leggere questo libro cominciando da p. 1023, l’ultima prima del ricco apparato. La preghiera del mistico sufi indiano All?mi dice il senso profondo che anima questo ampio lavoro storico.
Ci sono state storie dei papi, delle idee (Lodz), delle dottrine (Billmeyer-Tuechle), delle politiche ecclesiastiche (Jemolo), del popolo cristiano (Delumeau), e così via. Questa è una storia della chiesa attraverso i concili, i colloqui interni alla chiesa universale, la voce (non sempre unanime) della chiesa e delle chiese, lungo la storia. È questa la ricerca che sostiene il lungo libro: come i cristiani hanno cercato insieme di dire il loro tentativo di seguire nella storia la via di Gesù.
L’autore, giornalista di larga esperienza, anche internazionale, e di precisa informazione, sottolinea che non ha voluto scrivere per specialisti, pur con una documentazione molto ampia, ma per lettori comuni, di media cultura, e attenti. Il libro è un utile manuale, da tenere a portata di mano ogni volta che si vuole rivedere un passo o l’altro di quel cammino. La lettura è piana e scorrevole, nella precisione dei concetti.
È una storia, sì, ma due terzi del volume (670 pagine), vengono sul presente: oltre 250 pagine sul Vaticano II, altre 250 sul post-concilio, e circa 150 sul futuro dei concili. Quindi non una vita per la storia, ma una storia per la vita.
Ognuno può soffermarsi sui punti per lui di interesse più diretto. Per me sono stati: il costantinismo, i primi quattro concili, il papato (volontà di Gesù o fatto storico?), lo stato pontificio, il conciliarismo, Erasmo (ho riferito il parere di Balducci, all’opposto di Hans Küng: Erasmo meglio di Lutero avrebbe segnato la modernità, se fosse stato seguito, perché la pace è la vera questione ecumenica). E poi il Tridentino, l’illuminismo e le rivoluzioni. I papi recenti, da Benedetto XV (oggi nel centenario del 1914, la grande guerra), a Pio XI: egli fece un cenno, poi lasciato cadere, alla ripresa del Vaticano I, ma la sua idea era la ierocrazia, il potere sacerdotale sulla società. Riguardo all’ecumenismo negò quella gerarchia delle verità (nella Mortalium animos), poi invece affermata dal Vaticano II («Ecumenismo», n. 11).
Chi ha l’età sufficiente, come me, ha presente l’epoca di Pio XII: anche lui ipotizzò un nuovo concilio. Su richiesta di chi è curioso, posso inviare alcuni aneddoti significativi e anche gustosi su questo periodo, che ho raccontato nella presentazione del libro, avvenuta il 3 aprile nella Fondazione Vera Nocentini.
Il sottotitolo del volume indica bene che pace e giustizia nella storia sono il punto d’incontro tra spiritualità e politica, vangelo e mondo, chiesa e poteri. Di questa parte consiglio la lettura ampia di Aldo Capitini (pp. 482-6), e di Giuseppe Dossetti (pp. 489-90), entrambi severi sui limiti del Vaticano II riguardo alla guerra e alla pace: qui il Concilio fu superato dalla contemporanea Pacem in terris di Giovanni XXIII.
A proposito di pace e chiesa, troviamo ripercorsa l’idea di un concilio universale sulla pace: Bonhoeffer nel 1934, Turoldo nel 1981, Konrad Raiser nell’ottobre 1997, Giancarlo Zizola nel giugno 2003 (su «Rocca»). Compare anche l’istanza che noi sostenemmo nel 2003, cioè che il papa non parli soltanto, da pari a pari, ai potenti del mondo raccomandando moderazione e pace, ma tutta la chiesa e il papa facciano appello diretto alla coscienza dei singoli attori della guerra, dall’economia militare fino ai soldati, affinché personalmente considerino se obiettare al costruire e usare le armi omicide: non un nuovo precetto, ma un appello alle coscienze cristiane, come viene fatto per altri aspetti della morale. Perché la guerra non è predicata come peccato? Forse perché la fanno gli Stati, colleghi di potere della istituzione che gestisce la religione? Eppure, non è forse proclamata «fuor di ragione», perciò ingiustificabile, dalla Pacem in terris? È forse imposta da necessità difensiva? Ma perché l’etica ecclesiale non studia e non propone la cultura e i metodi della trasformazione nonviolenta dei conflitti? E perché non fa meglio conoscere, a parte le virtù individuali, la storia reale delle resistenze e delle lotte nonviolente di massa, storicamente più efficaci delle lotte armate? Mi limito a indicare i libri recenti di Anna Bravo e di Ercole Ongaro.
Tutto il libro mostra la storicità della chiesa e della fede: è un cammino, è in divenire. «Scriptura crescit cum legente», ripeteva Gregorio Magno: la Scrittura, la comprensione ed espressione della fede è nella storia, cresce con chi la frequenta: può anche regredire, decadere, ma ha la promessa di non perdersi, e muta come ogni cosa viva. Lo dice anche la Dei Verbum del Concilio, al n. 8. La «coerenza» nel tempo è virtù relativa al punto di partenza, se è buono o meno buono. Il «con-vertirsi» cioè cambiare animo, è rottura di una coerenza. É vera virtù la coerenza tra animo e vita, cuore e azioni, non l’immobilità.
Nel libro è ricordato più volte Michele Pellegrino, tra l’altro quando, nel 1976 difese Bolgiani che aveva criticato le interferenze politiche di Pio XII. Così amareggiò Paolo VI, il quale, alla fine, sembra che fosse pentito di averlo nominato a Torino.
Ancora una notazione, tra le tante possibili, per interesse e importanza. Il libro parla (p. 815) della «impossibilità dell’ospitalità eucaristica» nei grandi eventi ecumenici dal 1989 al 2007. Ma merita ricordare che, a Torino, da tre anni, si pratica la partecipazione, ogni mese, di gruppi cattolici ed evangelici (non gli ortodossi) alla stessa celebrazione della Cena del Signore, compiuta secondo i riti delle diverse chiese, nell’unica fede essenziale. Tutti i cristiani credono ugualmente che lì Gesù è presente, come ha promesso. Non lasciamo che le differenti interpretazioni teologiche e le diverse strutture ecclesiastiche dividano ancora i cristiani nel momento centrale della loro fede.
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