La terza età del carbonio

Michael T. Klare

Non immaginate nemmeno per un secondo che siamo diretti a un’era dell’energia rinnovabile

Quando si tratta di energia e di economica nell’era del cambiamento climatico, nulla è ciò che sembra. La maggior parte di noi crede (o vuole credere) che la seconda età del carbonio, l’Età del Petrolio, sarà presto sostituita dall’Età delle Rinnovabili, proprio come il petrolio ha da tempo sostituito l’Età del Carbone. Il presidente Obama ha proposto esattamente questa visione in un discorso molto elogiato di giugno sul cambiamento climatico. Vero, avremmo bisogno ancora per un po’ dei combustibili fossili, ha indicato, ma abbastanza presto saranno superati da forme rinnovabili di energia.

Molti altri esperti condividono questa visione, garantendoci che l’accresciuto assegnamento sul gas naturale “pulito”, assieme a investimenti ampliati nell’energia eolica e solare, consentiranno una transizione morbida a una futura energia verde in cui l’umanità non immetterà più anidride carbonica e altri gas serra nell’atmosfera. Tutto ciò suona davvero promettente. C’è solo un guaio: in realtà non è questo il percorso su cui siamo attualmente incamminati. L’industria dell’energia non sta investendo in alcun modo significativo nelle rinnovabili. Sta, invece, riversando i suoi storici profitti in nuovi progetti di combustibili fossili che riguardano principalmente lo sfruttamento di quelle che sono chiamate le riserve “non convenzionali” di petrolio e di gas.

La conseguenza è incontrovertibile: l’umanità non sta entrando in un periodo che sarà dominato dalle rinnovabili. Sta, invece, aprendosi la via alla terza età del carbonio, l’Età del Petrolio e del Gas Non Convenzionali.

Che ci stiamo imbarcando in una nuova era del carbonio è sempre più evidente e dovrebbe inquietarci tutti. La fratturazione idraulica – l’utilizzo di colonne d’acqua ad alta pressione per frantumare formazioni sotterranee di scisti e liberare le riserve di petrolio e gas naturale intrappolate in essi – è intrapresa in un numero sempre maggiore di regioni degli Stati Uniti e in un numero crescente di paesi esteri. Contemporaneamente si sta accelerando lo sfruttamento di petrolio pesante e di formazioni di sabbie bituminose cariche di carbonio in Canada, Venezuela e altrove.

E’ vero che si costruiscono sempre più fattorie eoliche e pannelli solari, ma l’inghippo sta qui: ci si aspetta oggi che gli investimenti nell’estrazione e distribuzione di combustibili fossili non convenzionali superi la spesa nelle rinnovabili di un rapporto almeno di uno a tre nei prossimi decenni.

Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), un’organizzazione di ricerca intergovernativa con sede a Parigi, gli investimenti cumulativi mondiali nell’estrazione e lavorazione di nuovi combustibili fossili raggiungeranno un totale di 22,87 trilioni di dollari tra il 2012 e il 2035, mentre gli investimenti in rinnovabili, energia idroelettrica e nucleare ammonteranno a soli 7,32 trilioni. In tali anni, i soli investimenti nel petrolio, stimati in 10,32 trilioni di dollari, sono attesi superare la spesa in energia eolica, solare, geotermica, in biocombustibili, energia idroelettrica, nucleare e ogni altra forma rinnovabile messe insieme.

Inoltre, come spiega la IEA, una quota sempre crescente di tali sbalorditivi investimenti in combustibili fossili sarà dedicata a forme non convenzionali di petrolio e gas: sabbie bituminose canadesi, greggio extra-pesante venezuelano, gas e petrolio da scisti, depositi artici e in profondità in alto mare, e altri idrocarburi derivati da riserve di energia in precedenza inaccessibili. La spiegazione di ciò è abbastanza semplice. L’offerta mondiale di gas e petrolio convenzionali – combustibili derivati da riserve facilmente accessibili e richiedenti una lavorazione minima – sta rapidamente scomparendo. Con una domanda globale di combustibili fossili attesa crescere del 26% tra oggi e il 2035, una quota sempre maggiore dell’offerta mondiale di energia dovrà essere fornita da combustibili non convenzionali.

In un mondo simile una cosa è garantita: le emissioni globali di carbonio esploderanno ben oltre le nostre peggiori ipotesi attuali, traducendosi in intense ondate di calore che diventeranno un fenomeno comune e nello sventramento delle poche aree naturali rimaste. In tale luce, val la pena di esplorare in maggiore profondità come siamo finiti in una situazione così grave, un’era del carbonio alla volta.

