Troppo presto per dirlo. Il caso della speranza, continua

Rebecca Solnit

Dieci anni fa, la mia porzione di mondo era piena di valorosi oppositori alle guerre che stavano per essere scatenate all’estero e a casa – e di disperazione. E come le persone disperate, siano esse affette da depressione individuale o da smarrimento politico, questi attivisti credevano che il futuro sarebbe apparso più o meno come quello attuale. Se non c’era nient’altro in cui riponevano fiducia, almeno credevano in questo. Dieci anni fa, come oppositore e persona cui non piace veder soffrire gli altri, ho cercato di contrastare la disperazione con la speranza.

Un decennio più tardi, il presente è ancora contaminato dai crimini di quell’era, ma molto è cambiato. Non necessariamente in meglio – un decennio fa, molti parlavano del riscaldamento globale come di un problema distante, il quale poi ci colpì in 10.000 modi. Ma neppure necessariamente per il peggio-l’energico movimento per il clima di cui avevamo bisogno sorse in quel decennio e oggi continua a crescere. Se c’è una constatazione che possiamo trarre pensando a dove siamo oggi e dove eravamo allora, è che l’inimmaginabile è ordinario, e la strada innanzi a noi non è quasi mai un percorso rettilineo a cui si può dare un’occhiata, ma un labirinto di sorprese, regali e patimenti a cui ci si prepara accettando i propri punti ciechi così come le proprie intuizioni.

I disperati del Maggio 2003 erano convinti di una cosa vera, non abbiamo fermato l’invasione dell’Iraq, ma loro hanno estrapolato da essa una serie di false assunzioni riguardo il nostro fallimento e la nostra impotenza attraverso il tempo e lo spazio. Essi assumevano – come gli stessi neoconservatori – che quei neocons sarebbero rimasti ai vertici del mondo per un lungo periodo di tempo. Invece, l’ideologia neoconservatrice e neoliberale è stata ampiamente criticata e rinnegata in tutto il mondo, l’emorragia demografica repubblicana li ha indeboliti in questo paese; il fallimento delle loro guerre è evidente a chiunque; e anche se essi dispongono ancora di un temibile potere, tutto è davvero cambiato. Tutto cambia: lì stanno molte delle nostre speranze e alcune delle nostre paure.

Ho assistito a molti straordinari cambiamenti nella mia vita, alcuni dei quali negli ultimi dieci anni. Sono nata in un paese che era stato galvanizzato e sconvolto dal movimento per i diritti civili, ma ancora mancavano un significativo movimento ambientalista, uno femminista, o un movimento omosessuale (al di là di un paio di piccole organizzazioni fondate in California negli anni 1950). Mezzo secolo fa, essere gay o lesbica significava vivere in clandestinità o essere trattati come malati mentali o criminali. Che 12 stati e parecchie contee legalizzassero i matrimoni omosessuali era oltre l’immaginabile allora. Non era neppure sul tavolo nel 2003. La manifestazione di matrimoni omosessuali della primavera 2004 a San Francisco spalancò le porte attraverso le quali molti sono passati da allora.

Se assumete una prospettiva di lungo periodo, vedrete come sorprendentemente, come inaspettatamente ma regolarmente le cose cambino. Non per magia, ma per l’effetto incrementale di innumerevoli atti di coraggio, amore e impegno, piccole gocce che portano via pietre e danno forma a nuovi paesaggi, e qualche volta da fiumi di volontà popolare che cambiano il mondo improvvisamente. Per dire che non bisogna assumere che tutto si risolverà per il meglio, a prescindere. Sto solo dicendo che ogni cosa è in movimento, e qualche volta siamo noi stessi in movimento.

Inarrestabilità

Speranza e storia sono sorelle: una guarda avanti e l’altra guarda indietro, e insieme rendono il mondo abbastanza spazioso per muoversi liberamente. Il dimenticarsi il passato e la mutevolezza delle cose ci imprigiona in un presente rattrappito. La disperazione spesso viene fuori da questa amnesia, dal dimenticarsi che tutto è in movimento, tutto cambia. Abbiamo una grande quantità di storie di sconfitta, sofferenza, crudeltà e perdita, e tutti dovrebbero saperlo. Ma non è tutto quello che abbiamo.

