Invito alla mitezza – Pietro Polito

La sincerità non ha casa in politica, come anche la lealtà”.

Questa frase non è di uno dei tanti politici che inopinatamente si sono richiamati nei secoli a Machiavelli, né descrive la politica al tempo in cui Machiavelli scrisse Il Principe. (Per intendere la distanza che corre tra Machiavelli e i machiavellici consiglio di leggere: Gennaro Maria Barbuto, Machiavelli, Salerno Editrice, Roma 2013).

Un giudizio così severo riguarda la politica contemporanea in Italia, più precisamente la politica quale si è venuta svolgendo nel mese corrente di febbraio. Gli ultimi svolgimenti politici (che hanno portato a un cambio di governo e a un mutamento di individui al comando all’interno della stessa compagine di governo e dello stesso schieramento politico) sono stati commentati con parole come: “pugnalata”, “spregiudicatezza”, “azzardo”, “cinismo”, “cannibalismo”, “fame da lupo”, “scorrettezza”, “avventura”, “eccesso”, “ambizione”.

La cifra della politica pare essere diventata l’ambizione, un’ambizione “smisurata”, “ostentata”, “esibita”, “sfrenata”, “smodata”. Così pensata e praticata, la politica celebra il suo divorzio dall’amicizia, dalla gratitudine, dall’umiltà, risolvendosi in “una eterna partita di potere”, “una cupa manovra di partito o di palazzo”. La politica come competizione per la competizione, una competizione permanente portata ovunque per la quale è stata coniata l’espressione “ipercompetizione”.

Nel bel libro di Alessandro Casiccia, I paradossi della società competitiva,Introduzione di Luciano Gallino, Mimesis, Milano-Udine 2011, trovo una frase di A. Kohn riferita alla società americana negli anni Ottanta ma che può ben essere estesa alle società europee e pure alla società italiana: “La nostra vita è diventata una serie di competizioni senza fine. Dal momento in cui suona la sveglia del mattino fino all’ora in cui il sonno s’impadronisce nuovamente di noi, da quando muoviamo i primi incerti passi dell’infanzia fino al giorno della nostra morte, siamo impegnati nella lotta per superare gli altri”.

Contro la “competizione distruttiva” che divide il mondo in vincitori e vinti e che è volta esclusivamente al tentativo di “entrare o restare nel rango dei primi”, acquista particolare pregnanza l’appello dello scienziato sociale a una “competizione mite” (Luciano Gallino).

Un appello che estende dall’etica all’economia l’elogio della mitezza del filosofo. Mi riferisco all’Elogio della mitezza che Norberto Bobbio aveva pensato e scritto nel 1983, riproponendolo al largo pubblico nel 1993 e che ora a distanza di vent’anni torna nelle librerie.

Bobbio propone la mitezza come antidoto alla politica distruttiva.

Giova ripercorrere sia pure in sintesi il ragionamento di Bobbio. La mitezza ha radici nella tradizione cristiana (i Vangeli), in quella laica (Cesare Beccaria), ma egli guarda, alla tradizione, inaugurata da Gandhi e introdotta in Italia da Aldo Capitini. Bobbio enuclea i requisiti della mitezza attraverso la distinzione tra virtù forti, che hanno una connotazione positiva, e virtù deboli che ne hanno una negativa (“una distinzione – ci dice – che ignoro sia stata fatta da altri”).

Le virtù dei forti sono le virtù dei potenti, le virtù pubbliche: fermezza, prodezza, ardimento, audacia, lungimiranza, generosità, liberalità, clemenza; le virtù deboli sono le virtù dei deboli (che non sono gli impotenti), le virtù private: umiltà, modestia, moderazione, verecondia, pudicizia, castità, continenza, sobrietà, temperanza, decenza, innocenza, ingenuità, semplicità, mansuetudine, dolcezza, mitezza.

In che senso queste virtù sono deboli? La risposta è chiara: non nel senso che sono virtù inferiori alle altre, ma nel senso che le forti caratterizzano l’azione dei potenti, le deboli l’azione degli umiliati, degli offesi, dei poveri, dei deboli.

Sulla base delle virtù forti e delle virtù deboli, con Bobbio, possiamo tracciare un ritratto del mite. Il mite non è un arrogante, un protervo, un prepotente, nondimeno ciò non fa di lui un remissivo perché egli non rinuncia alla lotta per debolezza, paura o rassegnazione, ma rifiuta la competizione che, come si è detto, portata alle sue estreme conseguenze si risolve in una gara distruttiva. Come non va scambiato con il remissivo, così il mite non è da confondere con l’umile (l’umiltà è una virtù cristiana). Bobbio configura il mite come “l’anticipatore di un mondo migliore”; diversamente l’umile è “un testimone, nobilissimo ma senza speranza, di questo mondo”. Né il mite è assimilabile al modesto che sottovaluta se stesso. La modestia, come l’umiltà, è una disposizione verso se stessi, invece la mitezza è un modo di essere verso l’altro. Infine il mite, nonostante l’indubbia affinità, va distinto dal tollerante, la mitezza è una donazione senza limiti, la tolleranza ha sempre limiti obbligati e prestabiliti.

