Perché i colloqui di pace sono falliti e non dovrebbero essere ripresi

Richard Falk

Una settimana  fa Israele ha sospeso la sua partecipazione ai colloqui di pace come replica alla notizia che l’organizzazione  Fatah,  dell’Autorità Palestinese, aveva concluso per la terza volta un accordo di unità con la dirigenza di  Hamas  di Gaza.  Questa mossa verso la riconciliazione tra fazioni palestinesi, avrebbe dovuto essere ben accolta da Israele come un passo preliminare nella direzione giusta. Invece è stata immediatamente denunciata da Netanyahu come la fine della strada diplomatica,  sostenendo che Israele non farà mai parte di nessun processo politico che includa un’organizzazione terrorista impegnata nella sua distruzione.  Senza la partecipazione di Hamas, qualsiasi risultato diplomatico di negoziati sarebbe probabilmente stato di discutibile valore, e inoltre, Hamas merita un inserimento. Si è comportato come un protagonista politico da quando ha preso parte alle elezioni legislative palestinesi del 2006, e ha ripetutamente indicato la sua disponibilità a raggiungere un accordo di normalizzazione a lungo termine con Israele se e quando Israele sarò pronto a ritirarsi completamente nei confini del 1967 e a rispettare i diritti di sovranità palestinese. La disputa che Hamas è impegnato nella distruzione di Israele, è pura propaganda, un mezzo cinico di manipolare il fattore della  paura nella politica estera israeliana, e anche di assicurare la persistenza del conflitto. Questo approccio è diventato il modo di Israele di scegliere l’espansione invece della pace, e apparentemente ignora il mandato dei suoi cittadini di assicurare uno stabile trattato di pace.

Giorni prima Israele aveva protestato per un’iniziativa presa dall’Autorità Palestinese per diventare una parte in 15 trattati internazionali. Ancora una volta,  un passo che sarebbe stato considerato costruttivo se cercava una fine al conflitto, non si riusciva a trovare nel programma  di Israele. Un’iniziativa del genere sarebbe stata interpretata in modo positivo come indicazione dell’intenzione di palestinese di essere un membro responsabile della comunità internazionale. La debole asserzione contraria di Israele è che agendo indipendentemente, l’Autorità Palestinese si allontanava dal piano di azione concordato di negoziati, ipotizzando prematuramente  le prerogative di uno stato invece che aspettare vanamente che un tale stato venga garantito per mezzo della strada diplomatica di accordi bilaterali.

Per rimuovere qualsiasi dubbio sulle priorità del governo guidato da Netanyhau, Israele durante i nove mesi si è messo da parte  per raggiungere un accordo, ha autorizzato non meno di 13.851 nuove unità abitative, ha aggiunto  quantità significative di terra  disponibile per l’espansione di ulteriori insediamenti, e ha demolito 312 case palestinesi. Queste azioni non erano soltanto illegali, ma di fatto hanno accelerato l’andamento di precedenti insediamenti, ed erano ovviamente provocatorie da una prospettiva palestinese. Come ha osservato l’editorialista di Haaretz,  Gideon Levy, durante un’intervista alla televisione, se Israele autorizza anche una sola  ulteriore unità abitativa  durante i negoziati, manda un chiaro segnale al popolo palestinese e ai suoi leader che non ha alcuna intenzione di raggiungere un accordo di pace sostenibile.

Il ripristino dei negoziati diretti dello scorso agosto tra il Governo di Israele e l’Autorità Palestinese è stata principalmente un’iniziativa  di forza  del Governo degli Stati Uniti, stimolato da John Kerry, il Segretario di Stato americano che ha fatto una  pressione implacabile su entrambe le parti per iniziare a parlare malgrado l’ovvia inutilità di un tale processo fin dall’inizio. Questa decisione solleva la domanda ancora senza risposta, ’perché’? Kerry ha proclamato in maniera melodrammatica che questi negoziati erano l’ultima occasione di salvare la soluzione dei due stati come mezzo per terminare il conflitto, dichiarando di fatto che questo nuovo turno di negoziati appoggiati dagli Stati Uniti era un momento per il successo o il fallimento   di decisione per l’Autorità Palestinese e Israele. Kerry ha rinforzato questo appello avvertendo che Israele rischia l’isolamento e il boicottaggio se non si raggiunge alcun accordo e negli ultimi giorni ha dichiarato, a porte chiuse, che Israele stava prendendo una strada  che poteva portarlo a diventare uno stato di apartheid per il suo evidente rifiuto di cercare una soluzione diplomatica.

