La compassione dei vegetariani – Kapil Komireddi

In Asia il vegetarianismo è una forma di rifiuto della violenza che ha radici nella Cina delle dinastie imperiali e nell’India dei Maurya. Non mangiare carne è un modo per esercitare con disciplina il proprio potere sugli animali

Non è passato troppo tempo da quando George Orwell, nella Strada di Wigan Pier (1937), definiva l’essere vegetariani un insulto alle “persone per bene” e un’ossessione degli eccentrici lontani dalla gente comune. Era un sintomo, pensava Orwell, di come la causa socialista fosse caduta nelle mani di “ogni bevitore di succhi di frutta, nudista, portatore di sandali, maniaco sessuale, quacquero, guaritore naturista, pacifista e femminista d’Inghilterra”. Naturalmente i tempi sono cambiati e anche se non è una posizione maggioritaria, essere vegetariani in occidente non è più una fede di nicchia. Oggi il massimo che un vegetariano si sente dire è: “Almeno non sei vegano”.

Le opinioni di Orwell sarebbero sembrate assurde alla gente comune dell’Asia del sud, dove centinaia di milioni di persone perfettamente normali erano (e sono) rigorosamente vegetariane. L’etica vegana e vegetariana possono ancora apparire idealistiche nelle culture occidentali, ma in molte zone dell’Asia sono solo manifestazioni recenti di una millenaria aspirazione degli esseri umani: alleviare le sofferenze degli animali ed esprimere il loro potere con la moderazione e l’autocontrollo piuttosto che assecondando le loro debolezze.

Il grande imperatore cinese Wu, della dinastia Liang meridionale, 1.500 anni fa espose le sue argomentazioni filosofiche sull’immoralità dello sfruttamento degli animali per assicurare il piacere degli esseri umani, esortando alla temperanza e alla clemenza. A sua volta Wu era ispirato da un imperatore indiano dei Maurya, Ashoka, che dopo aver devastato la repubblica di Kalinga, nell’India dell’est, nel 260 aC attraversò una profonda crisi di coscienza.

Inorridito dall’alto numero di morti provocato dal suo esercito e tormentato dal rimpianto, si convertì al buddismo, abiurò la violenza, abolì il commercio di schiavi (ma non la schiavitù) e consacrò il suo regno alla lotta contro le usanze crudeli. Le leggi di Ashoka, le prime nel loro genere, estesero la protezione dello stato agli animali vietando gli sport sanguinari e proibendo i sacrifici rituali. “Nel mio regno nessuna creatura vivente deve essere massacrata o offerta in sacrificio”, dichiarava uno degli editti più importanti di Ashoka, inciso in una roccia del Gujarat. E spiegava che, mentre un tempo “centinaia di migliaia di animali venivano uccisi ogni giorno” nelle cucine di Ashoka, ora si uccidevano solo “due pavoni e un cervo, e il cervo non sempre”. “E con il tempo”, prometteva, “neppure queste tre creature saranno uccise”. A differenza di Ashoka, l’imperatore Wu non aveva spargimenti di sangue da espiare: il suo regno (464-549 dC) fu solido e prospero. Piuttosto, Wu fu ispirato dal buddismo che, nato in India, si stava rapidamente diffondendo in Cina.

Anche se si avviava a diventare una religione istituzionale, il buddismo, nella sua essenza, era una spinta radicale verso le riforme sociali e il rinnovamento spirituale. Lo stesso Budda aveva rifiutato Dio condannando la religione come una forma di sfruttamento ed esortando i suoi seguaci a onorare gli esseri viventi. Alcuni importanti monaci cinesi cominciarono ad ampliare il senso di questa esortazione fino a includere la vita animale. A differenza del clero indù, che limitava l’accesso delle persone comuni ai fondamenti della liturgia, i buddisti diffusero le loro idee tra i laici: abbiamo racconti affascinanti di semplici cinesi che, dopo aver ascoltato i sermoni del monaco Zhiwen, liberavano i loro animali e bruciavano le reti da pesca.

