Zeidan e gli altri bugiardi di guerra dimenticati – Marinella Correggia
Pochi ricordano il 2011 di Ali Zeidan – il primo ministro libico recente «vittima» d’un sequestro lampo – poco prima della guerra NATO. Rinfreschiamo la memoria ai media
Pochi sanno cosa fece nel 2011 Ali Zeidan, il primo ministro libico «vittima» di un sequestro lampo nei giorni scorsi.
I media e i loro giornalisti, ma anche le Organizzazioni non governative e le commissioni Onu, adesso riconoscono che la Libia è allo sfascio e tutto – anche il prezioso petrolio – è in mano a bande armate e islamisti. Ma non rievocano il periodo che precedette la guerra Nato, conclusasi due anni fa dopo sette mesi di bombe.
Come mai la memoria è occultata? Perché tutti questi soggetti dovrebbero ammettere di aver detto o comunque diffuso le menzogne che, per mezzo della guerra Nato, sono la causa del caos violento di oggi.
Scrivono e dicono i media che il premier è stato sequestrato da «uno dei tanti gruppi che esercitano il potere nel paese, diviso fra sfere di influenza di diverse formazioni di ex ribelli e da rivalità per il controllo del monopolio della forza fra ministero dell’Interno e quello della Difesa». E spiegano il sequestro come una ritorsione – istigata da siti estremisti – per la cattura a Tripoli, compiuta dalle forze statunitensi, del sospetto affiliato di al Qaeda Abu Anas al Liby considerato fra gli ideatori degli attacchi ad ambasciate Usa nel lontano 1998.
Zeidan e i suoi «seimila morti» finti che han sfasciato un paese
Il primo ministro Ali Zeidan è tuttora indicato dai media come «oppositore storico» di Gheddafi, «esule per trent’anni».
Ma diciamo qualcosa in più. Il 3 marzo 2011, Ali Zeidan si camuffa da Ong per i diritti umani e spara urbi et orbi una menzogna circostanziata la quale perfeziona le precedenti invenzioni dei «ribelli rivoluzionari libici» riecheggiate da tutti i media. Dà così una bella mano alle scuse della Nato per la guerra in nome della «responsabilità di proteggere». Quel giorno dunque Zeidan, come ricorda Michel Collon nel libro Libye, Otan et mediamensonges (2011) parla da Parigi come portavoce della Lega libica per i diritti umani e denuncia: in due settimane dall’inizio della «rivoluzione» il 17 febbraio, la «repressione di Gheddafi» ha fatto seimila vittime. Tremila a Tripoli, duemila a Bengasi, mille altrove. E’ tutto falso. E Zeidan, che diventa subito dopo portavoce del Cnt (Consiglio nazionale di transizione) di Bengasi, l’organismo di reggenza creato dagli oppositori armati al governo libico, lo sa.
Pare sia stata fondamentale l’influenza dell’attuale primo ministro libico sul governo francese nel 2011: Sarkò va alla guerra anche grazie a lui. Che poche settimane dopo, il 23 marzo, la guerra Nato avviata da tre giorni, dice: «Nei futuri accordi petroliferi ci ricorderemo di chi ci ha aiutati». Evviva la sincerità. Se vogliamo individuare una tripletta di responsabili libici principali dell’attuale tragedia del paese nordafricano, a Zeidan possiamo aggiungere tal Syed Sanouka e tal Suleiman Bouchuiguir.
Ecco Sanouka. Febbraio 2011, a pochissimi giorni dall’inizio della rivolta, questo oppositore, fingendosi membro della Corte penale internazionale (Cpi), lancia alla satellitare saudita Al Arabiya la famosa cifra: «Gheddafi ha ucciso diecimila persone». Il relativo twitter della tivù fa il giro del mondo. Il giorno dopo la Cpi smentisce di aver minimamente a che fare con il Sanouka, ma i media non lo dicono.
