Pace e arte: alla ricerca dell’interconnessione – Johan Galtung

Qualche tempo fa una galleria d’arte norvegese, la Galleri Lista Fyr, situata nel punto più a sud della Norvegia, a Lindesnes, ospitò un mostra d’arte. Il titolo era FOLK-05 local global (FOLK-05 locale globale; “folk” significa gente), che invitava alla “comunicazione e comprensione tra le persone attraverso le arti visive”. Più di 20 artisti provenienti da sette paesi parteciparono con notevoli sforzi per portare la loro arte alle persone.

Mi venne chiesto di scrivere la prefazione al catalogo. In quanto fermo sostenitore della corrispondenza tra forma e contenuto decisi di scrivere una poesia di mio pugno che, in qualche modo, venne fuori liberamente dal momento in cui cominciai a scrivere. Eccola qui, sia in norvegese, sia in inglese (potrete trovare la versione straniera più convincente; sia in italiano, NdT):

KUNST OG FRED

La oss löftes av kunsten

som kunstnerne har löftet den

oppover, utover det vanlige

utover grenser og klöfter

i vårt uryddige menneskelandskap

inn i andre öyne som

også er blitt löftet

utover det vanlige

for å foreness

i fred.

ART AND PEACE

Let us be lifted by the arts

like the artists have lifted them

upwards, outwards, beyond the ordinary

beyond the run of the mill;

making us see far

beyond borders and cleavages

in our untidy human landscape

into other eyes that

also have been lifted

beyond the ordinary

to be united

in peace.

ARTE E PACE

Lasciamoci innalzare dall’arte

Così come gli artisti sono innalzati

verso l’alto, al di fuori, oltre l’ordinario,

oltre il comune;

consentendoci di vedere

molto oltre i confini e i solchi

del nostro disordinato paesaggio umano

in altri occhi che a loro volta

sono stati innalzati

al di sopra dell’ordinario

per essere uniti

in pace.

 

La poesia contiene tre idee. Lasciatemi cominciare a decostruire la mia opera di micro-arte, utilizzando le tecniche della narrazione intellettuale.

Primo, la poesia racchiude la tesi che l’arte abbia la capacità di innalzare, oltre l’ordinario. L’arte può farci dimenticare l’ordinario, catapultandoci per qualche tempo in un livello virtuale e più spirituale dove possiamo incontrare una realtà più astratta e incontaminata, una forma nello spazio (arte visiva, scultura) e/o nel tempo (musica, letteratura); disconnessa dalla realtà empirica. Questa tesi suona plausibile.

Secondo, è altresì presente la tesi secondo cui tale innalzamento possa unire. Anche questo è plausibile. Siamo sradicati da una buona, toccante e coinvolgente arte, dal nostro qui e ora, contenente tutte le sue gioie e i suoi dispiaceri, e catapultati nel mondo dell’artista che ci appaga con parte della sua contentezza, in tal maniera unendoci, facendoci sentire un tutt’uno con l’arte. Come per Cristo o Allah, motivo per cui le religioni premono sul fatto che l’arte abbia una connotazione religiosa, per la quale si desidera che essa rinforzi l’unità in Cristo invece che costituire una forma secolare che stabilisca una sorgente alternativa per la cristallizzazione dell’unità. Oppure nessuna arte. L’arte è potere.

Terza è la tesi secondo cui tale unità condurrebbe alla pace. Sicuramente, il micro artista in me sostiene quanto ha appena scritto. E sicuramente il macro scienziato sociale in me, ricercatore per la pace in casu, è portato a contestualizzare in tutte le maniere possibili. Quindi, ecco che ci siamo: relativizzare le tre tesi a vari contesti.

Senza dubbio l’arte sradica. Ma innalzare è un’altra questione. La musica militare è solenne, utile per la marcia e magari per uccidere come mostra l’esempio dei soldati americani che cantano “addestrati per uccidere, e noi uccideremo” (“trained to kill, and kill we will”, NdT). Quando ero un ragazzo i soldati tedeschi che marciavano sotto le nostre finestre durante l’occupazione della Norvegia intonavano un motivo incredibilmente caloroso, che scaldava il cuore, e il testo era di Horst Wessel, un eroe nazista. Non capendo nulla, pensavo che quei soldati non potessero essere così cattivi.