C’è la storia della gente, la controstoria che non necessariamente apprendi a scuola o dalle news: la storia delle battaglie che abbiamo vinto, dei diritti che abbiamo guadagnato, delle differenze tra allora e ora, che manca a chi vive nella noncuranza. Questa è spesso la storia di come gli individui si siano riuniti per dar vita a quel behemoth che è la società civile, che cavalca nazioni e rovescia regimi – e lo fa per lo più senza armi o eserciti. È una storia che mina la maggior parte di quello che ti è stato detto sull’autorità, sulla violenza e la tua impotenza.

La società civile è la nostra forza, la nostra gioia, la nostra possibilità e ha scritto molta storia negli ultimi anni, così come nell’ultimo mezzo secolo. Se dubitate del nostro potere, guardate quanto terrorizza chi sta al vertice, e ricordate che essi danno il loro meglio per convincerci che esso non esiste. Esiste, però, come lava sotto la terra, e quando erutta, la superficie terrestre è rimodellata.

Le cose cambiano. E le persone a volte hanno il potere di farlo accadere, se e quando si uniscono e agiscono (e occasionalmente agiscono da sole, come hanno fatto gli scrittori Rachel Carson e Harriet Beecher Stowe [autrice della Capanna dello zio Tom e abolizionista, NdT] – o Mohammed Bouazizi, il giovane che si è suicidato dando inizio alla Primavera Araba ).

Se osservate da dove abbiamo iniziato, vedrete che abbiamo fatto molta strada con questi mezzi. Se guardate avanti, vedrete che abbiamo molta strada da fare – e che qualche volta andiamo indietro quando dimentichiamo che abbiamo combattuto per la giornata lavorativa di otto ore o la sicurezza sul posto di lavoro o i diritti delle donne o quelli di voto o per l’istruzione a prezzi accessibili, dimenticando che li abbiamo vinti, che sono preziosi, e che potremmo perderli di nuovo. C’è molto di cui essere orgogliosi, c’è molto di cui lamentarsi, c’è molto ancora da fare, e il lavoro da fare è il nostro, un dono pesante da portare. Ed è fatto per essere portato, da persone inarrestabili, che sono i movimenti, che è il cambiamento stesso.

Troppo presto per dirlo

Dieci anni fa ho iniziato a scrivere e parlare di speranza. Il mio articolo online “Acts of Hope”, pubblicato il 19 maggio 2003, era il mio primo incontro con Tomdispatch.com, che mi avrebbe cambiato la vita e il lavoro. Mi ha fornito l’ambiente per un altro tipo di voce e un altro tipo di scrittura. Mi ha mostrato come internet possa mettere ali alle parole. Cosa scrissi allora e in seguito per il sito si è diffuso per il mondo in maniera notevole, spingendomi in contatto con persone e movimenti, e in profonde conversazioni sul possibile e l’impossibile (e in una cara amicizia con il fondatore ed editore del sito, Tom Engelhardt).

Per qualche anno, ho parlato di speranza in giro per questo paese e per l’Europa. Ho ripetutamente incontrato persone benestanti ostili all’idea di speranza: pensavano che la speranza in qualche modo tradisse i disperati e gli oppressi, come se i disperati volessero la solidarietà della miseria dei privilegiati, piuttosto che l’azione. La mancanza di speranza per le persone in situazioni estreme significa rassegnazione alla propria deprivazione o distruzione. La speranza può essere una strategia di sopravvivenza. Per le persone agiate la mancanza di speranza significa cinismo, tenersi fuori dai guai. Se tutto è condannato, allora nulla è richiesto (e vice versa).

