Introduzione a Aldo Capitini

Giuliano Pontara

“Sono nato a Perugia il 23 dicembre 1899, in una casa nell’interno povera. ma in una posizione stupenda, perché sotto la torre campanaria del palazzo comunale, con la vista, sopra i tetti, della campagna e dell’orizzonte umbro, specialmente del monte di Assisi, di una bellezza ineffabile”.

Così inizia il breve scritto autobiografico, dal titolo Attraverso due terzi di secolo1, che Aldo Capitini stese nell’agosto del 1968 mentre era in attesa di una operazione chirurgica cui doveva sottoporsi in ottobre. Forse intuiva che non sarebbe sopravvissuto e desiderava lasciare un breve bilancio consuntivo della sua vita:

” Potrebbe essere utile a qualcuno nel caso che poi non facessi altri scritti….un estratto per gli amici e in memoria!”.

Così scriveva all’amico Guido Calogero in agosto.2 Gracile e di debole salute fin da giovane (e per motivi di salute fu esonerato dal servizio militare), il fisico di Capitini non resse: morì il 19 ottobre, dopo aver subito due interventi chirurgici per l’asportazione della cistifellea. Nel gennaio dello stesso anno (1968), Capitini aveva steso un breve scritto in cui commemorava il ventesimo anniversario dell’assassinio del Mahatma Gandhi. Nello scritto ricorda come già nel l931, assieme al suo compagno Claudio Baglietto (che nel ’32 si rifiuterà di ritornare in Italia dall’estero perché contrario al servizio militare obbligatorio) si servì delle idee di Gandhi per fare opposizione antifascista dentro la prestigiosa Scuola Normale Superiore di Pisa, dove lavorava in qualità di assistente volontario e segretario economo.

Il ’31 era l’anno in cui Gandhi aveva concluso da poco la epica “Marcia del sale” con la quale aveva portato a nuovi sviluppi la lotta nonviolenta contro l’imperialismo britannico; nello stesso anno era uscita in Italia, in edizione ridotta, l’ Autobiografia di Gandhi con una prefazione del filosofo (filo-fascista) Giovanni Gentile. Alcuni anni prima, nel 1925, era uscito in traduzione italiana il libro di Romain Rolland, Mahatma Gandhi, che aveva contribuito a far conoscere a un più vasto pubblico la persona e l’operato di Gandhi.

In questi due libri, scrive Capitini, vi “era il sufficiente per scoprire il fine e soprattutto i mezzi. La liberazione doveva essere una nuova vita religiosa, raggiunta per mezzo della nonviolenza. La grande arma della non-collaborazione veniva in piena luce. Se l’Italia avesse non collaborato con il fascismo, se ne sarebbe liberata. Altro che Conciliazione! Il mio compagno dentro la Normale era Claudio Baglietto, morto poi esule a Basilea nel l940. Facemmo esplodere la bomba Gandhi alla Normale di Pisa! Da allora Gandhi restò punto di riferimento e di ricostruzione etico-religiosa”3. E nello scritto autobiografico sopra citato ricorda che “presa da Gandhi l’idea del metodo nonviolento impostato sulla noncollaborazione, potevo avere una guida per dire di ‘no’ al fascismo…”.4

Nel ’33, in seguito al suo rifiuto di iscriversi al partito fascista, Capitini perde il posto di segretario della Scuola Normale. Negli anni seguenti è sempre più coinvolto nella propaganda antifascista; nel 1937 esce il suo primo libro, Elementi di una esperienza religiosa (pubblicato, con l’appoggio del filosofo italiano antifascista allora più influente – Benedetto Croce – presso il noto editore Laterza); un libro che, come Capitini stesso scrive nella nuova Introduzione stesa in occasione della ripubblicazione del libro nel 1947, “portava una persuasione interiore che era l’antitesi del fascismo”, non solo come sistema politico allora vigente, ma come concezione del mondo e della vita, come “un insieme di mentalità e modi di agire che continuano dopo il fascismo.”5 In questo libro – in cui si sente l’influenza profonda di Gandhi (che non è mai nominato, ma del quale Capitini poi, nella Introduzione alla seconda edizione, riconosce l’ influenza) – sono già presenti i temi centrali sui quali in seguito Aldo svolgerà tanta parte del sue pensiero: il rapporto intrinseco tra mezzi e fini, i principi di nonuccisione e di nonmenzogna, la nonviolenza come persuasione, il rispetto del mondo animale non umano, il vegetarianesimo, la forza della verità, la forza dell’anima, l’iniziativa religiosa, il principio di noncollaborazione, la disobbedienza civile.