L’arte ci sradica e ci colloca in una realtà virtuale. Le espressioni che vengono in mente a molte persone che tentano di descrivere le loro emozioni sono “fluttuante”, “oceanica”, “eterna”, “interminabile”, “Quanto vorrei che tutto ciò durasse per sempre” – una sorta di kairos. Il tempo, nella sua accezione base di khronos, è sospeso e lo spazio è irrilevante in quanto lo spettatore/l’ascoltatore/il lettore è incapsulato nell’arte, lo spazio virtuale creato dall’artista. Un’altra parola per “innalzato” è toccato, mosso – mosso in quello spazio virtuale perché qualcosa ha toccato l’anima e l’ha innalzata.

Ma tutto ciò può anche non avvenire affatto. Possiamo assistere a un concerto, passeggiare lungo una galleria d’arte, leggere un libro e la nostra anima può non esser toccata, nulla ci colpisce. Ciò significa che qualcosa non va in noi? O nell’artista? O nel prodotto artistico? Oppure, forse ci vuole una prospettiva migliore, con la relazione? Non è la giusta forma d’arte per me-qui-ora? A essere onesti “non mi ha toccato” sembra tanto un diritto quanto lo è il fatto di avere accesso a quella stessa, commovente, sradicante, innalzante esperienza.

Decisivo per quanto stiamo trattando qui è se questo tipo di sradicamento in un’altra esistenza avviene. Ma anche in caso affermativo devono essere considerate altre questioni piuttosto importanti.

In primo luogo, l’arte non è l’unica che abbia questo effetto. L’esperienza religiosa è simile. Così come lo è qualsiasi esperienza come quella dell’artista e dello scienziato, e possono esserlo anche altre che avvengono nella vita quotidiana, ordinaria, come fare ordine nel caos di un’abitazione disordinata, fissare l’agenda dei problemi del giorno – in altre parole, distribuire il tempo in maniera adeguata – cucinare un buon pasto e consumarlo. E sicuramente non scordiamoci di quei famosi nastri trasportatori in una realtà virtuale, alcol e droga, che non implicano alcuno sforzo personale. Cosa c’è di sbagliato in questi, a parte la dipendenza? Precisamente il fatto che né ci innalzano, né ci rafforzano attraverso i nostri sforzi personali, ma ci possono abbattere e annientare.

In secondo luogo, l’innalzamento può essere di brevissima durata. Più sopra, lo abbiamo paragonato all’intossicazione, ma forse è qualcosa di meglio. Ci sono dei passaggi nel concerto per piano in do minore di Mozart e nella Passione secondo San Matteo di Bach che mi fanno uscire fuori di testa. Certamente non dovrei guidare in quello stato. Tuttavia, non esiste una legge che lo impedisca.

Potremmo interpretare il sollevamento in maniera differente, non come un’estasi istantanea, ma come un processo graduale che avviene passo dopo passo, che ci rende parte del sublime, ma ancora con l’ordinario in vista, il comune. Come se dovessimo diventare gradualmente più educati. Troppo per trattarsi di sollevamento.

Sottoponiamo l’ipotesi dell’unità al medesimo trattamento. Certo, tutti sappiamo che condividere una grande rappresentazione artistica a un concerto, a teatro, in una mostra crea un senso di appartenenza a una qualche unità. Condividiamo il linguaggio corporeo degli altri partecipanti al medesimo evento e notiamo reazioni simili alle nostre. Percepiamo un senso di comunanza.

Ma allo stesso modo possiamo comportarci mentre ascoltiamo un delirante demagogo farneticare ad alto volume le sue argomentazioni necrofile in maniera indecente; sia che si trovi alla guida di una democrazia o di una dittatura. La struttura di quest’unità può essere verticale, “siamo tutti uniti” – intendendo la sua unità. Ma esiste anche un’unità orizzontale come quella prodotta, anche se inconsciamente e impercettibilmente, parlando lo stesso linguaggio e producendo un Sé più grande che vada oltre il nostro piccolo sé. Tutto ciò è molto diverso dall’ascoltare una lingua straniera, che accompagna una produzione artistica altra: quanto sono diversi questi bar-bar-i.

C’è un qualcosa di verticale in ogni forma d’arte prodotta da un artista individuale dotato di qualche talento particolare e ispirato da esso che noi comuni mortali non possediamo. Se il suo nome è “Anonimo”, come il compositore di un motivo molto accattivante, questo può fornire un piccolo aiuto, ma non molto di più. Se si tratta di “arte popolare”, che emerge da nessun luogo o istante particolare, possiamo percepire l’orizzontalità come una illusione molto utile.

