ll punto sulla Resistenza nonviolenta

Enrico Peyretti

A proposito del liro di Ercole Ongaro, Resistenza nonviolenta 1943-45, I libri di Emil, Bologna 2013.

Questo libro è il lavoro più recente, riassuntivo e integrativo riguardo alla letteratura sulla Resistenza italiana nonarmata e nonviolenta. Questa componente fondamentale della lotta di liberazione fu scoperta e valorizzata anzitutto da storiche attente al contributo delle donne alla Resistenza, che corressero la prima immagine storiografica ridotta al solo aspetto armato di quella lotta. Contrariamente a quel che si crede, la lotta giusta e nonviolenta non è utopia, ma è anche un’ampia realtà storica documentata, con successi più frequenti delle lotte armate. Una bibliografia generale Difesa senza guerra si trova in Google e in Peacelink.

L’Autore è direttore dell’Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, di Lodi (Ilsreco). Nei diversi capitoli del volume, egli esamina quale memoria della Resistenza abbiamo oggi, e poi documenta l’aiuto dato dalla popolazione ai soldati in fuga dopo l’8 settembre 1943, agli ex-prigionieri alleati, agli ebrei, le lotte nelle fabbriche, nelle campagne, nella scuola, la Resistenza degli internati militari, i deportati razziali e politici, i renitenti alla leva, la Resistenza delle donne, la stampa clandestina, i Comitati di Liberazione Nazionale, e nell’ultimo capitolo si chiede: quale senso per la Resistenza armata? Per ognuno di questi aspetti Ongaro porta dati e testimonianze generali, regionali e locali (Modenese e Reggiano, Valtellina, Comasco, Bresciano, Milanese, Roma, Torino, Genova, Milano, Toscana, Bolzano). Il volume è stato presentato venerdì 7 marzo nel Centro Studi Sereno Regis, via Garibaldi 13, Torino.

Si stima che abbiano partecipato più persone alla Resistenza civile, non armata, che a quella armata (p. 14). L’appoggio non armato alla lotta armata non è da confondere con l’autonoma mobilitazione popolare in difesa dei diritti umani e civili né con la disobbedienza agli ordini nazi-fascisti (p. 15)

Claudio Pavone, nel numero della rivista Il Ponte dedicato al 50°, nel 1995, riconobbe che la resistenza civile, documentata da storiche come Anna Bravo ed altre, era tutt’altro che zona grigia o attendismo.

Lutz Klinkhammer, il maggiore storico della occupazione tedesca dell’Italia, valuta che la resistenza civile in forme collettive può avere più forza di un gesto armato (p. 19). Più volte Lidia Menapace ha mostrato che la Resistenza fu un movimento essenzialmente politico, dove l’aspetto militare era del tutto strumentale, non fondativo, come invece in un esercito (p. 23). Così la Resistenza non è affatto una guerra: può essere nonviolenta una resistenza, non una guerra (p. 23-24). A Lodi partecipò alla Resistenza lo scultore Ettore Archinti, che era stato obiettore di coscienza nella prima guerra mondiale (p. 52).

Tra coloro che aiutarono gli ebrei perseguitati si trovano molti preti, soprattutto del basso clero, ma anche alcuni vescovi, come il cardinale di Torino, Fossati (p. 67). Vi si può vedere un riscatto dall’appoggio cattolico dato al fascismo negli anni del regime. Si può aggiungere la recente testimonianza del milanese don Giovanni Barbareschi : http://anpcnazionale.com/2014/01/13/don-giovanni-barbareschi-un-prete-ribelle-per-amore/

Per salvare gli ebrei, si falsificavano abilmente le loro carte d’identità (p. 70): a questa operazione partecipò anche Gino Bartali, recentemente riconosciuto “giusto tra le nazioni” (p. 82, 238).

Nel momento del rastrellamento e deportazione degli ebrei di Roma, il 16 ottobre 1943, Pio XII restò in un ben discutibile silenzio, probabilmente temendo ritorsioni sui cattolici (p. 84-85). Ma, mentre 2091 furono gli ebrei romani deportati, 4.447 furono nascosti e salvati in istituti religiosi cattolici (p. 86). Gli ebrei in Italia erano 45.000: 8.566 furono deportati, 37.000 furono aiutati.