La disperazione è spesso prematura: è una forma di impazienza e di certezza. Il mio commento preferito riguardo al cambiamento politico viene da Zhou En-Lai, il premier della Repubblica Popolare Cinese sotto la leadership di Mao. Interrogato nei primi anni 1970 in merito alla sua opinione riguardo la Rivoluzione Francese, si racconta abbia risposto, “Troppo presto per dirlo”. Qualcuno disse che egli stava parlando della rivoluzione del 1968, non del 1789, ma anche in questo caso fornisce una generosa ed espansiva prospettiva. Tenere alta l’incertezza, la possibilità e il senso che anche quattro anni dopo, non meno di due secoli dopo il fatto, il verdetto ancora non si trovi è più di quello che molte persone che conosco hanno da offrire. Molte di loro difficilmente concederanno un mese a un evento per manifestare i propri effetti, e molti movimenti e iniziative sono condotti all’insuccesso ben prima del loro esaurimento.

Non molto tempo fa, ho incontrato un ragazzo coinvolto nel movimento Occupy Wall Street, quella grande marea nel sud di Manhattan nell’autunno del 2011 che ha catalizzato una conversazione globale e una serie di azioni e occupazioni a livello nazionale e globale. Egli mi ha offerto una rapida descrizione di come Occupy era terminata e aveva fallito.

Ma mi chiedo: come poteva saperlo? È davvero troppo presto per dirlo. Prima di tutto, forse il ragazzo che domani guiderà il movimento che salverà il mondo sarà stato catalizzato da ciò che avrà vissuto attraverso Occupy Fresno o Occupy Memphis, e noi non raccoglieremo quello che semina fino al 2023 o al 2043. Forse sono stati gettati i semi per qualcos’altro, come lo furono in Cecoslovacchia durante la primavera di Praga nel 1968 e con Charta77, per il grande e imprevisto raccolto che è stata la Rivoluzione di Velluto del 1989, il rovesciamento nonviolento del regime sovietico totalitario del paese.

Secondo, Occupy ha cominciato a dire ciò che doveva essere detto riguardo l’avidità e il capitalismo, esponendo una brutalità che era stata a lungo messa a tacere, rivelando sia le vittime del debito che l’economia malata che l’ha creato. Questo paese è cambiato perché queste cose sono state dette ad alta voce. Non so dire esattamente come, ma so che hanno contato. Quanto hanno contato non si può misurare, non è quantificabile, e va oltre il prezzo pagato. La legislazione sulle banche, sul pignoramento, e sui prestiti universitari sta cambiando – non abbastanza, non ovunque, ma qualche persona ne trarrà beneficio, e questo conta. Occupy non ha determinato questi cambiamenti in maniera diretta, ma ha contribuito a rendere la voce della gente udibile e l’assoluta scorrettezza del nostro sistema di debito visibile – e ha dato slancio agli sforzi per rovesciare Citizens United e abolire il principio di personalità d’impresa.

Terzo, so molto poco di quello che migliaia di assemblee e reti locali che noi identifichiamo con “Occupy” stanno facendo, ma so che Occupy Sandy sta ancora compiendo attività di vitale importanza nelle zone devastate dall’uragano ed è tra le migliori esperienze di interventi di movimenti di base nel corso di calamità naturali che il nostro paese abbia mai visto. So che Stike Debt, diretta emanazione di Occupy Wall Street, ha alleviato milioni di dollari di debito sanitario, non secondo il principio che sia possibile ripagare tutti i debiti in questo modo, ma per dimostrare la malleabilità, l’artificio, e l’immoralità dei debiti sanitari, per l’istruzione e per la casa che stanno distruggendo così tante vite. So che i difensori degli sfratti di Occupy Homes hanno fatto cose eccezionali, spesso una casa per volta, da Atlanta a Minneapolis. (Lo scorso venerdì, Occupy Our Homes ha organizzato una “resa dei conti al Dipartimento di Giustizia” a Washington, D.C.; questo Sabato, Stike Debt Bay Area ha tenuto la sua seconda assemblea dei debitori: sopravvissuto da costa a costa.)