Tutto ciò è davvero importante? Difficile da dire. L’arte non è solo forma e struttura; è anche contenuto e cultura. Il punto d’incontro risiede nel fatto che unità e creazione prodotte dall’arte possono anche servire come allenamento alla verticalità per cedere, arrendersi, addirittura soccombere al segnale proveniente dall’alto. Quel segnale potrebbe essere la pace, ma potrebbe anche essere l’opposto.

Il “Fyr” della galleria norvegese citata nell’introduzione significa faro. Questa è una sottile metafora per indicare una guida nei paesaggi marini, nelle acque molto agitate, lontane dalle barriere coralline e dai bassi fondali, che possa condurre verso le acque tranquille di un sicuro ancoraggio. Ma come è ben risaputo molte navi si arenano perché tratte in inganno dalle luci di un falso faro, assalite da pirati che poi mettono in pratica le loro abilità, ben addestrati all’uccisione e al saccheggio.

Da ultimo vi è la terza tesi, o legame, nell’ipotesi generale:

arte innalzamento unità pace

Sicuramente anche la guerra – la violenza collettiva organizzata da zero, uno, due o più governi – è basata su un’unità in larga parte di tipo verticale quando sono coinvolti anche i governi. Allo stesso modo l’unità orizzontale di un movimento di guerriglia-resistenza-insurrezione non è anch’essa simbolo di pace e coloro che ne fanno parte possono – come in un movimento per la pace – marciare per ore, giorni, settimane stimolati dalla musica, dalla poesia, dalla letteratura, e amare la natura e la cultura. Neppure l’essere immersi nel medesimo linguaggio garantisce la pace, e lo stesso vale per la cultura in generale in tutte le sue ramificazioni. Dipende da quale cultura. Se la soluzione dei conflitti e la nonviolenza sono elementi culturali maggioritari forse sì, ma se non lo sono allora no. L’amore, il sesso e il matrimonio sono certamente delle forme di unità. E ancora, l’unità nazionale come nel caso della Yugoslavia può dimostrarsi persino più forte, giungendo a conficcare dei cunei tra uomo e donna, genitori e figli. I canti natalizi uniscono le famiglie e gli inni nazionali uniscono le nazioni, forse utili per la pace all’interno. Ma uniscono sotto il segno della pace al di là dei confini del conflitto?

Essendo io un produttore di parole assemblate in saggi e libri, posso essere incline a credere che i messaggi verbali siano delle condizioni necessarie per spingersi oltre i confini. Da qualche parte deve esserci un testo che rechi un messaggio chiaro e variegato, forse anche rispetto a chi deve fare cosa, quando, dove, come e perché, affinché ne consegua la pace. Un testo, non un sotto-, super-, profondo testo o contesto; solo un testo. Può esserci un contesto di musica o di arte. Ma mi colpisce che Gandhi, Martin Luther King Jr. e Mandela-de Klerk-Tutu comunicassero con parole, ben scelte, ma pur sempre parole. Non le cantavano, sebbene un contesto musicale e/o di simbolismo religioso fossero presenti.

Comunque, preferire l’uso delle parole non significa escludere quello della musica. Mi piacerebbe sapere che cosa la musica provoca se e quando suscita la pace. Consentitemi un esempio.

Immaginate quattro eccellenti musicisti, A,B,C, e D, ognuno dall’ego molto spiccato. Due suonano strumenti africani, gli altri due suonano strumenti europei, come il piano e il sassofono contralto. Sono invitati a esibirsi per un’ora a una conferenza dedicata alla pace.

Quanto capita in seguito non si rivela molto promettente: tutti insistono per esibirsi da soli, per brillare da soli. L’unica possibilità è vedere un’esibizione di solisti, con nessun altro attorno. Ne seguono quattro possibili risultati di assoluta prevalenza, dove ognuno di loro la fa da padrone.

Immaginate che gli organizzatori siano inflessibili e rifiutino qualunque esibizione solista. Con buonissima probabilità i quattro musicisti, imbronciati e dall’ego ferito, annunceranno, individualmente o collettivamente, la loro non disponibilità per l’occasione.

A questo punto uno degli organizzatori potrebbe sfoderare una semplice tecnica di risoluzione dei conflitti, il compromesso, offrendo quindici minuti a ciascuno. Non sarà possibile avere l’intera ora per se stessi, ma quindici minuti non sono meglio che niente?