Le lotte nelle fabbriche, nelle campagne e nelle scuole (p. 90 e ss., p. 118-19, 124) furono un vero prodromo della Resistenza attiva. A Genova due operai furono fucilati (p. 98-99) ma un gruppo di carabinieri con il loro tenente rifiutano di fucilare otto prigionieri politici, condannati per rappresaglia dell’uccisione di un ufficiale tedesco. Anche le donne contadine si distinguono nella lotta (p. 113)

Il rifiuto, a costo di gravi sofferenze fisiche e morali, dell’80-85% degli internati militari in Germania di venire rimpatriati alla condizione di aderire all’esercito della Repubblica sociale collaborazionista dei tedeschi, fu solo tardivamente riconosciuto come vera eroica resistenza. Questo è un capitolo toccante. Io ho l’età sufficiente per ricordare bene la semplicità con cui, a guerra finita, questi militari tornarono a casa senza nessun vanto. Il mio giovane professore di lettere, Orlando Lecchini, in prima media, ottobre 1945, era appena rientrato e noi lo sapemmo dopo diversi anni..

Durante un viaggio in Grecia, nel giugno 2008, la guida Anita ci racconta che a Cefalonia, dopo l’8 settembre 1943, i tedeschi dicevano di voler salvare, dal massacro dei soldati italiani resi prigionieri, gli alto-atesini. Per dare possibilità ad un numero più alto di soldati di farsi credere tali, molti meridionali si segnalarono subito come tali, non alto-atesini, sacrificandosi. I tedeschi fecero partire degli italiani verso Atene dove avrebbero trovato altri connazionali, ma minarono le navi che esplosero in mare. I cadaveri arrivavano a riva. Li bruciavano in pire sulla spiaggia. Dall’isola di Itaca, che è di fronte, gli abitanti vedevano i fuochi, si segnavano e pregavano. Gli anziani lo ricordano ancora oggi e quando vedono un fuoco si fanno il segno di croce e pregano per gli italiani, come allora.

La storia dei deportati politici e razziali è più nota. Anche tra loro ci furono reali frammenti di Resistenza, soprattutto per “restare umani” in un sistema studiato per distruggere la dignità umana (pp. 153-156). Tra i deportati politici, i più resistenti erano quelli sostenuti specialmente da una fede religiosa o politica ideale (p. 161-170)

L’Autore indica sempre con accurata precisione i numeri dei deportati e delle vittime (come le donne a Ravensbrück, p. 175)

Nei vari lager d’Europa, e non solo in quelli di transito, si formarono comitati di resistenza che agivano, nelle più inimmaginabili condizioni, con determinatezza e precisione (p. 176-184). Ciò dimostra «che un sistema aberrante e disumano può assassinare i suoi “nemici”, ma non può annientare i sentimenti umani e la dignità di chi sopravvive» (p. 184).

I renitenti alla leva imposta dalla repubblica fascista erano causa di angoscia nelle famiglie, di arresto dei loro genitori (p. 185-188). Ci furono azioni nonviolente di donne a Crema, a Torino (p. 188-189).

C’erano sanzioni fino alla pena di morte, e ciononostante avvennero fughe e diserzioni, aiuto della popolazione ai renitenti, manifestazioni di donne, ma anche fucilazioni. Giovani reclutati esprimevano dissenso sovversivo fin dentro le caserme. Alcuni, anche carabinieri, passavano ai ribelli (p. 192-197). Io stesso, bambino di otto anni, presente con i miei fratelli più piccoli, ho visto un bersagliere repubblichino, di nome Vismara, venire in casa, mettersi in borghese, e passare ai partigiani.

«Nella storia dell’Italia unita non era mai stata scritta una pagina di così intensa mobilitazione popolare e di diffusa disobbedienza civile per dire no ad un esercito che combatteva a fianco dell’occupante nazista» (p. 199). Io mi trovavo in Lunigiana, a Bagnone, e Mussolini, nel gennaio 1945, passò nel vicino paese di Mocrone. La famiglia Berardi (madre e figlia) che fu obbligata ad ospitarlo, ci raccontava che era anche fisicamente irriconoscibile.

Ma anche al sud, in Sicilia, al momento di un nuovo reclutamento nel contingente italiano che combatteva con gli Alleati sulla Linea Gotica, una donna, Maria Occhipinti, si ribella quando è richiamato il marito, e solleva una rivolta popolare, con numerose vittime, contro la continuazione della guerra (p. 199).

