Preparare la strada per una pace giusta tra Palestina e Israele – Richard Falk
Dopo i diversi fallimenti passati per riconciliare Fatah e Hamas sotto l’unico ombrello palestinese dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), si è formato un governo di unità e i suoi ministri hanno giurato il 2 giugno a Ramallah. Questo governo di tecnocrati presumibilmente ad interim, non associato a dei partiti, sarà presieduto dal Primo Ministro dell’Autorità Palestinese (AP) Rami Hamdallah. E’ stato riferito che Hamas non è stata contenta della composizione del governo, rifiutando la sua approvazione fino all’ultimo minuto, ma alla fine ha acconsentito. Oltre ai vantaggi diplomatici e a lungo termine dell’unità palestinese, la gente di Gaza potrebbe trarre dei vantaggi a breve termine, specialmente se l’Egitto può ora essere persuaso ad aprire il suo confine per far passare il combustibile e altri beni di consumo necessari. L’avversione del Cairo alla passata Fratellanza di Hamas, verrebbe stemperata in considerazione del fatto che l’AP, e non Hamas, è diventata la legittima autorità di governo per tutti i Palestinesi, compresi quelli che vivono a Gaza. Le urgenti necessità degli abitanti di Gaza possono aiutare a spiegare il motivo per il quale le due fazioni palestinesi hanno finalmente messo da parte il rancore del passato, almeno per ora.
E’ troppo presto per valutare le più ampie implicazioni di questa mossa politica che fa arrabbiare il governo israeliano e che è stata accolta con cautela ostile a Washington e in Europa. Per la prima volta da quando Hamas ha vinto le elezioni a Gaza nel 2006, destituendo un anno dopo con la forza dal suo ruolo di governo la fazione Fatah corrotta e violenta, i palestinesi sono rappresentati da una dirigenza che comprende la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. L’apparato governativo è attualmente presieduto da Mahmoud Abbas che è Presidente dell’OLP e presidente dell’AP, che ha promesso elezioni per una nuova dirigenza entro 6 mesi. Molti palestinesi sperano che sia ora pronta la fase per ridurre la ‘carenza di leadership’ che ha ostacolato la diplomazia almeno fino dalla morte di Yasser Arafat nel 2004. Arafat negli anni precedenti alla sua morte ha perduto il rispetto di molti palestinesi, in parte perché sembrava troppo pronto a compiacere Washington nella sua ricerca di una soluzione, e in parte perché ha perduto la presa sugli elementi corruttori nella sua stessa cerchia. Sfortunatamente, l’unico palestinese che ha sia la statura che l’attrattiva politica che va da un’estremità all’altra dello spettro dell’opinione politica, è Marwan Barghouti che però sta scontando una condanna a lungo termine in una prigione israeliana.
La replica di Israele
Per il momento è stata raggiunta l’unità diplomatica palestinese che sembra turbare Israele. I suoi più alti funzionari e i media principali non hanno contestato l’aggressiva insistenza del Primo ministro Benjamin Netanyahu che Israele non negozierà mai con alcun governo palestinese che sia “appoggiato da Hamas,” e minaccia varie azioni ostili che vanno dall’accelerazione dell’espansione degli insediamenti al trattenersi le somme di denaro dovute alla Palestina di diritti doganali, che sono necessarie all’AP per far fronte ai pagamenti per il grosso settore del pubblico impiego che ammonta a circa 150.000 persone. In maniera perversa, rinnegando come illegittimo qualsiasi governo palestinese appoggiato da Hamas, dota l’organizzazione di un’influenza politica del tipo: ‘o la va o la spacca’, oppure, detto in maniera diversa, dà a Israele un pretesto infallibile per fare qualsiasi cosa nella Palestina occupata senza incontrare grande reazione contraria. Una tale posizione incondizionata secondo me conferma il disinteresse di Israele per un approccio diplomatico alla vera pace, e serve come scusa per andare avanti con l’espansione degli insediamenti, il consolidamento etnico di Gerusalemme est, e per continuare il blocco punitivo e l’isolamento di Gaza. Questo modello è stato già presente pochi anni fa quando Al Jazeera ha pubblicato una serie di documenti collegati ai negoziati segreti tra il governo israeliano e l’Autorità Palestinese con i quali questa offriva concessioni importanti e Israele reagiva con disinteresse e senza fare alcuna controfferta. [Vedere Clayton Swisher, ediz. The Palestine Papers: The End of the Road [I documenti palestinesi: la fine della strada], (Chatham, UK, 2011).