Chi legge avrà già visualizzato la migliore delle soluzioni possibili nella sua mente: il quartetto. Tutti e quattro ottengono un’ora per brillare, ma non nella forma del monopolio, da soli, come se si trattasse letteralmente di un concerto in modo da creare qualcosa di più della somma dei solismi (leggasi anche egocentrismi), quanto di meglio non poteva capitare tanto ad A e B quanto a C e D. Il risultato della composizione è sorprendente, addirittura interculturale.

Che cosa abbiamo ottenuto qui? Il processo di risoluzione di un conflitto grazie a una transcendenza positiva; né prevalenza, né ritiro dall’intera performance, e neppure un gretto compromesso insoddisfacente per tutti. Bensì qualcosa di nuovo, andato oltre – transcendente il conflitto tra loro.

Questo va al di là delle sole parole. Questa è pace attraverso l’arte passando per l’isomorfismo e l’identità strutturale. L’arte consiste nell’essere pace invece che limitarsi a esprimerla o verbalizzarla. Fare un’orchestra vuol dire avere musicisti che creano insieme provenienti da ogni parte del “nostro disordinato paesaggio umano”: iracheni, americani/britannici/australiani, palestinesi, israeliani e così via. Insieme possono produrre una struttura creativa che non ha niente di comparabile alla distruzione compiuta dai loro governi.

Quindi, a che punto siamo ora? C’è l’innalzamento, e anche l’unità. La pace però non si trova necessariamente nella musica o in qualche testo di accompagnamento, ma nella struttura della performance. Ovviamente la struttura della pace in termini di cooperazione e creatività diventa più persuasiva nel momento in cui viene empiricamente contrapposta alle tre alternative della prevalenza, del ritiro e del compromesso. Ne avvertiamo forse la mancanza se essi non sono presenti? Il quartetto o la sinfonia compiono quel salto in una nuova realtà da cui risulta qualcosa di molto di più che la somma delle parti. La discussione verterebbe sul fatto che quel tipo di risoluzione del conflitto che è il peacebuilding, in quanto opposto alla mera ricerca di un compromesso, ha esattamente quella qualità. L’ipotesi è che lo si percepisca senza bisogno che ci venga detto.

La creatività è presente in ogni opera artistica. L’artista crea costantemente una nuova realtà. Quand’egli si limita a ripetere la sua vecchia realtà diventa in un certo senso un decoratore che usa parole, melodie e colori. La creatività è per l’arte ciò che l’innovazione è per l’ingegneria. Sicuramente si può continuare a costruire sopra a quanto è già stato creato o inventato. Ma da qualche parte, nel passato, nel presente o nel futuro, deve esserci quel salto.

Affinché la pace possa realizzarsi dobbiamo aggiungere empatia e nonviolenza. Per il compositore o per il musicista che si esibisce l’empatia con lo strumento, con l’interprete e con il pubblico è di vitale importanza. E quando si va oltre la performance solista, l’empatia con gli altri interpreti avviene accordando anime e spiriti gli uni con gli altri nello stesso modo in cui si accordano i propri strumenti prima di iniziare lo spettacolo. Per la pace ciò vale ancora di più se maggiore è la distanza spirituale tra le parti.

E per la nonviolenza? Salta alla nostra attenzione musicale una parola: calmante. Il tipo di musica che ci piacerebbe accompagnasse l’agopuntura, un’operazione chirurgica o odontoiatrica. I canti gregoriani o la musica orientale, ondulante, dove non esiste né un inizio, né un’acme, né una fine. Le ninne-nanne sono spesso concepite in questo modo.

Questo tipo di musica può far riposare per un po’ le menti agitate. Ma questo non concepisce la pace in termini di rappacificazione? Forse sì. E forse quel tipo di musica è solo una parte del messaggio. Forse un messaggio più completo si trova nell’A-B-A di una sonata classica, quiete-tempesta-quiete, o nei quattro andamenti di una sinfonia classica che finisce con una soluzione armonica nella quarta andatura in contrasto con la tensione generata nella prima, la quiete nell’andante del secondo e la tempesta del terzo. Durch Leiden zur Licht, alla luce attraverso la sofferenza, era il motto di Beethoven. Non è esattamente quello in cui consiste lo sforzo, non la lotta, per la pace?

Di nuovo giungiamo all’isomorfismo, questa volta con una struttura che sovrasta il tempo, come la risposta alla ricerca di un’interconnessione.