E’ probabilmente irrilevante che nessuno al Dipartimento di Stato abbia informato  Kerry prima  che affrontasse questa situazione pericolosa, che l’obiettivo dei due stati che lui ha appoggiato in maniera  così incondizionata era già morto e sepolto come opzione realistica, e anche che  Israele aveva stabilito un regime di apartheid in Cisgiordania decenni fa, facendo in modo che  la sua affermazione presumibilmente discutibile venisse intesa come una ‘notizia vecchia.’  In altre parole, Kerry si è dimostrato goffamente non aggiornato, esprimendo avvertimenti futuri su faccende di cui si parlava usando già il tempo passato. Rispetto all’apartheid, si è ulteriormente screditato scusandosi per avere usato quella parola in risposta alle obiezioni fatte dai sostenitori di Israele negli Stati Uniti, comunque il termine ‘apartheid’ riesca ora a descrivere la natura discriminatoria dell’occupazione. I leader americani si presentano come dei vigliacchi in rapporto alle sensibilità israeliane quando si ritirano in questo modo dalla realtà senza mostrare il minimo segno di imbarazzo.

L’accordo di Israele e dell’Autorità palestinese di sedersi insieme e trattare è “spirato” il 20 aprile, tuttavia l’infaticabile Kerry abbastanza eccezionalmente ha spinto le parti a concordare un’estensione con una giostra  di incontri nelle scorse settimane, rivelando uno stato d’animo che oscillava scomodamente tra l’esasperazione e la disperazione. Anche se i colloqui si dovevano ripristinare, come potrebbe ancora accadere, questo non si dovrebbe interpretare come uno sviluppo ottimista. Non c’è affatto alcuna ragione di pensare che un processo diplomatico nell’attuale clima politico sia in grado di produrre una pace giusta e sostenibile. Pensare in modo diverso comprende un’illusione, e, più significativamente, dà a Israele ulteriore tempo per consolidare i suoi piani di espansione a un punto tale che rende assurdo immaginare la creazione di uno stato sovrano palestinese parallelo realmente fattibile e indipendente. Fino a quando non esistono precondizioni politiche per una fruttuosa diplomazia inter-governativa, le richieste di negoziati dovrebbero essere abbandonate. Entrambe le parti devono avvicinarsi ai negoziati con un incentivo genuino di concludere un accordo che sia giusto per l’altra parte, e questo implica una disponibilità a rispettare i diritti palestinesi in base alla legge internazionale. Per i motivi indicati, quelle precondizioni non esistono da parte israeliana. Questo rende molto deviante dare la colpa del fallimento dei colloqui a entrambe le parti o talvolta perfino a puntare il dito contro i palestinesi, come è successo abitualmente sui media occidentali convenzionali ogni volta che i negoziati finivano contro un muro.

E’ stato dolorosamente ovvio fino da Oslo (1993), che c’è qualcosa di fondamentalmente inadeguato circa il doppio ruolo svolto dal governo degli Stati Uniti in relazione a tali negoziati. Come può essere creduto quando i funzionari americani dichiarano ripetutamente che il loro paese rimarrà per sempre l’alleato incondizionato di Israele, e tuttavia, contemporaneamente, non danno la minima fiducia ai palestinesi che sono una terza fazione neutrale che cerca di promuovere una pace giusta? La breve risposta  è che ‘non può’ e ‘non lo farà’. Proprio dal principio della recente iniziativa diplomatica questa contraddizione di ruoli è stata risolta a favore di Israele, quando Obama ha nominato Martin Indyk Inviato Speciale cui è stato affidato il delicato ruolo simbolico di sovrintendere ai negoziati. Indyk ha una lunga carriera pubblica di partecipazioni in appoggio a Israele, compreso l’impiego nella famigerata lobby AIPAC* che esercita la sua sproporzionata influenza filo-israeliana sull’intera scena politica americana. Soltanto la debolezza dell’Autorità Palestinese può spiegare una disponibilità ad affidare il suo destino diplomatico a una     struttura che già pende fortemente a favore di Israele a causa delle sue abilità e delle sue forze in quanto esperta protagonista politico sul palcoscenico globale.