La prima era del carbonio

La prima era del carbonio iniziò alla fine del 1800, con l’introduzione di motori a vapore alimentati a carbone e con la loro diffusa applicazione a ogni sorta di imprese industriali. Inizialmente utilizzato per alimentare fabbriche tessili e impianti industriali, il carbone era impiegato anche nei trasporti (navi e ferrovie a vapore), nelle miniere e nella produzione su larga scala di ferro. In effetti quella che oggi chiamiamo la rivoluzione industriale incluse in larga misura il crescente utilizzo di carbone e di energia derivata dal vapore nelle attività produttive. Alla fine il carbone fu utilizzato anche per generare elettricità, un campo in cui oggi resta dominante.

Fu l’era in cui vasti eserciti di lavoratori sfruttati costruirono ferrovie che si estendevano attraverso continenti ed enormi fabbriche tessili, mentre proliferavano le cittadine industriali e crescevano le città. Fu, soprattutto, l’era dell’espansione dell’impero britannico. Per una volta, l’impero britannico fu il maggiore produttore e consumatore di carbone, l’industria manifatturiera al primo posto nel mondo, il suo innovatore industriale e la sua potenza dominante; e tutti questi attributi furono connessi inestricabilmente. Dominando la tecnologia del carbone, una piccola isola al largo della costa dell’Europa fu in grado di accumulare una vasta ricchezza, di sviluppare l’arsenale più avanzato del mondo e di controllare le rotte marittime globali.

La stessa tecnologia del carbone che diede così grandi vantaggi globali alla Gran Bretagna portò anche grande miseria come sua conseguenza. Come segnalato dall’analista dell’energia Paul Robert in The End of Oil [La fine del petrolio], il carbone allora consumato in Inghilterra era della varietà ‘lignite bruna’, “strapieno di zolfo e di altre impurità”. Quando veniva bruciato “produceva un fumo acre, soffocante che irritava gli occhi e i polmoni e anneriva pareti e abiti”. Arrivati alla fine del diciannovesimo secolo, l’aria di Londra e di altre città dipendenti dal carbone era così inquinata che “morivano gli alberi, si dissolvevano le facciate di marmo, e le mattie respiratorie divennero epidemiche.”

Per la Gran Bretagna e altre delle prime potenze industriali, la sostituzione del carbone con il petrolio e con il gas fu un dono di dio, consentendo il miglioramento della qualità dell’aria, il restauro delle città e una riduzione delle malattie respiratorie. In molte parti del mondo, naturalmente, l’Età del Carbone non è terminata. In Cina e in India, tra altri luoghi, il carbone resta la fonte principale di energia, condannando le città e le popolazioni di tali paesi a una versione del ventunesimo secolo di Londra e Manchester.

La seconda era del carbonio

L’Era del Petrolio iniziò nel 1859 quando iniziò la produzione commerciale nella Pennsylvania occidentale, ma decollò soltanto dopo la seconda guerra mondiale, con la crescita esplosiva delle auto private. Prima del 1940 il petrolio svolgeva un ruolo importante nell’illuminazione e nella lubrificazione, tra altre applicazioni, ma restava subordinato al carbone; dopo la guerra il petrolio divenne la principale fonte di energia del mondo. Da dieci milioni di barili il giorno nel 1950, il consumo globale lievitò a 77 milioni nel 2000, mezzo secolo di orgia di consumo di combustibile fossile.

A muovere l’ascesa globale del petrolio fu la sua stretta associazione con il motore a combustione interna (ICE). Grazie alla superiore trasportabilità del petrolio e alla intensità energetica (cioè alla quantità di energia rilasciata per unità di volume) è il combustile ideale per motori mobili e versatili. Proprio come il carbone acquistò preminenza alimentando i motori a vapore, così il petrolio venne in primo piano alimentando le crescenti flotte mondiali di auto, camion, aerei, treni e navi. Oggi il petrolio fornisce circa il 97% di tutta l’energia utilizzata nei trasporti in tutto il mondo.

La preminenza del petrolio è stata assicurata anche dal suo crescente utilizzo in agricoltura e in guerra. In un lasso di tempo relativamente breve, trattori e altre macchine agricole alimentate a petrolio hanno sostituito gli animali come fonte principale di energia nelle fattorie di tutto il mondo. Una transizione simile si è verificata nei campi di battaglia moderni, con blindati e aerei alimentati a petrolio che hanno sostituito la cavalleria come fonte principale di potenza offensiva.