Il rifiuto di Israele di questa mossa verso la riconciliazione palestinese è motivata razionalmente dalla disputa che Hamas era e rimane un’organizzazione terroristica, ed è inaccettabile come attore politico perché rifiuta di riconoscere Israele come stato ebraico e di rinunciare alla violenza come tattica di lotta. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea condividono questa valutazione come argomento formale, ma in maniera leggermente più sfumata sebbene continuino a considerare Hamas come organizzazione terrorista e quindi come interlocutore illegittimo. Tuttavia, con il disgusto apertamente dichiarato di Tel Aviv, la Casa Bianca ha annunciato che per ora continuerà a lavorare con l’AP, mantenendo il flusso di aiuti. Ha annunciato che intende monitorare da vicino il ruolo di Hamas nel governo di unità dato che gli aiuti all’AP (440 milioni di dollari quest’anno) sono stati condizionati dal Congresso degli Stati Uniti in assenza di ‘influenza inappropriata’ da parte di Hamas. Ciò che costituisce un’influenza inappropriata dipende ovviamente dall’occhio dell’osservatore. Si può contare sul fatto che Israele faccia la sua parte, esercitando pressioni, attraverso i suoi alleati influenti, sui molto amici nel Congresso di Washington, per dimostrare che a questo punto Hamas sta davvero influenzando le politiche dell’AP, malgrado l’assenza di qualsiasi funzionario di Hamas nella dirigenza formale del nuovo governo dell’AP annunciato a Ramallah. Se l’opera di pressione di Israele funzionerà, potrebbe dare il via a un’interruzione del flusso di aiuti, e causare guai fiscali all’AP, ma forse con benefici politici collaterali fornendo ai palestinesi ulteriore spazio molto necessario per la manovra diplomatica, liberi da qualsiasi totale subordinazione ai desideri faziosi di Washington.
Non è sicuro se questo accadrà. E’ sicuro che ci sarà opposizione negli Stati Uniti da parte dei Repubblicani sempre ansiosi di segnare punti contro la presidenza di Obama, dichiarando che Israele non viene sostenuta nella maniera che meriterebbe un alleato tanto fondamentale. Inoltre, giocare la carta dell’anti-terrorismo sembra ancora efficace per turbare il pubblico americano. Anche se il Congresso forza la mano ad Obama, gli effetti sono incerti. Per prima cosa la Lega Araba ha promesso 100 milioni di dollari al mese all’AP come compensazione per qualsiasi deficit che risulti da una sospensione degli aiuti, e vari governi arabi hanno espresso la loro disponibilità a fornire a Ramallah l’equivalente di qualsiasi ammontare di fondi trattenuti da Israele e dagli Stati Uniti. Se questa promessa verrà mantenuta, nulla è sicuro, considerati i passati fallimenti arabi di adempiere a tali promesse, significa che se gli aiuti verranno tagliati all’AP, il principale effetto sarà politico invece che economico. In questo caso è probabile che Tel Aviv e Washington perderanno la loro influenza, mentre il Cairo, Riyadh e forse Teheran sembrano pronte a ottenere influenza non soltanto con i Palestinesi ma in tutto il Medio Oriente.