Quarto, conosco personalmente persone la cui vita è cambiata, che svolgono lavori in cui non pensavano sarebbero mai stati coinvolti, e sono amica di gente eccezionale che, se non fosse stato per Occupy, non avrei mai conosciuto. Persone unite oltre i confini di classe, razza e cultura grazie alla fioritura di questo movimento. Come la Freedom Summer (campagna lancata dal movimento per i diritti civili, NdT), le cui conseguenze sono state avvertite molto al di là del Mississippi nel 1964, tutto questo andrà oltre il momento in cui io scrivo e in cui voi leggerete.

Infine, c’era grande felicità in quel momento, la gioia della liberazione e della solidarietà, e la gioia è qualcosa che ha valore in sé. In un certo senso, tutto ha un valore, anche se è sempre fugace, anche se non sempre raro come immaginiamo.

Clima di speranza e paura

Stephen Zunes

L’altro giorno ho pranzato con lo studioso di Medio Oriente e nonviolenza Stephen Zunes e gli ho domandato cosa pensasse ora della Primavera Araba. È stato, mi ha detto, in Egitto parecchi mesi fa e ha guardato la televisione insieme a un attivista. In precedenza, le notizie riportavano esclusivamente cosa i leader facevano, decidevano, ordinavano, infliggevano. Ma le notizie che ora stavano guardando erano sorprendentemente incentrate sulla società civile, sulle iniziative della gente e sulla loro opposizione, sulle loro risposte, su cosa pensavano. Ha parlato di come molti in Medio Oriente abbiano perso il loro fatalismo e senso di impotenza e preso coscienza del proprio potere collettivo.

La società civile continua a rimane sveglia in Egitto e in altri paesi. Cosa riusciranno a ottenere? Forse è troppo presto per dirlo. La Siria è ora una turbolenta versione dell’inferno, ma potrebbe lasciarsi la dinastia degli Assad alle spalle; il suo futuro deve ancora essere scritto. Forse il suo popolo scriverà il prossimo capitolo della propria storia, e non solo con gli esplosivi.

Si possono raccontare gli ultimi anni attraverso, in primis, la Primavera Araba, poi attraverso le straordinarie azioni sociali in Cile, Quebec, Spagna e altrove, seguite da Occupy. Ma non si fermano qui.

Dopo Occupy è venuta Idle No More, una esplosione di potere indigeno canadese e di resistenza (al governo canadese che è scivolato verso l’estrema destra e verso una distruzione ambientale su larga scala). È stato fondato da quattro donne nel Novembre del 2012 e si è diffuso in tutto il Nord America, innescando nuove azioni ambientali e nuove coalizioni attorno a questioni climatiche, con flash mob in stile powwows (tipico raduno dei nativi del Nord America, con danze e canti, NdT) in centri commerciali e altri posti, e una marcia di mille chilometri (con racchette da neve) compiuta da sette giovani Cree quest’inverno. (C’erano 400 persone con loro nel momento in cui arrivarono al parlamento canadese a Ottawa.)

Gli attivisti di Idle No More hanno promesso di bloccare la costruzione di ogni gasdotto che cerchi di trasportare il greggio estratto dalle sabbie bituminose dell’Alberta, sia che si diriga a nord, a est, o a ovest dal nord dell’Alberta. Ognuna di quelle direzioni attraversa la terra dei nativi. Questa è in parte la ragione che ha spinto i fautori delle sabbie bituminose a spingere così duramente per costruire la pipeline Keystone XL dall’Alberta alla costa del Golfo degli USA.