Ed ecco Suleiman Bouchuiguir. Il 21 febbraio, settanta «organizzazioni non governative» indirizzano ai disponibilissimi segretario Onu Ban ki Moon, presidente Usa Obama e ministra europea degli Esteri Ashton l’unica petizione ascoltata – chissà perché – nella storia delle relazioni internazionali (http://www.unwatch.org/site/apps/nlnet/content2.aspx?c=bdKKISNqEmG&b=1330815&ct=9135143). Il tutto è promosso da Suleiman Bouchuiguir della Lega libica per i diritti umani, dall’organizzazione Usa UN Watch e dal National Endowment for Democracy (Ned), che non sono affatto Ong. Senza produrre uno straccio di prova, la petizione sostiene che il governo libico stia commettendo «crimini contro la vita» (citando la Dichiarazione universale dei diritti umani) e «crimini contro l’umanità» (come definiti dalla Corte penale internazionale); chiede un’azione internazionale contro la Libia, «usando tutte le misure possibili» sulla base della cosiddetta «responsabilità di proteggere», una formula inventata dall’Onu anni prima. La lettera è commovente: senza alcuna prova, parla di elicotteri e cecchini contro i manifestanti, artiglieria e killer che sparano, donne e bambini che per salvarsi si gettano dai ponti. Suleiman Bouchuiguir ottiene di far espellere la Jamahiriya libica dal Consiglio Onu per i diritti umani. Ovviamente dopo la guerra Nato Suleiman diventa ambasciatore.Intanto il sito para-Ong One World è il primo a ospitare la bufala delle «fosse comuni» in riva al mare. Corredata da un video assurdo. Anche in Italia questi appelli di Ong ottengono un seguito prestigioso, da parte di figure stimate e Ong note.
Mesi dopo, risulterà che i morti in Libia prima dell’intervento Nato sono stati al massimo trecento, e su entrambi i fronti (fra loro anche diversi africani subsahariani vittime di atti di feroce razzismo). Così sostiene in giugno anche Amnesty International. Che però in febbraio aveva aiutato la catastrofe con dichiarazioni tipo «la situazione è difficile da monitorare per due ragioni: la prima è che c’è una grande censura, la seconda è che le fonti di Amnesty International che sono sul posto (corsivo nostro) possono avere riscontri soprattutto dagli ospedali principali, ma a un certo punto la situazione è talmente degenerata che non si è più riusciti a contare quante salme arrivavano negli obitori, perché le famiglie le hanno seppellite in fretta e furia».
Una domanda che ci facciamo sempre anche rispetto alla Siria: perché Ong internazionali, organismi Onu e media non fanno attenzione alle loro «fonti sul posto»? Sapendo che rapporti e dichiarazioni degli umanitari vengono strumentalizzate dai belligeranti?
E perché nessuno rimprovera mai niente a chi contribuisce, per dolo o per colpa, a scatenare guerre?
Il Dipartimento di Stato, i media e le Ong non fanno mai autocritica
E perché nessuno ammette i propri errori?
Al capitolo Libia, il rapporto annuale del Dipartimento di Stato pubblicato lo scorso giugno offre un quadro desolante della situazione interna del paese: «In Libia la mancanza di sicurezza in seguito alla rivoluzione del 2001 (corsivo nostro) ha offerto spazio di manovra ai terroristi». E’ più che evidente che la guerra condotta anche dagli Usa abbia provocato questa situazione. Ma il Dipartimento non può ammettere: «abbiamo sbagliato in modo criminale, dovremmo pagare».Né ammettono «abbiamo sbagliato» le Ong che nel 2011 chiesero alla famosa «comunità internazionale» interventi per «fermare il genocidio». Hanno fiducia nella smemoratezza collettiva.E nella connivenza dei media. Gli stessi giornalisti che due anni e mezzo fa bevevano notizie false e osannavano all’intervento di Parigi/Londra/Washington, presto seguite dalla stessa Italia, adesso scrivono cose come «il quadro desolante della situazione nel paese che l’America, trascinata dalla Francia di Sarkozy, aveva voluto salvare dalla dittatura di Gheddafi gettandolo nel caos più totale» e «la complessità della realtà mediorientale dove gruppi estremisti islamici sono riusciti a impossessarsi delle primavere arabe».