Su questo sfondo dobbiamo chiederci  che cosa si guadagna e che cosa si perde con tali negoziati infruttuosi. Ciò che Israele e gli Stati Uniti  hanno ottenuto è una certa speranza che mentre i negoziati procedono, il conflitto non subirà una escalation prendendo una piega indesiderata verso una Terza Intifada che con la forza  sfida le politiche di occupazione di Israele associate alla Cisgiordania, a Gerusalemme est e a Gaza. C’è anche la sensazione che fino a quando il governo degli Stati Uniti viene visto come sostenitore della soluzione dei due stati, esso soddisfa le aspettative regionali, e fornisce la base logica per appoggiare perfino un futile tentativo diplomatico perché è l’unica scelta possibile e sembra perverso contestarne l’utilità senza presentare un’alternativa. Lo stesso mondo arabo ha approvato e di recente riaffermato la sua formale accettazione dello stato palestinese entro i confini della linea verde del 1967, con capitale Gerusalemme Est. Una visione di pace di questo genere deriva dalla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 242 votata all’unanimità che aveva come premessa il ritiro di Israele dai territori occupati nel corso della guerra del 1967, ma anche una giusta soluzione del problema dei rifugiati. E c’è un apprezzamento quasi universale espresso per la dedizione di Kerry a risolvere il conflitto, e quindi è una specie di storia di successo di pubbliche relazioni, malgrado i gravi inconvenienti  che ho citato.

In effetti c’era stato un consenso globale fin dal 1967 riguardo a stabilire la pace tra Israele e Palestina, rafforzato dall’apparente mancanza di alternative; infatti le uniche che vengono ritenute possibili  sono quella dei due stati o la continuazione del conflitto. Si dovrebbe riconoscere che già nel 1988 l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) sotto la guida di Yasser Arafat, aveva rinunciato ai suoi obiettivi massimalisti e aveva indicato formalmente la sua disponibilità a fare la pace con Israele basata su questi confini del 1967, con l’implicita prontezza a raggiungere un compromesso sul problema dei rifugiati. Un approccio di questo genere ha permesso a Israele di possedere confini sicuri basati sul 78%  della Palestina storica e ha limitato lo stato palestinese al rimanente 22%, che è meno della metà di quello che l’ONU aveva offerto ai palestinesi con la sua proposta di spartizione del 1947, che a quell’epoca sembrava irragionevole da un punto di vista palestinese. Nella valutazione del conflitto, questo concessione palestinese storica, forse fatta imprudentemente dall’OLP, non è stata mai riconosciuta, molto meno ricambiata, o da Israele o dagli Stati Uniti. Secondo me questa assenza di replica ha mostrato da sempre una fondamentale mancanza di volontà politica da parte di Israele di raggiungere una soluzione per mezzo di negoziati tra i governi, sebbene alcuni interpretino l’iniziativa del 2000 di Camp David come l’ultima volta che la dirigenza israeliana sembrava in qualche modo incline a risolvere il conflitto con la diplomazia.  L’Autorità Palestinese dipende da Israele per trasferire le entrate fiscali  su cui poggia la sua capacità di governare, e di solito può essere messa in riga se agisce in segno di sfida verso Tel Aviv e Washington. Inoltre, la collaborazione con Israele per accordi sulla sicurezza, crea co-dipendenza e dà anche una misura di stabilità alla situazione altrimenti congelata. Occasionalmente, in apparenza con intenti idealisti, l’Autorità Palestinese e Abbas sfidano questa immagine suggerendo la loro opzione di lasciare la scena politica e di restituire a Israele le responsabilità di amministrare la Cisgiordania.

Il consenso sulla soluzione dei due stati è stato sempre più contestato nel corso degli anni da palestinesi influenti, come Edward Said che verso la fine della sua vita sosteneva che, in vista di sviluppi che potevano verificarsi successivamente al   1988, soltanto la soluzione di un solo stato poteva riconciliare i due popoli in maniera accettabile, basata sul reciproco rispetto per i diritti, la democrazia e l’uguaglianza.

