Chi racconta le guerre di oggi – David Randall

I corrispondenti di guerra sono “drogati di adrenalina”, uomini e donne che non possono fare a meno del pericolo? Non sono d’accordo: corrono molti rischi per aprirci uno spiraglio di verità

Un paio di settimane fa nel Regno Unito è cominciato un fenomeno che durerà fino all’inverno del 2018. Giornali, riviste e tv hanno dato il via alle celebrazioni per il centenario della prima guerra mondiale. Come spesso accade in questi casi, è stata una decisione prematura, visto che alla data della dichiarazione di quel disgraziato conflitto mancano ancora sei mesi.

Non ho mai ben capito il fascino che la guerra esercita su tante persone. Da alcuni decenni ho notato che gli scaffali delle librerie che hanno l’etichetta “Storia” continuano a riempirsi di titoli sui conflitti e sulle armi. Esistono canali satellitari che trasmettono solo documentari di guerra, mercati dell’antiquariato che vendono spade, pugnali e uniformi, e ogni weekend ci sono decine di eventi in cui gli uomini si vestono da soldati e giocano alla guerra. Viene da chiedersi se collegano mai il loro hobby alle migliaia di persone uccise e mutilate dalle armi che tanto li affascinano.

Qualcuno dice che i corrispondenti di guerra sono solo una specie leggermente più sofisticata di fan dell’esercito, accusa che, avendone conosciuti molti, non condivido affatto. L’unico giornalista di questo tipo che ho mai incontrato è stato un tizio che lavorava per il mio primo giornale, che era così innamorato dell’esercito da venire in redazione in mimetica. Alla ine trovò il posto giusto per lui: addetto stampa del ministero della difesa. Ma i veri corrispondenti di guerra, dopo aver visto case bombardate e bambini mutilati, come oggi in Siria, conoscono troppo bene gli effetti dei conflitti per essere come lui.

Come professione, il giornalismo di guerra è nato un secolo e mezzo fa, e il lavoro di chi se ne occupava non era molto diverso da quello di chi seguiva da lontano i grandi e caotici eventi sportivi. I reporter, come Sam Wilkeson del New York Times, vedevano la realtà della guerra più da vicino. Nel luglio del 1863, mentre girava per il campo dopo la battaglia di Gettysburg, si imbatté nel cadavere di un ufficiale di artiglieria dell’esercito dell’Unione di soli diciannove anni. Era suo figlio. Seguire la guerra all’estero era meno drammatico, e i corrispondenti si equipaggiavano come se stessero partendo per una vacanza in campeggio. Richard Harding Davies, un giornalista della ine dell’ottocento, metteva tra le cose essenziali da portare con sé lanterne di ottone, secchi di cuoio per l’acqua, una cassa di legno per le medicine e una vasca da bagno di gomma pieghevole. Tipi come Davies erano uomini troppo indipendenti per i gusti dei militari e, quando arrivò la prima guerra mondiale, i corrispondenti dovettero indossare l’uniforme. In genere erano tenuti lontani dalle battaglie vere e proprie e i loro articoli erano pesantemente censurati. Durante la seconda guerra mondiale e quella di Corea, i reporter erano più liberi, e in Vietnam lo sono stati ancora di più. Fin troppo per il presidente Nixon, dato che i resoconti di quell’inutile avventura statunitense hanno alimentato ogni giorno il movimento paciista. All’epoca delle due guerre del Golfo i militari avevano imparato la lezione, e i giornalisti potevano riportare solo quello che sentivano dire durante le conferenze stampa. Questo, e una buona dose di patriottismo scatenato dall’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre, hanno contribuito a tenere a bada i mezzi d’informazione.

Oggi i conflitti sono molto più caotici. In posti come la Siria e la Libia non esiste una linea del fronte, non c’è un momento in cui gli eserciti si schierano uno contro l’altro, avanzano o si ritirano. Piuttosto, come sta succedendo a Damasco, ci sono zone momentaneamente controllate dall’Esercito siriano libero, da una delle sue fazioni ribelli o dalle forze di Assad. I conini si spostano e da una settimana all’altra non si sa neanche chi controlla i vari posti di blocco. Se si sbaglia, si rischia di tornare a casa in una cassa di legno. Non sono affatto d’accordo con chi dice che i corrispondenti di guerra sono “drogati di adrenalina”, uomini e donne che non possono fare a meno del pericolo.

In balia delle dichiarazioni delle parti in causa (oggi accompagnate da filmati creati apposta per falsiicare la realtà e messi su YouTube), corrono molti rischi per aprirci uno spiraglio sulla verità. Saranno anche grandi bevitori e persone sgradevoli, ma spesso hanno molto coraggio. Prendiamo, per esempio, questo episodio raccontato nelle memorie del corrispondente di Newsweek Edward Behr, che nel 1961 seguì gli scontri tra Tunisia e Francia per il porto di Biserta. Per descrivere quello che definiva “uno dei maggiori atti di coraggio a cui ho mai assistito”, scriveva: “I paracadutisti francesi, furiosi per le perdite subite dalla loro unità, stavano rabbiosamente borbottando che avrebbero messo i tunisini contro un muro e li avrebbero fucilati tutti. Un giornalista italiano si avvicinò silenziosamente ai tunisini e, con le mani piantate sui fianchi, si mise davanti a loro, sfidando i francesi a sparare”. Il nome di quel coraggioso giornalista non è passato alla storia, e non posso chiederlo a Behr perché è morto nel 2007. Ma mi piacerebbe molto sapere chi era.

DAVID RANDALL è stato senior editor del settimanale Independent on Sunday di Londra. Ha scritto quest’articolo per Internazionale. Il suo ultimo libro è Tredici giornalisti quasi perfetti (Laterza 2007).

Internazionale 1038 | 14 febbraio 2014

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