Valutazione provvisoria
In questa fase è possibile soltanto arrivare a conclusioni provvisorie. Il passaggio verso l’unità arriva dopo il totale fallimento dei negoziati diretti che l’anno scorso il Segretario di stato americano John Kerry si è impegnato fortemente a far iniziare. Per la maggior parte degli osservatori, specialmente alla luce della continua espansione degli insediamenti di Israele in Cisgiordania e a Gerusalemme, non sembra più esserci alcuna prospettiva credibile di una soluzione di due stati in una forma accettabile per il popolo palestinese, o con la possibilità di creare uno stato palestinese funzionante e pienamente sovrano. Oltre a questo, la Palestina ha iniziato ad agire sempre più come uno stato, una condizione affermata marcatamente da Papa Francesco nella sua recente visita in Terra Santa. Riguardo a questo, si dovrebbe riconoscere che Israele aveva rotto il negoziato con la Palestina prima della formazione del governo di unità e non a causa di Hamas. La rottura è avvenuta poiché l’autorità di governo di Ramallah aveva deciso di firmare 15 convenzioni internazionali come partito statale, un passo apparentemente responsabile da fare da parte della Palestina se voleva essere percepita come stato. Tale sforzo dell’AP per confermare la Palestina come stato senza l’appoggio di Israele e di Washington, è un diretto risultato della disillusione dell’AP per la ridicola diplomazia tra governi che viene ancora caldeggiata dal governo statunitense come l’unica strada per la pace. I palestinesi hanno vissuto senza diritti nel regime di occupazione israeliana per più di 45 anni, e molte famiglie palestinesi hanno languito nei campi profughi nella Palestina e nei dintorni fin dal 1948. Oltre a questo, il rinvio di una risoluzione delle rivendicazioni palestinesi, non è una realtà neutrale. Aiuta Israele a espandersi, mentre diminuisce le aspettative relative al loro destino territoriale e nazionale.
Credo che l’importanza del risultato del governo di unità sia la consapevolezza palestinese che non è concepibile nessuna soluzione al conflitto totale senza la partecipazione di Hamas. Oltre a questo, permettere ad Hamas di diventare parte attiva dell’equazione politica, assesta un brutto colpo alla strategia di Israele di mantenere i palestinesi il più possibile divisi e soggiogati. Hamas ha fatto una serie di passi importanti per essere accettato come protagonista politico e in tal modo superare la sua reputazione di organizzazione terrorista associata con la sua precedente accettazione di violenza politica indiscriminata, specialmente gli attentati suicidi estesi diretti su obiettivi civili all’interno di Israele. Dopo essere entrata e aver vinto le elezioni a Gaza nel 2006, Hamas ha continuato a esercitare un’effettiva autorità di governo nella Striscia di Gaza nel 2007. Ha governato in circostanze estremamente difficili derivanti dal blocco e dall’ostilità di Israele. E’ riuscita a negoziare e a rispettare gli accordi per il cessate il fuoco tramite l’Egitto. Cosa più rilevante di tutte, lo ha fatto per mezzo di dichiarazioni e di interviste con i suoi leader, indicando la prontezza di entrare in accordi di coesistenza a lungo termine con Israele per un periodo fino a 50 anni, se Israele si ritira ai confini della ‘linea verde’ del 1967 e se mette fine al blocco di Gaza. I razzi che sono stati sparati e possono essere direttamente attribuiti ad Hamas sono quasi sempre lanciati per rappresaglia dopo una provocazione illegittima di Israele; la maggior parte dei razzi lanciati sono primitivi nella progettazione e nelle prestazioni, e hanno causato poco danno sul lato israeliano del confine e spesso sembrano essere opera delle milizie estremiste che a Gaza agiscono indipendentemente e in violazione di Hamas. Malgrado il basso numero di vittime israeliane, le minacce che presentano questi razzi non dovrebbero essere minimizzate dato che causano paura nelle comunità israeliane nel loro raggio d’azione. Si dovrebbe anche riconoscere che si sa che Hamas possiede razzi più sofisticati che potrebbero causare gravi perdite e danni, e tuttavia si è astenuta dall’usarli tranne che nel corso della difesa di Gaza, in reazione al massiccio attacco lanciato da Israele nel novembre 2012.
