Un ricordo di Giorgio Gardiol

Domenica 19 gennaio 2014 è morto all’età di 71 anni Giorgio Gardiol. Ex deputato dei Verdi e prima ancora, negli anni Settanta, consigliere comunale a Pinerolo e consigliere provinciale, Gardiol era attivo in politica sin dagli anni del Sessantotto studentesco. Eletto alla Camera nel 1996 con l’Ulivo nel Collegio di Settimo Torinese, fu componente delle commissioni Attività produttive e Lavoro.

Attivo su numerosi fronti, si è interessato in particolare ai temi del lavoro e dell’ambiente. È stato giornalista per il settimanale locale Riforma e fondatore del Girasole, periodico dei Verdi di Torino. Sposato con Renata Prochet, aveva due figli. Era malato dal 2011.

Lo ricordiamo con l’intervento di introduzione fatta in occasione di un incontro alla sala Pasquale Cavaliere di Torino, Il confronto tra ecologisti, il 19 settembre  2009.

Ecologia Politica. All’ordine del giorno della politica mondiale c’è l’idea che «bisogna salvare il pianeta». La contraddizione principale della nostra civiltà sta nella crisi del paradigma dello sviluppo. Il paradigma dello sviluppo delle forze produttive è stato l’ossessione della sinistra. È stata una lunga ricerca (un secolo e mezzo) di un compromesso (welfare) con la borghesia, che ha consentito l’innovazione tecnologica e il miglioramento delle condizioni di vita degli strati subalterni della società. È la stata conquista una grande per una parte dell’umanità (1 miliardo) però a spese dei rimanenti 5,5 miliardi!

Qui, in “occidente”, la sinistra ha vissuto la stagione del “primato” delle forze produttive come motore del progresso sociale. Oggi molti sono consapevoli che l’idea che esista coincidenza tra sviluppo e “progresso” è fallita. Dobbiamo perciò pensare ad un altra forma di organizzazione della società, del rapporto tra produzione e consumo. Da alcuni decenni si è aperto un grande campo di lavoro culturale e politico: l’“ecologia politica”. Come si possono fare azioni politiche nel campo dell’educazione, della scienza, della vita, dell’economia se non mettiamo in discussione gli indicatori generali dello sviluppo (Pil, ecc) e quindi i modelli di vita?

Oggi l’ecologi ci dice che stiamo vivendo una “distretta” al termine della quale si trova solo la catastrofe. Non credo però che la preoccupazione di un esito catastrofico della nostra vita sul pianeta possa indurre da sola un mutamento di rotta. La società ricca difende il suo benessere sopprimendo i popoli poveri. La catastrofe ha un sapore classista.

La guerra, la clonazione e i cibi transgenici sono la metafora della nostra attuale civiltà. Ciò è inaccettabile. Dobbiamo pensare a un’alternativa radicale: una nuova cultura basata su una approfondita critica dello “sviluppo” e delle relazioni sociali ad esso collegate. Occorre lavorare per creare un nuovo “senso comune”, un nuovo “immaginario sociale”.

L’ecologia politica, nelle sue forme di ecologia ambientale, ecologia sociale e ecologia mentale, assunte congiuntamente, è lo strumento che da significato alla nostra ricerca dell’«altro», della nuova civiltà “possibile”.

Nell’attuale società capitalistica si scontrano due modi di “abitare la terra”. Ci sono gli “abitatori del tempo”, cioè coloro che vivono “qui e ora”. dove è possibile celebrare la “libertà” senza vincoli, responsabilità e senza pesi. L’importante è trarre il massimo profitto possibile. Poi ci sono gli “abitatori dello spazio”, cioè coloro che sono legati ai luoghi, al territorio visto come memoria della attività umana del pianeta. Nella prima (il liberismo) c’è solo la passione per il potere assoluto, per lo scioglimento da ogni vincolo di dipendenza, nel secondo (l’ecologia) c’è al contrario la passione, per il “legame”, per la “generazione”, per il “rapporto” tra uomo e donna, per la “relazione” tra l’uomo, le cose e la natura.

Nella relazione tra “tempo” e “spazio” si concentra l’azione dell’ecologia politica: una azione che va ben oltre il conflitto di classe e i problemi dell’economia. Il mio percorso politico nell’interpretazione della storia attraversa il paradigma classista, del conflitto tra capitale e lavoro, per giungere al paradigma della complessità.

Il conflitto principale è tra modernizzazione capitalista e il necessario cambiamento epocale messo in evidenza dalla contraddizione ecologica. Tra i due sono quasi impossibili i compromessi politici.