Per fortuna, la resistenza è altrettanto forte. Il nostro destino potrebbe dipendere da quello. Come lo scienziato climatico James Hansen scrisse un anno fa, “le sabbie bituminose del Canada, depositi di sabbia saturi di bitume, contengono due volte l’ammontare di anidride carbonica emessa dall’impiego di petrolio in tutta la nostra storia. Se dovessimo sfruttare fino in fondo questa nuova fonte di petrolio, e continuare a impiegare le forniture convenzionali di petrolio, gas, e carbone, la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera raggiungerebbe livelli più alti di quelli toccati nel Pliocene, più di 2.5 milioni di anni fa, quando il livello del mare era almeno 50 piedi (circa 15 metri, NdT) più alto di oggi.”

La notizia è arrivata quando abbiamo raggiunto 400 parti per milione di anidride carbonica nella nostra atmosfera, il livello più alto in cinque milioni di anni. Questa è una notizia terribile su una scala che eclissa tutto il resto, perché essa comprende tutto il resto. Stiamo distruggendo il nostro mondo, per tutti e per sempre, o almeno per i prossimi mille anni. Ma “noi” è una parola ingannevole. Alcune delle persone che più amo e ammiro stanno facendo cose straordinarie per salvare il mondo, per voi, per noi, per le generazioni future, per le specie ancora senza nome, per gli oceani e l’Africa sub-sahariana e l’Artico e tutti coloro che stanno in mezzo, per l’intera terribilmente bella sinfonia della vita sulla Terra che è minacciata.

Parte di quello che mi sostiene di fronte a questo potenziale cataclisma è ricordare che, nel 2003, c’era un movimento per il clima. Era piccolo, educato, per lo più credeva che i problemi fossero lontani decenni. Ed era popolato da persone che pensavano che il pianeta potesse essere salvato da un cambiamento nello stile di vita – piuttosto che dall’uscire e combattere il potere. E loro erano quelli buoni. Troppi di noi non pensano a questo.

Solo pochi anni più tardi, le cose sono cambiate. C’è un vivace movimento per il clima in Nord America. Se non gli si dà il giusto peso, potrebbe essere perché lavora su fronti così diversi che sono spesso trattati separatamente: estrazione di carbone dalle montagne, centrali energetiche a carbone (chiudendo 145 centrali esistenti e prevenendo l’entrata in funzione di 150 già pianificate), fracking (fratturazione idraulica), esplorazione petrolifera nell’Artico, oleodotti per le sabbie bituminose, e il movimento universitario 350.org che promuove l’affrancamento dalle compagnie petrolifere, di gas e carbone. Nato solamente nel Novembre del 2012, sono oggi interessati dallo stesso fenomeno più di 380 tra college e campus universitari, e ora molte città stanno seguendo lo stesso esempio. Ha conseguito vittorie significative, ne otterrà di più.

Alcuni paesi – in particolare la Germania, con la Danimarca non molto indietro – hanno intrapreso iniziative notevoli nel promuovere l’utilizzo di energie rinnovabili e non fossili. Copenhagen, per esempio, nel freddo grigio nord, è sulla buona strada per diventare una città a emissioni zero entro il 2025 (e nel frattempo ha ridotto le sue emissioni di anidride carbonica del 25% tra il 2005 e il 2011). Gli Stati Uniti hanno intrapreso una serie di promettenti progetti minori. Per citare giusto due esempi, Los Angeles si è impegnata a ridurre a zero l’impiego di carbone entro il 2025, mentre San Francisco offrirà ai suoi cittadini energia proveniente al 100% da fonti rinnovabili a emissione zero e le sue autorità hanno appena deciso di dismettere le riserve di combustibili fossili della città.

Ci sono così tanti pezzi per giungere a una potenziale soluzione a questo enigma, e alcuni di questi sta a voi metterli insieme. Se si moltiplicheranno o se non saranno mai sufficienti non lo sappiamo ancora. Abbiamo bisogno di più: più gente, più trasformazioni, più modi per conquistare e smantellare le compagnie petrolifere, più di una visione di ciò che è in gioco, più di quella grande forza che è la società civile. Riusciremo a farcela? Non lo so. Nemmeno tu. Tutto può succedere.

