La verità di Gandhi. Le origini della nonviolenza militante

Elsa Bianco

Erik H. Erikson, La verità di Gandhi. Le origini della nonviolenza militante, Castelvecchi, Roma 2013, pp. 472, € 29,00

La verità di GandhiNon pretendo di essere perfetto.
Ma pretendo di essere un appassionato ricercatore della Verità,
la quale non è altro che un sinonimo di Dio.
È nel corso di tale ricerca che ho scoperto la nonviolenza.
La diffusione di essa è la missione della mia vita.
Non ho altri interessi nella vita che lo svolgimento di questa missione.

«Harijan», 7 luglio 1940

Erikson con questo libro ha scritto una nuova, originale e profonda biografia di Gandhi e presenta anche il prodotto della sua ricerca sul senso della presenza storica di Mahatma Gandhi e di ciò che lui chiamò la «Verità».

L’elemento centrale dal quale si dipana la riflessione è l’analisi di una lotta nonviolenta diretta da Gandhi e avvenuta nel 1918 in una fabbrica tessile di Ahmedabad. La richiesta di un aumento di salario da parte degli operai di un cotonificio coinvolge Gandhi sino al punto di portarlo a dichiarare di essere pronto a sacrificare la propria vita con il digiuno. Digiuno inteso come strumento fondamentale da applicare e inserire in un nuovo metodo di gestione nonviolenta dei conflitti e per raggiungere una leadership civile e politica.

In questa controversia strettamente locale l’atto di Gandhi fu minimizzato perché non rispondeva all’aspettativa di nessuno, tanto da indurre Gandhi stesso a scrivere una modesta lettera di spiegazioni intitolata: L’opinione di Mr. Gandhi, che sarà pubblicata nel mese di marzo 1918 dal giornale «Bombay Chronicle». Così iniziava la lettera:

Forse devo una spiegazione al pubblico circa il mio recente digiuno. Alcuni amici l’hanno considerato stupido, altri vile ed altri ancora peggio. Secondo me sarei stato sleale con il mio Creatore e verso la causa che devo abbracciare, se avessi agito diversamente. (p. 46)

L’inafferrabile Evento di Ahmedabad descritto da Gandhi e da alcuni biografi come un semplice episodio della sua vita e della storia indiana, invece, rappresentò un avvenimento di importanza fondamentale per la sua ascesa a capo della nazione e per l’inizio del movimento nonviolento in India. Un Evento in cui la filosofia della nonviolenza militante fu espressa ?con la pratica del digiuno, in particolare ?e divenne pratica di uno strumento politico di lotta applicabile su vasta scala.

Solo attraverso la composizione di una visione «altra» da quella già sinteticamente raccontata nelle biografie di Gandhi, si può arrivare a capire il posto che eventi di tale genere occupano nello sviluppo psicosociale della persona e riconoscere l’importanza eccezionale del perseguire la «Verità» di Gandhi nella gestione nonviolenta dei conflitti. Per sviluppare questa tesi Erikson necessariamente ricostruisce l’Evento «come punto focale da cui partire per alcune riflessioni più ampie sulle origini, nella vita stessa e nell’opera di Gandhi, del metodo che lui arrivò a definire forza della verità» (p. 8).

La rilettura che ne fa l’autore, pur non essendo uno storico e nemmeno un esperto della cultura indiana, esprime quanto sia rimasto affascinato da quei mesi del periodo della maturità di Gandhi (aveva circa una cinquantina di anni). Questo particolare periodo del ciclo della vita lo incuriosisce come psicoanalista, lo coinvolge nel profondo e lo induce a svolgere le sue osservazioni di tipo clinico. Il raccontare di nuovo quanto era accaduto nei suoi minimi dettagli è stata la via seguita da Erikson per provare a spiegare il fatto che, solo un anno dopo, Gandhi emergesse come leader del primo atto di disobbedienza civile a carattere nazionale.

Nella parte terza del libro al capitolo primo: A tu per tu, Erikson, per poter meglio esprimere il senso della sua ricerca, ricorre all’espediente letterario di scrivere una lettera a Gandhi in cui chiarisce puntualmente:

«Mio compito, in questo libro, è di confrontare la verità spirituale da te formulata e vissuta con la verità psicologica da me appresa e praticata, che poi, a parer mio, quella verità che deve integrare la tua opera nel suo espandersi, in modi vari e imprevisti, oltre ai confini dell’India e al di là del tempo presente. A tal fine applicherò prima alla tua opera il metodo clinico, per poi confrontare il tuo ragionamento con il nostro, compito che riuscirò solo a portare a termine solo alla fine di questo libro» (pp. 225 e 226).

La ricerca si articola in capitoli che trattano degli amici e delle persone che circondavano Gandhi, dei parenti stretti di Shri Ambalal Sharabhai – proprietario del cotonificio e avversario durante l’evento – e dei suoi testimoni superstiti. Si ripercorrono alcuni principali momenti della vita di Gandhi – l’infanzia, la giovinezza, il periodo di studi in Inghilterra, la sua vita in Sudafrica cercando di scoprire come il ragazzo e l’uomo si svilupparono e assunsero storicamente il loro ruolo, e si indaga sulle origini personali della nonviolenza militante. In sintesi, si svolge una indagine che è contemporaneamente storica e clinica per capire perché ciò che condusse all’evento sia accaduto proprio in quel modo.

Nella parte conclusiva del suo lavoro Erikson, parlando di Gandhi, afferma: «Se dovessi dare un nome alla sua eccezionale presenza nel mondo, lo definirei “attualista religioso” (p. 400) (…) Mi si consenta dunque di interpretare, e interpretare in tutta umiltà, la forza-verità dell’attualista religioso come segue: essere disposti a morire per quel che è vero oggi significa cogliere l’unica occasione di vivere veramente» (p. 403).

Va ricordato che la lettura di questo libro oltre a offrire una originale lettura della vita di Gandhi secondo la visione della psicoanalisi, ci fa, in qualche modo, conoscere anche Erikson – uno dei più importanti psicoanalisti del Novecento – dove lo spessore del suo sapere teorico e clinico, si intreccia alla sua capacità di autoanalisi, di analisi ed elaborazione, alla sua dichiarata soggettività, alle sue impressioni e suggestioni che lo hanno intenzionato in questa sua ricerca alla quale si è affidato e che lo porta ad affermare sue motivazioni: « (…) non solo perché era tempo che mi mettessi a scrivere delle responsabilità della mezz’età, ma anche perché avvertivo una certa affinità tra la verità gandhiana e le intuizioni della psicologia moderna» ( p. 440).

Il libro è stato Vincitore del Premio Pulitzer e del National Book Award nel 1970.


 

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