Il profilo di Hamas in anni recenti sembra rappresentare un marcato allontanamento dalle sue precedenti posizioni che invocavano la distruzione dello stato di Israele nella sua totalità. E’ giusto chiedersi se si può fidare di questa linea più moderata che non può essere pienamente conosciuta fino a quando non sia testata da Israele e dagli Stati Uniti. Finora Israele non ha mandato segnali di reciprocità neanche prestando una certa cauta attenzione a questi cambiamenti dell’approccio di Hamas. Israele ha continuato a ripetere le sue richieste: Hamas rinunci unilateralmente alla violenza politica, riconosca Israele come stato ebraico, e indichi la sua accettazione di tutti i passati accordi con l’AP. Anche se Hamas dovesse fare questi passi, sembra altamente improbabile che Israele modifichi la sua posizione sprezzante, e continuerà a sostenere che non ci si può fidare di questi atti fino a quando non ci saranno ulteriori prove di buona fede, compreso l’emendamento della Carta di Hamas. I dubbi sulla attendibilità di Hamas sembrano un diversivo tipicamente fuorviante proposto da Tel Aviv. Qualunque cosa dovesse fare Hamas, o anche l’AP, Israele farebbe in modo che la sua sicurezza dipenda dalle sue capacità militari senza basarsi sul fatto che i protagonisti politici palestinesi siano fedeli alla parola data. In astratto, sembra irragionevole aspettarsi che Hamas si assuma gli impegni unilaterali richiesti da Israele fino a quando continua la punizione collettiva illegale del popolo di Gaza sotto forma di blocco.
A questo punto Hamas potrebbe e probabilmente dovrebbe fare di più per stabilire la buna fede del suo abbandono del terrore come modalità di lotta armata e la sua buona volontà di avere relazioni pacifiche con Israele per lunghi periodi. Potrebbe e dovrebbe riesaminare la Carta di Hamas del 1987 eliminando quei passaggi che definiscono gli ebrei un popolo cattivo e forniscono agli jihadisti motivazioni per ucciderli. Potrebbe anche preparare una nuova Carta tenendo conto di sviluppi che possono intervenire e della sua attuale opinione sul modo migliore di condurre la lotta di liberazione della Palestina. Potrebbe anche essere ora che Hamas prenda un impegno esplicito e qualificato di seguire una strada nonviolenta per il perseguimento di una pace giusta. In circostanze di occupazione prolungata e di terrorismo di stato, Hamas è certamente autorizzata ad agire per difendersi all’interno dei vincoli della legge umanitaria internazionale, e quindi può condizionare qualsiasi rinuncia tattica di lotta armata riservandosi questi diritti.
Un aspetto della rigidità di Israele che è radicato e plausibile nella sua psicologia, è la realtà della paura, e se Hamas vuole fare dei progressi verso una pace sostenibile e giusta, dovrebbe essere tanto saggio da fare del suo meglio per riconoscere questo ostacolo. Ari Shavit inizia il suo libro importante, anche se non del tutto convincente, in modo eloquente: “Infatti, fin da quando mi ricordo, ricordo la paura. Paura esistenziale…. Ho sempre pensato che oltre le case dei ricchi e i prati delle classi medio-alte della mia città c’era un oceano scuro. Avevo paura che un giorno quell’oceano scuro si sarebbe sollevato e ci avrebbe sommerso tutti. Uno tsunami mitologico avrebbe colpito le nostre coste avrebbe spazzato via la mia Israele.” (My Promised Land: The Triumph and Tragedy of Israel [ La mia terra promessa: il trionfo e la tragedia di Israele], New York: Spiegel & Grau, 2013).
Non intendo far pensare che questi sentimenti mitighino in alcun modo le ingiustizie imposte al popolo palestinese per quasi un secolo. Dico che questi sentimenti tra gli israeliani sono reali e diffusi tra la popolazione ebraica che vive a Israele e che il processo di indurre altri israeliani a cercare una pace genuina dipende dalla sensibilità che mostra Hamas riguardo a questa realtà. Questo richiamo non significa affatto che Israele non avrebbe potuto fare di più in questo periodo, specialmente per mitigare il forte sospetto che le eccessive richieste del governo israeliano emanate in nome della sicurezza e il grido di paura e di odio, sia verso Hamas che verso l’Iran non venga manipolato da una dirigenza cinica di Tel Aviv senza il minimo interesse per la pace e per l’accordo in termini ragionevoli, ma che cerchi soprattutto di procedere al controllo praticamente di tutta la Palestina storica e allo sfruttamento di tutte le sue risorse. In altre parole, le ‘paure’ di Israele sono allo stesso tempo autentiche e offrono un’utile tattica dilatoria. Vorrei anche sottolineare l’importanza della situazione concreta: Israele come fiorente potenza e stato pienamente sovrano a in confronto ad Hamas che è l’autorità di governo della Striscia di Gaza, piccola, bloccata e totalmente vulnerabile, la cui popolazione impoverita è stata tenuta di proposito da Israele a livello di sussistenza e continuamente soggetta al terrore dello stato di Israele almeno dal 1967.