Il sostegno a un singolo stato democratico laico ricorre a  due serie di argomenti: una disputa pragmatica che il processo degli insediamenti e il cambiamento demografico di Gerusalemme Est sono essenzialmente irreversibili e così non ci sono mezzi praticabili in questo periodo per creare uno stato palestinese, e questo diventa più evidente ogni giorno che passa; una disputa di principio in base alla quale non ha nessun senso politico o etico nel ventunesimo secolo incoraggiare la formazione di stati etnici, specialmente come in questo caso in cui il 20% della popolazione israeliana è palestinese, ed è soggetta a una molteplicità di misure legislative discriminatorie. Per alcuni aspetti, l’essenza della difficile  situazione palestinese è riconoscere che è troppo tardi per la soluzione dei due stati e apparentemente troppo presto per la soluzione di un solo stato.

Immaginando che la via diplomatica è bloccata, per i palestinesi la situazione è senza speranza? Credo che le speranze palestinesi per una pace giusta non sarebbero mai dovute dipendere dal risultato di una diplomazia formale per le ragioni fornite qui sopra. Detto in modo succinto, dato il fallimento di Israele di ascoltare la richiesta       di  ritiro  nella Risoluzione  242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU,  la sua mancata replica all’accettazione del 1988 da parte dell’OLP di Israele entro i confini del 1967, e il suo impegno coerente all’espansione degli insediamenti, nessuna persona sana di mente avrebbe dovuto porre molta fiducia  nella prontezza  di Israele a fare una pace rispettosa dei diritti palestinesi in base alla legge internazionale. Attualmente, la migliore prospettiva per attuare l’autodeterminazione palestinese è per mezzo di pressioni esercitate  grazie alla mobilitazione di un movimento che venga dal basso e che unisca opposizione popolare e solidarietà globale. Tale processo, che ho chiamato ‘guerra per la legittimazione’ esemplificata dalla vittoria nonviolenta di Gandhi sull’Impero britannico, e di recente dal successo del movimento globale anti- apartheid contro il Sudafrica razzista, rappresenta la più recente svolta strategica nel movimento nazionale palestinese, e  sembra perfino compatibile con il recente atteggiamento di Hamas espresso dai suoi capi e confermato dal suo comportamento.

E’ ora di riconoscere che l’approccio attuale del movimento popolare palestinese poggia su due ampi progetti: la scelta di tattiche di resistenza nonviolenta e un movimento di solidarietà globale che si va rafforzando sempre di più, incentrato sulla iniziativa  boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) che sta prendendo slancio in tutto il mondo, specialmente in Europa. Questi progressi sono rafforzati dagli appelli dell’ONU agli Stati Membri perché rammentino ai protagonisti delle grosse imprese che sono sotto il loro controllo nazionale, che è problematico, in base alla legge internazionale, impegnarsi in rapporti di affari con gli insediamenti israeliani. In effetti ci sono orizzonti di speranza per i palestinesi riguardo alla ricerca di una pace giusta e sostenibile tra queste due comunità etniche che sta guadagnando la maggio parte del suo impatto e della sua influenza grazie alle azioni della gente piuttosto che alle manovre dei governi. Naturalmente, se il clima politico cambia, in reazione alle pressioni per una lotta  per la legittimità,  i  governi dovrebbero avere un ruolo fondamentale da svolgere in futuro, traendo vantaggio da un nuovo equilibrio di forze che potrebbe mettere in grado la diplomazia di muoversi verso delle soluzioni. La diplomazia costruttiva contrasterebbe con quello che è trapelato di recente, che sembrava unire la deviazione dall’espansionismo di Israele seguita dalla partecipazione a un gioco infantile di accuse reciproche. E’ importante che l’opinione pubblica mondiale rifiuti come insensata la farsa diplomatica dei colloqui di pace mentre il destino di un popolo continua a essere sacrificato quotidianamente sull’altare della geopolitica.

*http://it.wikipedia.org/wiki/AIPAC

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org

Fonte: http://zcomm.org/znet/article/why-the-peace-talks-collapsed-and-should-not-be-resumed

Originale: Richardfalk.com Traduzione di Maria Chiara Starace

5 maggio 2014

http://znetitaly.altervista.org/art/14858


 

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.