Nessun accenno critico alle loro narrazioni precedenti riguardo alla Libia e a quelle ancora attuali rispetto alla Siria.
Come scrive il generale Jean nel libro La guerra umanitaria: «Le democrazie belligeranti possono combattere soltanto contro nemici che siano dipinti come incarnazione del male assoluto e per brevi periodi di tempo (così si spiegano i tentativi di accelerare con raid a Bab Azizya non inquadrabili come misure per proteggere avversari dalla repressione)».
I morti di Lampedusa, risultato della guerra
Mentre una seconda tragedia a Lampedusa indigna il mondo, risulta che il barcone affondato giorni fa facendo centinaia di vittime avesse uno scafista tunisino, Khaled Ben Salem. Insieme all’unico altro arabo a bordo, egli faceva parte dell’organizzazione libica che gestisce il traffico di esseri umani dalle coste libiche a quelle italiane. Raccontano i sopravvissuti che i cinquecento eritrei, prima della traversata, erano «prigionieri in un capannone nelle campagne libiche» e poi sono stati trasferiti fino alla spiaggia vicino a Misurata, la «rivoluzionaria città martire di Gheddafi» (secondo le parole, due anni fa, di certi esponenti della sinistra europea. Eppure Misurata era la città dei più ricchi, e le sue milizie si sono rivelate le più carogne durante e dopo la guerra, tanto da aver compiuto un genocidio, deportando o uccidendo i libici neri della vicina Tawergha, come sibialiria ha più volte scritto.)
Come mai nessuno ha indagato sul ruolo giocato dagli scafisti libici a fianco dei cosiddetti rivoluzionari e della Nato? Nel dopoguerra, gli scafisti lavorano molto meglio.
Gruppi armati. Del governo
Un rapporto del solito Consiglio dei diritti umani dell’Onu e dell’Unsmil (missione dell’Onu in Libia) sui casi di tortura e morte nelle carceri della nuova Libia, pur non potendo negare l’evidenza cerca di scusare l’attuale governo di Tripoli: afferma dunque che le violenze riguardano soprattutto le strutture gestite dalle milizie armate e diminuiscono quando qualcuno degli ottomila prigionieri di guerra (senza processo) passa in carceri governative.
L’Onu, non potendo/volendo riconoscere di aver collaborato al madornale errore di questa guerra, nega l’evidenza: ovvero che i gruppi armati sono organici a questa o quella parte del governo. La stessa agenzia Ansa (che nel 2011 beveva avidamente le fosse comuni e altro) traccia una rivelatrice mappa dei gruppi principali. La riportiamo. «Forza scudo libica, gruppo organizzato militarmente ai comandi del ministero della difesa». «Brigata dei martiri di Abu Salim: ex jihadisti, garantiscono protezione a scuole e ospedali» (?). «Battaglioni martiri di Rafallah Shahati: mille componenti, si sono occupati della sicurezza durante le elezioni». «Brigate dei martiri del 17 febbraio: finanziato dal ministero della difesa, conta su 3.500 militanti impegnati in compiti di sicurezza». «Brigata al Qaqa: ufficialmente sotto l’autorità del ministero della difesa, garantisce la sicurezza dall’apparato ministeriale». «Brigata al Sawaiq: sotto la guida del ministro della difesa, garantisce la sicurezza ai leader politici». «Brigata Sadun al Suwaili: ha guidato l’assalto finale durante la guerra civile. Si occupa della sicurezza degli edifici governativi». «Consiglio militare rivoluzionario al Zintan: si è occupato della detenzione del figlio di Gheddafi, Saif al Islam».
15/10/2013
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