Sono stati gli anni dell’automobile di massa, di autostrade che si sono estese su interi continenti, di periferie infinite, di giganteschi centri commerciali, di voli a basso costo, di agricoltura meccanizzata, fibre artificiali e – sopra ogni altra cosa – di espansione globale del potere statunitense. Poiché gli Stati Uniti possedevano riserve gigantesche di petrolio, sono stati i primi a dominare la tecnologia dell’estrazione e della raffinazione e quelli che hanno avuto maggior successo nell’utilizzare il petrolio nei trasporti, nell’industria, nell’agricoltura e in guerra, e perciò sono emersi come il paese più ricco e potente del ventunesimo secolo, una saga narrata con grande soddisfazione dallo storico dell’energia Daniel Yergin in The Prize [Il premio]. Grazie alla tecnologia del petrolio gli Stati Uniti sono stati in grado di accumulare livelli stupefacenti di ricchezza, di dispiegare eserciti e basi militari su ogni continente e di controllare le vie aeree e marittime globali, estendendo il loro potere in ogni angolo del mondo.

Tuttavia, proprio come la Gran Bretagna aveva sperimentato le esperienze negative della sua eccessiva dipendenza dal carbone, così gli Stati Uniti – e il resto del mondo – hanno sofferto in varie forme per la loro dipendenza dal petrolio. Per garantire la sicurezza delle sue fonti di approvvigionamento all’estero, Washington ha creato rapporti tortuosi con fornitori stranieri di petrolio e ha combattuto numerose guerre costose e debilitanti nella regione del Golfo Persico, una storia sordida che racconto in Blood and Oil [Petrolio e sangue]. L’eccessiva dipendenza da veicoli a motore per i trasporti individuali e commerciali ha lasciato il paese male equipaggiato per affrontare le periodiche interruzioni delle forniture e i picchi dei prezzi. Soprattutto, il vasto aumento del consumo di petrolio – qui e altrove – ha prodotto un corrispondente aumento delle emissioni di anidride carbonica, accelerando il riscaldamento planetario (un processo iniziato nel corso della prima era del carbonio) ed esponendo il paese agli effetti sempre più devastanti del cambiamento climatico.

L’era del petrolio e del gas non convenzionali

La crescita esplosiva dei viaggi in automobile e in aereo, la sub-urbanizzazione di parti significative del pianeta, la meccanizzazione dell’agricoltura e della guerra, la supremazia globale degli Stati Uniti e l’inizio del cambiamento climatico: questi sono stati i marchi dello sfruttamento del petrolio convenzionale. Attualmente la maggior parte del petrolio del mondo si ricava ancora da pochi giganteschi giacimenti terrestri in Iran, Iraq, Kuwait, Russia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Stati Uniti e Venezuela, tra altri paesi; una certa quantità di petrolio aggiuntivo si ottiene da giacimenti in mare nel Mare del Nord, nel Golfo di Guinea e nel Golfo del Messico. Il petrolio arriva in superficie in forma liquida e richiede una lavorazione relativamente limitata prima di essere raffinato in combustibili commerciali.

Ma tale petrolio convenzionale sta scomparendo. Secondo la IEA i giacimenti maggiori che attualmente fanno la parte del leone nella fornitura globale del petrolio perderanno due terzi della loro produzione nei prossimi 25 anni, con una produzione netta che precipiterà dai 68 milioni di barili il giorno del 2009 a soli 26 milioni di barili nel 2035. La IEA ci assicura che verrà trovato nuovo petrolio per rimpiazzare tale approvvigionamento perduto, ma la maggior parte di esso sarà di natura non convenzionale. Nei decenni a venire i petroli non convenzionali rappresenteranno una fetta crescente della disponibilità globale di petrolio, diventando alla fine la principale fonte di offerta.

Lo stesso vale per il gas naturale, la seconda più importante fonte dell’energia mondiale. La fornitura globale di gas convenzionale, con quella del petrolio convenzionale, sta diminuendo e stiamo diventando sempre più dipendenti da fonti di offerta non convenzionali, specialmente dall’Artico, dagli oceani profondi e dagli scisti attraverso la fratturazione idraulica.