Internazionale 1026 02La cucina reale

Wu convocò conferenze, scrisse saggi, sollecitò le critiche di ministri e monaci. Poi, all’apice del suo potere, abbracciò il buddismo, diventando il primo governante del regno a bandire la carne dalla sua dieta. Abolì la pena capitale ed esortò i sudditi a rifiutare la carne rinunciando alla caccia, alla pesca e alla macellazione per adottare la compassione e la frugalità, non come negazione della supremazia umana, ma come la sua affermazione più alta. Nella Cina del sesto secolo, si narra che fu proprio la cucina imperiale di Wu a creare il seitan, oggi conosciuto in occidente come “falsa carne”. Nelle cerimonie sacrificali si cominciò a usare animali finti. Con l’ascesa della dinastia Sung, quattrocento anni dopo, il seitan diventò, secondo H.T. Huang, l’alimento preferito dei letterati dell’epoca. Fu perino magnificato in versi dal poeta Wang Yen: “Ha il colore del latte fermentato / e il gusto è migliore del maiale e del pollo”. Wu e Ashoka non videro realizzata la loro ambizione di eliminare la sofferenza degli animali, ma contribuirono a rendere rispettabile e diffusa l’idea del vegetarianismo, perlomeno in gran parte dell’India.

Nel cinquecento, quando Muhammad Akbar, il più potente imperatore dell’India dai tempi di Ashoka, affermò malinconicamente che avrebbe voluto che chi mangiava carne “avesse soddisfatto la sua fame con il mio corpo, risparmiando altri esseri viventi”, stava dimostrando il suo rispetto per quell’aspirazione.

In Europa, ovviamente, la situazione era diversa. Nell’antichità forse i pitagorici avevano adottato una dieta priva di carne, ma il cristianesimo non invitava ad astenersi dal mangiare animali (tranne che come una forma di ascesi monastica). Convinti che la carne fosse essenziale per la salute, gli europei che viaggiarono in India dal sedicesimo secolo in poi erano stupiti di trovare una civiltà raffinatissima con un’etica di nonviolenza nei confronti degli animali. Alcuni scoprirono, con grande sorpresa, degli ospedali che si dedicavano esclusivamente alla cura degli animali. Ralph Fitch, un mercante inglese che viaggiò nel subcontinente nel cinquecento, annotò che gli indiani “non uccidono niente”. Sentendo i racconti di questi viaggiatori, Voltaire elogiò gli indiani come “amanti e arbitri di pace” entusiasmandosi per il trattamento che riservavano agli animali e introducendo la cultura orientale nel dibattito intellettuale dell’epoca.

Nel suo romanzo epistolare Le lettere di Amabed, Voltaire si faceva gioco delle incongruenze della cultura occidentale vista con gli occhi di un giovane visitatore indiano a corte. “La sala da pranzo era pulita, grandiosa e ordinata… spirito e allegria animavano gli ospiti”, osserva il visitatore, per poi scoprire che “nelle cucine scorrevano il sangue e il grasso. Pelli di quadrupedi, piume di volatili e le loro interiora erano ammucchiati alla rinfusa, opprimendo il cuore e diffondendo il contagio”.

Ma non tutti furono colpiti dall’etica vegetariana. Nel seicento un gesuita tedesco, lo studioso Athanasius Kircher, lanciò un attacco contro gli indiani (e contro cinesi e giapponesi) perché non mangiavano nulla che provenisse “da un animale vivo”, una pratica che considerava non cristiana. Attribuiva questo comportamento “abominevole” a un “bramino molto peccaminoso imbevuto di pitagorismo”, probabilmente lo stesso Budda.

Ipocrisie

Il progresso morale dell’umanità”, scrisse Lev Tolstoj nel 1892, “è sempre lento” e nei dibattiti sul cibo della nostra epoca l’intolleranza di Kircher sembra eclissare l’apertura mentale di Voltaire. Se le pelli e le interiora nella cucina reale descritta da Voltaire ci disgustano, che dire degli allevamenti industriali? Io sono sbigottito dalla mancanza di indignazione. Qualche libro o documentario, gli appelli di scrittori come il sacerdote anglicano Andrew Linzey e il giornalista statunitense Matthew Scully, le proteste sporadiche degli attivisti: tutto svanisce davanti alle cifre colossali spese per far apparire accettabile il massacro degli animali su scala industriale.