A quel punto possiamo trovarci vicino alla conclusione che vi è più pace nella musica che in quanto è proclamato dalle parole della letteratura. Aristotele ci avviò lungo uno dei più infelici percorsi con la sua famosa distinzione tra tragedia e commedia. Conosciuto anche per il suo tertium non datur, non c’è una terza possibilità, grazie a lui siamo stati indotti a credere che queste sono le uniche forme di espressione letteraria. O una fine cattiva o infelice, oppure una fine comica, divertente. I nostri mezzi d’informazione rispecchiano questa realtà e lo si nota da quanto distorcono la realtà comprimendola unicamente in queste due forme: o giornalismo violento, portatore di qualcosa di negativo, triste, cattivo, oppure puro intrattenimento.

Ma qual è l’alternativa? Sarebbe forse “e vissero tutti felici e contenti”, Hollywood? Nient’affatto. Impariamo ancora da Beethoven e, in particolare, da uno dei suoi quartetti. Lottare, sforzarsi esattamente per ottenere quella realtà in cui l’armonia è tuttavia possibile, in senso musicale dove la fine avviene in crescendo, in accordo con un’idea di pace dove la fine si verifica attraverso una transcendenza positiva. In tutto questo vi è un senso di liberazione che può addirittura fornire il meritato recupero e far originare la necessaria ricostruzione in vista del prossimo problema o conflitto. Una musica che non procura questo tipo di sensazione è difficilmente una musica produttiva di pace.

Ma ritorniamo alla letteratura. Autori come Han Yin e Bernard Malamud hanno scritto commoventi novelle dove gli attori affrontano enormi problemi e conflitti in contesti altamente disordinati e riescono, tuttavia, a risolverli alla fine, regalando sia a loro stessi che ai lettori un profondo senso di liberazione e di forza. Hanno transceso i loro problemi. Nessuna tragedia, né, tantomeno, nessuna commedia. “Transcendenza”? Così dannatamente necessaria nei mezzi di comunicazione per portare un po’ più di luce nell’attuale condizione di paura di parlare di sofferenza.

Innalzante, sì. Unificante, anche. Ma il passo per la pace non arriva da solo. Deve essere pensato, sentito e provato. E questo sarà sempre estremamente necessario nella nostra lotta per la pace.

Lo scienziato e attivista per la pace giapponese professor Ikuro Anzai è anche un maestro di haiku. Nella trentatreesima collezione dedicata al Giorno della Memoria della bomba atomica nel 1999 si legge:

 

Ove un uomo sedette

ora una macchia oscura

e non se ne andrà più (di Francis Gallagher, Scozia)

 

L’orribile contenuto del messaggio sulle armi che uccidono evaporando un essere umano in vita ci perviene attraverso la quieta e armonica forma dell’haiku. Possiamo ugualmente immaginare una musica calma e armonica come sottotesto o contesto, e qualche pennellata dal colore tenue realizzata con un soffice pennello che faccia da sfondo. Quelle parole, tuttavia, hanno un loro preciso significato e, raccogliendolo da tutte le parole che si possono inserire in quel contesto, noteremo come esse contraddicano quest’ultimo. Che sia questo il punto centrale? Che nell’armonia debba pur esserci una qualche forma di disarmonia? Indubbiamente la pace include equità e mutua solidarietà. Ma deve pur esserci un elemento di disarmonia nell’armonia, di contraddizione nella risoluzione di un conflitto. La pace è vita, e come dice il detto cinese, l’unico uomo privo di contraddizioni è l’uomo morto. Qualcosa di rimasto irrisolto. La buona arte è come la pace positiva: sempre impegnativa.

Sia l’arte che la pace si collocano nella tensione tra le emozioni e l’intelletto o la ragione. Un’altra falsa dicotomia. Qualunque buona e profonda costruzione intellettuale provoca una forte soddisfazione emozionale, e nell’opera d’arte più emotivamente toccante vi è un’architettura nascosta nel progetto della novella, della sinfonia, del dipinto, della scultura. La vita unisce ciò che i concetti e il dualismo separano. E l’arte, come la pace, deve superare queste false dicotomie parlando sia al cuore che alla mente, sia alla compassione del cuore che alle elaborazioni concettuali del cervello. Forse è quello il punto in cui arte e pace si ritrovano e si interconnettono a livello più profondo: entrambe si rivolgono a tutte e due le capacità umane.

Traduzione di Silvia De Michelis per il Centro Sereno Regis

Titolo originale: Peace and Arts: in search of the interconnection

 

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