Per certi versi gli idrocarburi non convenzionali sono simili ai combustibili convenzionali. Entrambi sono largamente composti di idrogeno e carbonio e possono essere bruciati per produrre carbone ed energia. Ma nel tempo le differenze tra essi faranno una crescente differenza per noi. I combustibili non convenzionali – specialmente i petroli pesanti e le sabbie bituminose – tendono a possedere una proporzione più elevata di carbonio rispetto all’idrogeno in confronto con il petrolio convenzionale e, perciò, a rilasciare più anidride carbonica quando sono bruciati. Il petrolio dell’Artico e del mare profondo richiede più energia per essere estratto e perciò produrrà più elevate emissioni di carbonio nella sua stessa produzione.

“Molti nuovi tipi di combustibile a base di petrolio non sono affatto come il petrolio convenzionale”, ha scritto nel 2012 Deborah Gordon, una specialista della materia alla Carnegie Endowment for Internation (Fondazione Carnegie per la Pace Internazionale). “I petroli non convenzionali tendono a essere pesanti, complessi, carichi di carbonio e bloccati in profondità nella terra, fortemente intrappolati tra sabbie, catrami e rocce o legati  a essi.”

La conseguenza di gran lunga più preoccupante della natura distintiva dei combustibili non convenzionali è il loro impatto estremo sull’ambiente. Poiché sono spesso caratterizzati da percentuali più elevate di carbonio rispetto all’idrogeno, e in generale richiedono più energia per essere estratti e convertiti in materiali utilizzabili, producono più anidride carbonica per unità di energia rilasciata. In aggiunta, molti scienziati ritengono che il processo che produce gas di scisto, salutato come un combustibile fossile “pulito”, causa un diffuso rilascio di metano, un gas serra particolarmente potente.

Tutto questo significa che, mentre il consumo dei combustibili fossile cresce, aumenteranno, non diminuiranno, le quantità di CO2 e di metano che saranno rilasciate nell’atmosfera e, invece di rallentare, il riscaldamento climatico accelererà.

Ed ecco un altro problema associato alla terza era del carbonio: la produzione di petrolio e gas non convenzionali risulta richiedere grandi quantità d’acqua: per le operazioni di fratturazione, per estrarre le sabbie bituminose e per il petrolio extra-pesante e per facilitare il trasporto e la raffinazione di tali combustibili. Ciò sta creando una crescente minaccia di contaminazione dell’acqua, specialmente in aree di intensa fratturazione e produzione di sabbie bituminose, assieme alla competizione per l’accesso all’acqua tra trivellatori, agricoltori, autorità comunali dell’acqua, e altri. Con l’intensificarsi del cambiamento climatico la siccità diventerà la norma in molte aree e così la competizione si farà solo più feroce.

Assieme a questi e ad altri impatti ambientali, la transizione dai combustibili convenzionali a quelli non convenzionali avrà conseguenze economiche e geopolitiche difficili da valutare appieno in questo momento. Per cominciare, lo sfruttamento di riserve di gas e petrolio da regioni in precedenza inaccessibili comporta l’introduzione di tecnologie di produzione nuove, comprese trivellazioni in alto mare e nell’Artico, di fratturazione idraulica e di arricchimento delle sabbie bituminose. Una conseguenza è stata una scossa all’industria energetica globale, con l’emergere di imprese innovative in possesso delle competenze e della determinazione per sfruttare le nuove risorse non convenzionali, in larga misura com’è successo nei primi anni dell’era del petrolio quando sono sorte nuove società per sfruttare le riserve mondiali di petrolio.

Questo è stato particolarmente evidente nello sviluppo del petrolio e del gas di scisto. In molti casi le tecnologie d’avanguardia in questo campo sono state ideate e impiegate da piccole società che hanno scelto di rischiare, come Cabot Oil and Gas, Devon Energy Corporation, Mitchell Energy and Development Corporation e XTO Energy. Queste società e altre simili sono state pionieredell’utilizzo della fratturazione idraulica per estrarre gas e petrolio da formazioni di scisti in Arkansas, North Dakota, Pennsylvania e Texas, e poi hanno suscitato un rodeo da parte delle società energetiche più grandi per conseguire proprie partecipazioni in quest’area. Per aumentare le loro quote le società giganti stanno divorando molte delle società piccole e medie. Tra i rilevamenti più cospicui c’è stato l’acquisto, nel 2009,  della XTO da parte della ExxonMobil per 41 miliardi di dollari.