Nel 2009 un sondaggio Gallup affermava che il 96 per cento degli statunitensi ritiene “che gli animali meritino almeno una qualche difesa dal dolore e dallo sfruttamento”. Ma è difficile non considerarlo paradossale, perché lo scarso valore della vita animale è un fattore essenziale per il sistema alimentare americano.

Un attaccamento teorico all’idea dei diritti degli animali non significa riconoscere il punto centrale, e cioè che gli animali hanno il desiderio di vivere e che noi umani, in quanto esseri superiori, abbiamo le capacità per capire e rispettare tale desiderio.

Una cosa è proclamarsi del tutto indifferenti ai diritti degli animali. Una persona di questo tipo non finge di essere interessata alla questione. Ho molta meno comprensione, invece, per quanti cercano di conciliare i diritti degli animali e il consumo di carne definendosi carnivori etici che mangiano solo animali uccisi “con umanità”. Particolarmente ripugnante è il modo in cui il consumo di carne viene magnificato da critici gastronomici e cuochi celebri. Il professore di studi internazionali B.R. Myers ha passato in rassegna gli scritti di alcuni dei più stimati esperti di cucina e ha messo a nudo la loro quasi totale indifferenza per la realtà brutale del massacro degli animali.

Nel suo libro di ricordi Blood, bones and butter, del 2011, la chef Gabrielle Hamilton ha scritto: “È un’esperienza importante penetrare a mani nude nel didietro di un animale e prelevarne le budella ancora calde”. Il critico gastronomico Jefrey Steingarten ci ha dato una descrizione vivida e minuziosa dei venti minuti che quattro uomini hanno impiegato per uccidere un maiale, mentre lo chef britannico Fergus Henderson gode nel mangiarlo tutto intero, nose to tail, dal naso alla coda. Non è difficile trovare questo approccio quasi lascivo al contatto fisico con la carne fresca e gli organi degli animali: è onnipresente nei programmi di cucina in tv, nelle rubriche di ricette dei giornali e nella pubblicità. Alcuni esperti di cucina sostengono addirittura che sarebbe irresponsabile consentire la scomparsa di alcune varietà di bestiame, come accadrebbe con una rivoluzione vegetariana delle nostre abitudini alimentari. Questa è crudeltà che si maschera da sollecitudine.

È un argomento che Matthew Scully ha sentito invocare spesso quando ha attraversato gli Stati Uniti in lungo e in largo per scrivere il suo libro Dominion. “La cosa peggiore che puoi fare nel North Carolina”, gli ha detto un agricoltore quando Scully gli ha chiesto perché non liberava i suoi maiali, “è lasciare le bestie al freddo”. A me sembra che la cosa peggiore che si possa fare ai maiali è destinarli al mattatoio e farli crescere in allevamenti industriali intensivi. Più di 53 miliardi di animali terrestri saranno macellati quest’anno per soddisfare i nostri appetiti. Sullo sfondo di questa carneficina, scagliarsi contro McDonald’s o mangiare solo la carne di animali “allevati eticamente” è una concessione puramente simbolica e formale. I vegani hanno deciso che l’unica risposta accettabile è rinunciare a qualunque prodotto di origine animale. Possiamo ironizzare, ma malgrado l’apparente severità della loro filosofia, sono proprio loro a dar voce ai nostri istinti migliori. La verità è che oggi nessuno ha bisogno di mangiare la carne, indossare una pelliccia o usare prodotti di origine animale per sopravvivere. Trattiamo in questo modo gli animali perché possiamo permettercelo.

Nell’estate del 2004 negli Stati Uniti è stato celebrato il centenario del grande scrittore yiddish Isaac Bashevis Singer. Le opere di Singer, profondamente radicate nelle tradizioni chassidiche della Polonia prebellica, trascendono le loro origini e – come ha dichiarato l’Accademia svedese nell’assegnargli il premio Nobel per la letteratura nel 1978 – “fanno rivivere la condizione umana universale”. Ma, una commemorazione dopo l’altra, gli statunitensi sono riusciti ad applaudire Singer continuando a trascurare la preoccupazione centrale della sua vita, l’unico argomento che sia mai diventato la sua “religione”: il trattamento che riserviamo agli animali e gli inganni che lo sostengono. Nessun altro autore o attivista dell’ottocento e del novecento, neppure Gandhi o Tolstoj, ha mai sofferto così profondamente per le condizioni degli animali.