Ma ecco cosa sto cercando di dire: dovreste svegliarvi sorpresi ogni giorno della vostra vita, perché se vi avessi detto nel 1988 che, nel giro di tre anni, gli stati satellite sovietici si sarebbero liberati in maniera nonviolenta e che l’Unione Sovietica sarebbe cessata di esistere, avreste pensato che fossi pazza. Se vi avessi detto nel 1990 che il Sud America era sulla strada della liberazione e sarebbe diventato un continente segnato da esperimenti progressisti e democratici, mi avreste considerato delirante. Se, nel novembre 2010, vi avessi detto che, in pochi mesi, l’autocrate Hosni Mubarak, che dominava l’Egitto dal 1981, sarebbe stato rovesciato da 18 giorni di rivolte popolari, o che i dittatori della Tunisia e della Libia sarebbero stati deposti, tutti nello stesso anno, mi avreste fatto internare. Se vi avessi detto il 16 settembre 2011 che un gruppo di ragazzi seduti in un parco a Manhattan avrebbe scosso il paese, avreste detto che ero oltre il delirio. Se credevate come fanno i disperati, avreste pensato che il futuro sarà invariabilmente simile al presente, solo un po’ di più. Non sarà così.

Dò ancora valore alla speranza, ma la vedo solo come una parte di ciò che è necessario, un punto di partenza. Pensate a lei come a un fiammifero, non come un’esca o un incendio. Per contare, per cambiare il mondo, è necessaria devozione e volontà ed è necessario agire. La speranza è solo dove si inizia, anche se ho visto persone lavorare duramente senza riguardo per la speranza, per ciò che credono possibile. Essi vivono di un principio e scommettono, e qualche volta vincono, o talvolta la meta cui ambivano viene raggiunta molto tempo dopo la loro morte. Eppure, è l’azione che ti porta lì. Quando quello per cui si sperava è realizzato, esso passa in secondo piano, diventa il nuovo normale; e speriamo o ci lamentiamo di qualcos’altro.

Il futuro è più grande della nostra immaginazione. È inimmaginabile, e arriva comunque. Per incontrarlo bisogna andare avanti, mettere davanti a noi quello che possiamo immaginare. Bisognaessere inarrestabili. Ed ecco quello che ci vuole: non smettere di camminare per congratularsi con se stessi; non smettere di camminare per crogiolarsi nella disperazione; non fermarsi perché la vita è diventata troppo comoda o troppo dura; non fermarsi perché si ha vinto; non fermarsi perché si ha perso. C’è di più da vincere, di più da perdere, altri che hanno bisogno di voi.

Non smettete di camminare perché non avete strada davanti. Certo che non c’è. Percorrete il sentiero con la vostra esistenza, voi tracciate la via, e se lo fate bene, altri potranno seguire il cammino indicato. Si guarda indietro per cogliere la lunga storia dalla quale si proviene, il percorso che altri hanno tracciato, la strada percorsa. Si guarda avanti alle possibilità. Questo è ciò che intendiamo per speranza, si guarda oltre, nell’impossibile e neanche questo vi ferma. Ma per lo più si cammina semplicemente, piede destro, piede sinistro, piede destro, piede sinistro. Questo è ciò che rende inarrestabili.

Il primo saggio di Rebecca Solnit per Tomdispatch.com è diventato il libro “Hope in the Dark: Untold Histories, Wild Possibilities”, tradotto in 8 lingue diverse (trad. it.: “Speranza nel buio”, Fandango, Roma 2005, NdT). Alcune parti di questo saggio hanno preso via nel discorso introduttivo del gala della National Lawyers Guild tenutosi in onore dell’avvocato e attivista per i diritti umani Walter Riley, la cui vita è un bellissimo esempio di inarrestabilità. L’ultimo libro di Solnit, The Faraway Nearby, sarà pubblicato a giugno.


Titolo originale:Too Soon to Tell.The Case for Hope, Continued

http://www.tomdispatch.com/blog/175701/

Traduzione di Luca Cabras per il Centro Sereno Regis


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