Tale accordo evidenzia una caratteristica particolarmente preoccupante di questa nuova era: l’impiego di enormi fondi da parte delle società energetiche giganti e dei loro sostenitori finanziari per acquistare quote della produzione di forme non convenzionali di petrolio e gas, per importi di gran lunga superiori a investimenti paragonabili nelle energie degli idrocarburi convenzionali o delle energie rinnovabili. E’ chiaro che, per queste imprese, l’energia non convenzionale è la prossima grande occasione e, appartenendo alle più redditizie imprese della storia, esse sono pronte a spendere somme astronomiche per assicurarsi di continuare a essere tali. Se ciò significa che l’investimento nelle energie rinnovabili resta fregato, così sia. “Senza uno sforzo legislativo concertato” a favore dello sviluppo delle rinnovabili, avverte Gordon della Carnegie, i futuri investimenti nel settore energetico “probabilmente continueranno ad affluire in misura sproporzionata verso il petrolio non convenzionale”.

In altre parole ci sarà un pregiudizio istituzionale sempre più radicato in queste società energetiche, agenzie di finanziamento e governi a favore della produzione di combustibili fossili della prossima generazione, non facendo altro che accrescere la difficoltà di creare tagli nazionali e internazionali a favore delle emissioni di carbonio. Questo è evidente, per esempio, nell’inalterato sostegno dell’amministrazione Obama alle trivellazioni in alto mare e allo sviluppo del gas da scisti, nonostante il suo cosiddetto impegno a ridurre le emissioni di carbonio. E’ analogamente evidente nel crescente interesse internazionale per lo sviluppo delle riserve di petrolio pesante e da scisti, anche mentre i nuovi investimenti nell’energia verde sono tagliati.

Come in campo economico e ambientale, la transizione dal petrolio e dal gas convenzionali a quelli non convenzionali avrà un concreto impatto, pur se ancora in larga misura indefinito, sugli affari politici e militari.

Società canadesi e statunitensi stanno giocando un ruolo decisivo nello sviluppo di molte delle nuove tecnologie vitali nel campo dei combustibili fossili non convenzionali; inoltre alcune delle maggiori riserve del mondo di petrolio e gas non convenzionali sono situate nell’America del Nord. L’effetto di ciò è la promozione del potere globale statunitense a spese dei produttori rivali di energia, quali Russia a Venezuela, che si scontrano con la crescente concorrenza delle società nordamericane e di stati importatori di energia, come Cina e India, che mancano delle risorse e della tecnologia per produrre combustibili non convenzionali.

Al tempo stesso Washington sembra più incline a contrastare l’ascesa della Cina cercando di dominare le rotte marittime globali e potenziando i suoi legami militari con alleati regionali come Australia, India, Giappone, Filippine, Corea del Sud. Molti fattori stanno contribuendo a questa svolta strategica, ma dalle loro dichiarazioni è sufficientemente chiaro che dirigenti statunitensi di vertice la considerano in misura considerevole derivante dalla crescente autosufficienza degli Stati Uniti nella produzione energetica e dal suo crescente dominio delle tecnologie produttive più recenti.

“Il nuovo atteggiamento energetico degli Stati Uniti ci consente di affrontare [il mondo]da una posizione di maggiore forza” ha affermato il consigliere per la sicurezza nazionale Tom Donilon in un discorso di aprile alla Columbia University. “Crescenti disponibilità energetiche statunitensi agiscono come un cuscinetto che aiuta a ridurre la nostra vulnerabilità nei confronti di problemi nelle forniture globali e ci permette una mano più forte nel perseguire e realizzare i nostri obiettivi di sicurezza internazionale.”

Al presente i dirigenti statunitensi possono permettersi di vantare la loro “mano più forte” negli affari mondiali, poiché nessun altro paese possiede le capacità di sfruttare risorse non convenzionali su così vasta scala. Cercando di ricavare vantaggi geopolitici da una crescente dipendenza del mondo da tali combustibili, Washington stimola inevitabilmente contromosse di vario genere. Potenze rivali, timorose e risentite della loro decisionalità geopolitica, rafforzeranno la loro capacità di opporsi alla potenza statunitense, una tendenza già evidente nel rafforzamento navale e missilistico cinese.