Quelle dianzi ricordate, umiltà, modestia, tolleranza, sono le virtù affini alla mitezza. Le principali virtù complementari della mitezza sono la misericordia e la semplicità, l’una un’aggiunta, l’altra la precondizione della mitezza: “per essere miti bisogna essere semplici”. La semplicità è una delle virtù che Bobbio più apprezza anche nei suoi maestri e compagni. Uno di loro è Aldo Capitini che descrive con queste parole: “Era un uomo paziente e tranquillo, di quella calma durevole che nasce solo dopo che la tempesta è stata superata. Sapeva che l’importante è gettare il seme. […] Lo credevano un ingenuo e invece era soltanto un uomo semplice, di quella semplicità che non esclude l’accortezza; lo credevano nelle nuvole, e invece aveva i piedi stabilmente per terra, nella terra in cui era nato, che aveva percorso a piedi palmo a palmo, di cui conosceva la gente, le piccole storie, il suono delle campane. Difese con ostinazione, con energia, con successo, la propria indipendenza contro tutti. Non aveva ambizioni ma credeva fermamente nella propria vocazione”.

Ma quale funzionepuò avere la mitezza nella vita privata e nella vita pubblica?Riferendosi alla “dimensione utopica” del suo pensiero, Bobbio identifica il mite col nonviolento. Identificazione, non accolta dai nonviolenti, che necessita di qualche chiarimento.

Che cosa intende fare Bobbio accostando la mitezza alla nonviolenza?

Egli conosce perfettamente la differenza tra nonviolenza passiva e nonviolenza attiva e non intende assolutamente ridurre l’importanza politica della nonviolenza nel suo secondo significato. Il suo intento mi pare chiaro. Il laico Bobbio, pur rimanendo al di qua della nonviolenza, più che alla mitezza del Discorso della montagna, guarda a Capitini e attraverso Capitini a Gandhi. Trasportata sul terreno della politica, il mite tende la mano al nonviolento e la mitezza diventa un orientamento alla nonviolenza. Se si è miti si è tendenzialmente nonviolenti, ma non si può essere nonviolenti senza essere anche miti.

Ritengo che la mitezza sia necessaria ma che da sola non sia sufficiente per il miglioramento dei costumi italiani, il rinnovamento della politica, la rifondazione della democrazia. Il territorio della nonviolenza è più vasto di quello della mitezza, che è una ma non l’unica caratteristica della personalità nonviolenta. Giuliano Pontara ne ha enumerate dieci: 1. Il ripudio della violenza; 2. La capacità di identificare la violenza; 3. L’empatia; 4. Il rifiuto dell’autorità; 5. La fiducia negli altri; 6. La disposizione al dialogo; 7. La mitezza; 8. Il coraggio; 9. L’abnegazione; 10. La pazienza.

Un’altra Italia, un’altra politica, un’altra democrazia, richiedono che la via della mitezza si prolunghi e si inveri in quella della nonviolenza. Come amava dire il persuaso Capitini, questo “è il varco attuale della storia”. Come scrive il perplesso Bobbio forse è tempo di percorrere la nuova strada. La nonviolenza come antitesi della politica è la politica del futuro. 

2 commenti
  1. enrico peyretti
    enrico peyretti dice:

    Sì, tutti abbiamo ammirato quel testo di Bobbio, uno dei suoi più alti. Ma egli conclude che la mitezza "è la più impolitica delle virtù": Io osai osservare (con parole riportate anche nelle successive edizioni del testo di Bobbio, ripetendo errori di stampa che tolgono senso a ciò che dico) che semmai la mitezza è la virtù che permette la più giusta e meno violenta delle politiche. Bobbio mi rispose che pensavo alla politica ideale, non a quella reale. Eppure, se parliamo di virtù, parliamo di obiettivi, di orizzonti del nostro cammino sempre incompiuto, ma non disorientato.
    Enrico Peyretti

    Rispondi
  2. marina verra
    marina verra dice:

    C’è molto bisogno di mitezza e nonviolenza. Attualmente in ogni nostro lavoro o attività quotidiana dobbiamo scontrarci sul difficile crinale dell’arroganza e cercare di restare in piedi in qualche modo. A volte ci riusciamo a volte no. Quando si hanno responsabilità verso terzi, come per es. chi in questo tempo si trova a insegnare ai ragazzi, come sta succedendo a me, e assiste spesso purtroppo a come molto presto possano insinuarsi errati fenomeni di violenza e arroganza in gruppi magari sino a un minuto prima considerati “impeccabili”,allora capisci che la riflessione su questi argomenti si impone assai praticamente, oltre che dal punto di vista dell’ indubbio interesse filosofico-politico. Complimenti Pietro. Grazie.

    Rispondi

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.