Per me, il passaggio al paradigma della complessità ha significato accettare il pensiero femminista del “maternage” cioè del prendersi cura (I care) della realtà ambientale, sociale e psicologica di noi stessi, degli individui altri, delle relazioni. Ha significato cercare di adottare la riflessione scientifica e epistemologica (la cosiddetta scienza “post-normale”) come parte essenziale del pensiero politico. La “società della conoscenza”, la ricerca e la scienza sono strumenti indispensabili per realizzare la riconversione ecologica delle produzioni e dei consumi e con essa la costruzione di una nuova società. L’ecologia politica -non è “anti-scientifica”, anzi ha bisogno della scienza per realizzare i suoi obiettivi. Ma anche la scienza non è svincolata da ogni limite. Occorre dunque sottopèrla a critica ma anche ampliare gli spazi della ricerca pubblica, contralta democraticamente.

La politica oggi. Viviamo l’epoca del “fatti i cazzi tuoi” e del “me ne frego”, in un contesto sociale in cui trionfa l’individualismo. La società è vissuta come un mercato cinico nel quale si scambiano diritti con soldi, sesso con potere. In questa situazione è complicatissimo far politica per unire i cittadini attorno ai valori fondamentali della cultura politica democratica ereditata dalle lotte per l’emancipazione: il rispetto per gli altri, la solidarietà, l’eguaglianza, la cittadinanza cioè lee parole d’ordine della rivoluzione francese.

Come militanti dell’ecologia abbiamo due compiti: l’individuo, il singolo, deve agire nelle prospettiva di “dare un senso”, un significato alle proprie scelte di vita, di consumo, di relazione; come gruppo politico è essenziale dare senso, significato, alla organizzazione collettiva della comunità, della società.

Fare politica non significa perciò dare risposte definitive, valide per sempre, alle domande fondamentali del perché stiamo insieme, di chi siamo noi gli uni per gli altri, e dire chiaramente quali siano gli obiettivi che prefiggiamo.

Non ha senso la distinzione tra società (civile?) e politica. O meglio ne ha solo se la consideriamo una operazione politica conservatrice: ridurre la politica al “politico”. La politica non è più un potere collettivo creato dalla collettività umana come esperienza dello stare insieme. Credo che la società sia sempre politica.

C’è un legame tra individuo e organizzazione della politica. Ha scritto Abert Camus: “mi rivolto, dunque siamo”. La coscienza individuale della insopportabilità di una situazione esige una risposta collettiva: la resistenza e la proposta di cambiamento.

Gli ecologisti, in particolare i verdi, nascono in Italia nel contesto della crisi della “forma partito” e della rappresentanza politica. In un certo senso sono un’espressione della cosiddetta “società civile”. In breve tempo da arcipelago, da struttura minima e aperta, si sono trasformati in un partito (tradizionale). Intendiamoci un partito ecologista serviva e serve!) allo scopo di favorire il dibattito e fare sintesi delle idee e delle analisi che attraversano l’ecologia politica;per organizzare campagne e lotte di sensibilizzazione; per entrare nelle istituzioni e coordinare politiche pubbliche in direzione dell’ecologia.

Pian piano quella che era una forma organizzativa che permetteva l’osmosi con la società (non delega, non tessera, partecipazione, trasparenza delle fonti di finanziamento) si è però trasformata in una “forma partito” molto vecchia, una forma di gestione del potere. Con almeno tre conseguenze, tutte perverse. La prima è quella dell’esclusione dalla rappresentanza nel partito di posizioni, di istanze, di domande, di interessi non compatibili con le esigenze del potere interno. La seconda conseguenza è lo slittamento della politica verde dalla lotta per la costruzione di una nuova società verso la partecipazione al governo e al potere, senza nemmeno un programma autonomo. La terza conseguenza è ancora più grave. La “sovranità dell’assemblea”, come tensione verso l’autogoverno della società, è stata ridotta a procedura funzionale all’aspettativa del “posto”, attraverso la pratica della clientela. E ora che il “posto” non c’è più, tutto è crollato … Il partito dei Verdi è morto. Anche nell’immaginario collettivo.

1 commento
  1. luigi
    luigi dice:

    Partecipo al ricordo di Giorgio. L'ho conosciuto molti anni fa a Torre Pellice e ci siamo incontrati alcune volte. Poi l'ho perso di vista.
    Il testo che avete riportato mi pare molto attuale in alcune parti. E ciò depone a suo favore!
    Luigi

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