Al tempo stesso, altri stati cercheranno di sviluppare una capacità propria di sfruttare risorse non convenzionali in quella che potrebbe essere considerata come una versione nel settore dei combustibili fossili della corsa agli armamenti. Ciò richiederà sforzi notevoli ma tali risorse sono distribuite diffusamente in tutto il pianeta e con il tempo sono destinati a emergere altri grandi produttori di combustibili non convenzionali, contrastando il vantaggio statunitense in questo campo (sebbene contribuiscano ad accrescere il potere di permanenza e di distruttività globale di questa terza età del carbonio). Presto o tardi gran parte delle relazioni internazionali si incentreranno su questi temi.

Sopravvivere alla terza età del carbonio

Escludendo svolte impreviste nelle politiche e nei comportamenti globali, il mondo diverrà sempre più dipendente dallo sfruttamento di energia non convenzionale. Ciò, a sua volta, si tradurrà in un aumento dell’accumulazione di gas serra con scarse possibilità di evitare l’avvio di effetti climatici catastrofici. Sì, assisteremo anche a progressi nello sviluppo e nell’installazione di forme rinnovabili di energia, ma esse giocheranno un ruolo subordinato rispetto allo sviluppo del petrolio e del gas non convenzionali.

La vita nella terza età del carbonio non sarà priva di vantaggi. Quelli che si affidano ai combustibili fossili per i trasporti, il riscaldamento e simili possono forse trovare conforto nel fatto che il petrolio e il gas naturale non si esauriranno presto, com’era stato previsto da molti analisti dell’energia agli inizi di questo secolo. Le banche, le imprese energetiche e altri interessi economici ammasseranno indubbiamente utili stupefacenti dall’espansione esplosiva del settore del petrolio non convenzionale e dall’aumento globale del consumo di questi combustibili. Ma la maggior parte di noi non sarà premiata. Tutto il contrario. Sperimenteremo invece il disagio e la sofferenza che accompagneranno il riscaldamento del pianeta, la scarsità di forniture idriche disputate in molte regioni e lo sventramento del paesaggio naturale.

Che cosa si può fare per mettere fine alla terza età del carbonio e prevenire le peggiori tra queste conseguenze? Sollecitare maggiori investimenti nell’energia verde è essenziale, ma insufficiente in un momento in cui chi davvero detiene il potere enfatizza lo sviluppo di combustibili non convenzionali. Fare campagne per tagliare le emissioni di carbonio è essenziale, ma si dimostrerà indubbiamente problematico, considerati i pregiudizi sempre più profondamente radicati a favore dell’energia non convenzionale.

In aggiunta a tali sforzi è necessaria una spinta a denunciare l’unicità e i pericoli dell’energia non convenzionale e a demonizzare quelli che scelgono di investire in tali combustibili invece che nelle loro alternative verdi. Alcuni sforzi di questo genere sono già in corso, tra cui campagne avviate dagli studenti per convincere o costringere gli amministratori dei fondi fiduciari universitari a disinvestire dalle imprese dei combustibili fossili. Esse mancano tuttavia ancora di una spinta sistemica a identificare e a contrastare i responsabili della nostra crescente dipendenza dai combustibili non convenzionali.

Nonostante tutti i discorsi di Obama su una rivoluzione tecnologica verde, restiamo profondamente radicati in un mondo dominato dai combustibili fossili, con la sola vera rivoluzione oggi in corso che riguarda la svolta da una classe a un’altra di tali combustibili. Senza dubbia questa è una formula per la catastrofe globale. Per sopravvivere a questa era l’umanità deve diventare più consapevole riguardo a questo nuovo genere di energia e poi fare i passi necessari per comprimere la terza età del carbonio e accelerare l’Età delle Rinnovabili, prima di bruciare questo pianeta.


Questo articolo è comparso inizialmente su TomDispatch, un blog del Nation Institute, che offre un flusso costante di fonti, notizie e opinioni alternative a cura di Tom Engelhardt, per lungo tempo direttore editoriale e co-fondatore dell’American Empire Project, autore di ‘The End of Victory Culture’ [La fine della cultura della vittoria] e di un romanzo ‘The Last Days of Publishing’ [Gli ultimi giorni di pubblicazione]. Il suo libro più recente è ‘The American Way of War: How Bush’s Wars Became Obama’s (Haymarket Books) [La via statunitense alla guerra: come le guerre di Bush sono diventate di Obama].

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte:  http://www.zcommunications.org/the-third-carbon-age-by-michael-t-klare

Traduzione di Giuseppe Volpe; revisione a cura del Centro Sereno Regis

9 agosto 2013 http://znetitaly.altervista.org/art/11933


 

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