Tutto il capitolo 9 è dedicato alla resistenza delle donne, nella forma armata e in quella non armata. Le donne sono state nonviolente non per natura, ma per scelta morale e pratica (p. 204). Una toccante testimonianza mostra la relazione misteriosa tra madri che non si conoscevano: proteggendo qui un soldato in pericolo speravano che un’altra madre proteggesse il loro figlio lontano, in guerra (p. 207-208).

A Roma, nel marzo 1944, manifestazioni di donne ottengono l’abolizione del traffico militare tedesco attraverso la “città aperta”. Due donne vengono uccise, altre dieci sono fucilate il 7 aprile (p. 210-211).

Notevole il moto di migliaia di donne di Carrara, il 10-11 luglio 1944, che si ribellavano all’ordine di sgombero della città imposto dai tedeschi, fino a costringerli a revocarlo (p. 212-13). Io frequentai il ginnasio e liceo a Carrara dal 1948 al 53, solo quattro anni dopo, e mi sorprende il fatto che non seppi mai nulla di questa eroica azione. Si veda in internet la storia di Francesca Rolla.

Nei primi giorni del marzo in corso, 2014, si ha notizia che in Crimea civili, soprattutto donne, si interpongono tra miliziani filo-russi e sedi pubbliche ucraine, minacciate dai primi, e cantano l’inno nazionale sia in lingua ucraina sia in russo, per sostenere la convivenza e la pace tra popoli ed etnie.

Nell’aprile 1944, a Parma, una manifestazione tumultuosa di donne ottiene la revoca o sospensione di alcune condanne a morte di partigiani (p. 214-15).

Altro si dovrebbe segnalare, se lo spazio bastasse, sui capitoli dedicati alla stampa clandestina, vera arma nonviolenta di movimento delle coscienze, e ai Comitati di Liberazione Nazionale.

«Quale senso per la Resistenza armata?» si chiede l’Autore nell’ultimo capitolo (p. 285-299). Riconoscendo e rilevando il valore innovatore della Resistenza non armata, civile, nonviolenta, noi non condanniamo i partigiani che lottarono con le armi. Il libro di Ongaro mostra bene in quali condizioni molti decisero questa forma di lotta. Le forme nonviolente furono quasi solo spontanee, senza tecniche conosciute e organizzate. Molti partigiani usarono il meno possibile le armi, parecchi parteciparono senza mai usarle. Ci disse Norberto Bobbio in un incontro tra pochi, nel 1994: «A volte mi sono pentito di non avere ucciso un tedesco, ma so che se l’avessi fatto me ne pentirei».

D’altra parte conosciamo casi che dimostrano come l’uso delle armi, anche giustificabile per necessità, rischia molto di disumanizzare le persone. Io stesso, all’età di nove anni, dovetti assistere ad una inutile ingiusta dolorosa fucilazione, a guerra finita, di tre soldati tedeschi, sbandati nella ritirata, da parte dei partigiani, nonostante l’opposizione della popolazione. C’è chi abusa di questi casi per condannare tutta la Resistenza. Ongaro invece sottolinea che la più vasta componente della Resistenza, quella civile e non armata, indica eminentemente il profondo esteso risveglio di coscienza umana, dopo gli anni dell’ideologia esaltante la violenza, carattere essenziale del fascismo, che aveva infestato gli animi. I partigiani non erano terroristi. Insieme a chi lottava senza le armi, volevano uscire dal tempo della violenza, come proclamerà la Costituzione del 1948 con l’articolo 11. Noi li esaltiamo non perché hanno vinto, ma per ciò che volevano, e perché erano dalla parte giusta.

 

1 commento
  1. Alberto Zangheri
    Alberto Zangheri dice:

    Abbiamo letto e discusso anche noi questo testo all'interno del gruppo Mir di Padova, in cui per tanti anni ci siamo occupati di storia della resistenza nonviolenta. Riteniamo il testo molto ben fatto, sia per le notizie storiche, che raccolgono anche il frutto di tanti lavori precedenti, sia per l'approccio generale con cui valuta il significato della resistenza nonviolenta. Questo approccio meriterebbe un ascolto e una riflessione da parte degli specialisti, che, soprattutto negli anni immediatamente successivi alla guerra, hanno privilegiato nella Resistenza il suo aspetto di lotta armata. Ci sembra invece purtroppo che il libro non sia stato molto recensito e discusso. Speriamo di esserci sbagliati e che qualcuno ci contraddica.

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