Un argomento saliente in questo contesto è se sia ragionevole e auspicabile insistere che Hamas adotti un nuovo accordo come precondizione alla sua accettazione di essere un partecipante politico legittimo. Da una parte, come citato prima, Israele se fosse così motivato, potrebbe ricercare opzioni di accordo senza correre ulteriori rischi per la sicurezza a causa del suo totale predominio militare, e quindi senza né fidarsi di Hamas né fare della rinuncia della Carta di Hamas del 1987* una precondizione. D’altra parte il fatto che Hamas sarebbe disponibile a emendare la sua Carta o ad adottarne una nuova, fornirebbe una qualche indicazione tangibile che non richiede più l’uccisione degli ebrei (articolo 7) e che non insista più che l’Islam impone che perduri una lotta santa e violenta fino a che ogni centimetro della Palestina cada sotto il dominio musulmano (articoli 13 e 14). Se le dichiarazioni pubbliche fatte dai capi di Hamas negli anni scorsi devono essere prese sul serio, allora Hamas deve a se stesso e a coloro che agiscono in solidarietà con la lotta palestinese un chiarimento sulla sua attuale visione politica di pace e di giustizia. Tale chiarimento è coerente con la riaffermazione della responsabilità di Israele e del movimento sionista per le passate ingiustizie e per la relativa negazione dei diritti fondamentali e inalienabili del popolo palestinese, soprattutto del diritto all’auto-determinazione.
Dalle posizioni esposte qui, sembra chiaro che a questo punto la dirigenza ufficiale israeliana non è incline a cercare un risultato diplomatico della lotta che include l’occuparsi delle legittime lagnanze palestinesi. Per questo motivo soltanto è giusto concludere che la “inquadratura” della diplomazia per gli accordi di Oslo nel 1993, come dimostrato recentissimamente nei negoziati di Kerry, è una trappola e un’illusione per quanto riguarda i palestinesi. Non soltanto congela la situazione attuale, ma sposta le realtà concrete nella direzione dell’espansionismo israeliano ottenuto per mezzo delle annessioni, e va verso la fase finale del pensiero sionista, incorporando la Giudea e la Samaria (la Cisgiordania) in una versione israeliana della soluzione di un unico stato. Queste mosse in effetti normalizzano la struttura tipo apartheid dei rapporti tra coloni israeliani e residenti palestinesi, ed eliminano il pretesto di essere d’accordo sull’istituzione di uno stato palestinese indipendente. Su questo sfondo, la motivazione per cambiare la Carta di Hamas, dovrebbe essere intesa non per tranquillizzare il governo israeliano, ma per manifestare la sua visione e la sua strategia modificate e per esercitare una certa influenza sulla cittadinanza israeliana e sull’opinione pubblica mondiale. E’ necessario comprendere che qualunque cosa dovesse fare Hamas per compiacere Israele, non farebbe alcuna differenza fondamentale. Quello che è importante per l’attuale fase del movimento nazionale palestinese, è mobilitare un’opposizione militante nonviolenta e l’appoggio alla solidarietà. E’ su questo simbolico campo di battaglia di legittimità che ora poggiano le speranze palestinesi.
*http://it.wikipedia.org/wiki/Hamas
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org
Fonte: http://zcomm.org/znet/article/preparing-the-path-to-a-just-peace-for-palestine-israel
Originale: Richardfalk.com Traduzione di Maria Chiara Starace; revisione a cura del Centro Studi Sereno Regis
15 giugno 2014
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