È un tema che pervade tutta l’opera di Singer: quasi tutti i grandi protagonisti dei suoi libri sono vegetariani o stanno per diventarlo, come Herman Broder, superstite dell’Olocausto e libertino impenitente, nel romanzo Nemici, una storia d’amore (1966). Quando gli offrono un galletto, lui lo rifiuta: “Da qualche tempo pensava di diventare vegetariano”. Singer richiama sarcasticamente l’attenzione sui paradossi dei nostri rituali più privati, in cui la sofferenza e la liberazione dell’uomo sono celebrate consumando la carne di animali torturati: “Un pesce del fiume Hudson o di un qualche lago”, scrive, “aveva pagato con la vita perché Herman potesse ricordare i miracoli dell’esodo dall’Egitto. Un pollo aveva donato il collo alla commemorazione del sacrificio di Pesach”.

Sensibili alla sofferenza

Una sola iniziativa, in Pennsylvania, ha ricordato ai partecipanti “la rigorosa dieta vegetariana di Singer”, ma le motivazioni filosofiche della sua scelta non sono state prese in esame. Poteva anche sembrare una semplice preferenza alimentare, un capriccio personale. Ma come ci ricorda Janet Hadda nella biografia Isaac Bashevis Singer: a life (1997), “la sua decisione di non mangiare carne era legata alla repulsione per la crudeltà umana, l’abuso di potere e il disprezzo della vita suscitata dalla Shoah”. E continua: “Negli anni cruciali dell’Olocausto, Bashevis arrivò a credere che, mangiando la carne, stava accettando l’uccisione di esseri innocenti”. Lo stesso Singer spiegò che vedere “quanto è scarsa l’attenzione della gente verso gli animali e con quanta facilità accetta che l’uomo possa farne tutto ciò che vuole” lo rendeva infelice. “Esemplificava”, ai suoi occhi, “le teorie razziste più estreme, il principio che la ragione è del più forte”. Probabilmente è per questo che nello Scrittore di lettere, un racconto breve pubblicato nel 1968, Singer descriveva la realtà degli animali come “un’eterna Treblinka”. Per molta gente un confronto di questo genere è inconcepibile.

All’epoca del centenario, nel 2004, Singer è stato biasimato da Allan Nadler, direttore degli studi ebraici alla Drew University, perché mangiava focaccine e sognava “puttane polacche e diavoli yiddish” mentre gli altri “combattevano i nazisti insieme ai partigiani nelle foreste della Lituania”. Ma Singer, che aveva perso la madre e il fratello minore nei campi di lavoro sovietici, non intendeva sminuire l’Olocausto: lo evocava per sottolineare che gli esseri umani sono capaci di commettere atrocità spaventose ai danni di esseri indifesi, senza neppure scalfire la splendida immagine che hanno di sé.

Gli straordinari progressi tecnologici della nostra epoca hanno confermato il dominio umano sul mondo naturale come non era mai accaduto finora. Ma Isaac B. Singer ci ha insegnato che questa, nella migliore delle ipotesi, è solo una fragile assicurazione contro l’irrazionalità, e il progresso tecnologico non ci ha mai impedito di precipitare bruscamente nel caos e nei massacri. Gli esseri umani hanno sempre mostrato un’immensa capacità di distruzione, ma anche di moderazione e automiglioramento. Dovremmo sforzarci di temperare il nostro dominio con la pietà e la compassione. Insistere su questi princìpi, come fanno alcuni di noi, non significa odiare la gente comune. Significa sollecitare un esercizio più empatico della nostra autorità nella speranza che, diventando sensibile alle sofferenze degli esseri su cui ha potere di vita e di morte, l’umanità possa sfuggire alla sua primordiale propensione alla violenza.

Pubblicato in «Internazionale», n. 1026, 15-21 novembre 2013, pp. 58-61

Kapil Komireddi, Aeon, Regno Unito. Foto di Juan Manuel Castro Prieto

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