Dopo l’uscita del libro, Capitini viene sempre di più coinvolto nelle iniziative di “attivare” e “collegare” antifascisti nel movimento liberalsocialista – “una sintesi di libertà e di socialismo”, come egli lo definisce, che rifiuta sia “l’iniziativa privata capitalistica” inerente al liberalismo, sia la involuzione del socialismo “in stalinismo non aperto al controllo dal basso e alla libertà di informazione e di critica per ogni cittadino, anche proletario.”6

A causa della sua attività e propaganda antifascista Capitini finisce due volte in prigione, nel ’42 e nel ’43. Dopo la liberazione Aldo continua a essere attivissimo, sia come uomo di pensiero, sia come uomo di azione. Insegna filosofia morale all’università di Pisa, poi pedagogia, prima all’università di Cagliari, poi a quella di Perugia; scrive libri (tra cui Religione aperta, uscito nel ’55 e messo all’indice dal papa Pio XII, al quale Capitini risponderà nel ’57 con il libro Discuto la religione di Pio XII ); organizza e partecipa a convegni su problemi di religione, di politica sociale, di disarmo, di nonviolenza; si spende in appoggio ai primi obiettori di coscienza al servizio militare, si impegna per sostenere il lavoro di Danilo Dolci in Sicilia; è instancabile creatore e animatore di Centri di orientamento sociale (COS) “per discussioni aperte a tutti su tutti i problemi”, e di Centri di orientamento religioso (COR); prende iniziative per la realizzazione di marce per la pace, come la epica marcia della Pace da Perugia ad Assisi il 24 settembre 1961; fonda organizzazioni come la ADEPSSI (Associazione per la difesa e lo sviluppo della scuola pubblica italiana), la Società Vegetariana Italiana, e movimenti, come il Movimento nonviolento per la pace; dà vita ai periodici “Azione nonviolenta” (che è a tutt’oggi l’organo del Movimento nonviolento in Italia) e “Il potere di tutti”, che continua a curare fino alla sua morte.

Capitini è colui che nella cultura italiana del secolo scorso – di non grandi tradizioni pacifiste e imbevuta di “realismo” da Machiavelli a Pareto, da Mosca a Gramsci – porta per primo la teoria-pratica, il pensiero-azione della nonviolenza.

Giustamente rimarca nel suo scritto autobiografico già più volte citato, che “[n]el campo della nonviolenza, dal 1944 ad oggi [1968], posso dire di aver fatto più di ogni altro in Italia”.7 È lui a insistere per primo sulla grafia nonviolenza (invece di non violenza o non-violenza). E uno strenuo propagatore e divulgatore più che non un pensatore volto a sviluppare una teoria sistematica della nonviolenza. S’intende, non manca nei suoi scritti una riflessione teorica, ma la grande mole dei suoi articoli, e anche diversi dei suoi libri – compreso questo (Le tecniche della nonviolenza), uscito originariamente nel 1967 per i tipi della Libreria Feltrinelli – sono parte integrante di un’ azione, politica ed educativa. Ciò è in piena coerenza con la concezione che Aldo aveva del “primato della prassi”, il “primato della pratica diretta”, e quindi, in primo luogo della nonviolenza come metodo che si ispira al satyagraha gandhiano. Per questo la grande maggioranza dei suoi scritti (fatta eccezione forse solo per La compresenza dei vivi e dei morti) sono stesi in un linguaggio “aperto a tutti”, chiaro, privo di ogni retorica, ma incisivo, a volte anche poetico.

Poeta fu lui stesso – le sue poesie, che esprimono il senso religioso della compresenza dei vivi e dei morti e del rispetto per tutti gli esseri viventi -sono raccolte nei due volumi Atti della presenza aperta (1943) e Colloquio corale (1956).

E non coglierai i fiori.
Solo il fiore che lasci sulla pianta è tuo.
Mostrerai che tu non sei figlio del torrente
che scava, usurpa, e fugge.
Ogni tuo pensiero sarà anima di tutti:
vivrainella vita dei cuori e di ogni sostanza di luce
Capirai la verità che l’amante parli all’assente.

Capitini era un uomo “appassionatamente” impegnato; mirava a incidere sui rapporti di potere attraverso il potere del metodo nonviolento, e per questo la sua azione fu azione politica – ma mai fu, né volle essere, un uomo di partito. L’arena dell’attività politica era per lui il movimento, il movimento dal basso per il potere di tutti:

“Rifiutando ogni carica offertami nel campo politico, ho piegato la politica, e l’interesse in me fortissimo per essa, alla fondazione di un lavoro per la democrazia diretta, per il potere di tutti o omnicrazia (come la chiamo).”8

Pensava che la democrazia, senza la vitalità di movimenti dal basso, diventava sclerotico regime di “caste”. È difficile dargli torto.

Capitini aveva letto e studiato molto, iniziando sin da giovinetto. Il suo pensiero “spirituale” si nutre inizialmente della passione che aveva per la poesia di uno dei più grandi poeti italiani, Giacomo Leopardi, e si forma poi nell’abito del neoidealismo storicistico che (specie nelle opere di Benedetto Croce, avverso al fascismo, e di Giovanni Gentile, favorevole a esso) è culturalmente la filosofia dominante in Italia nel periodo in cui Capitini frequenta l’università a Pisa. Studia Hegel, “l’ho studiato per anni e anni” scrive nel suo pezzo autobiografico, ma preferisce Kant, il Kant teorico del primato della ragion pratica, della morale, della Religione nei limiti della sola ragione. Si incontra con il pensiero degli esistenzialisti, studia Kierkegaard, e trae ispirazione dalla lettura di quanto aveva scritto Carlo Michelstaedter, un pensatore di tendenza esistenzialista, morto suicida giovanissimo, e dal quale mutua il termine “persuasione”: “un termine – scrive Capitini – che ho assunto preferendo ‘persuaso’ a ‘credente’, persuaso nel senso di ‘autopersuaso’, quasi di ‘pervaso'”9; un termine che nello sviluppo del proprio pensiero Capitini arricchirà di contenuti. Studia Marx e i marxisti.

Ma l’ispiratore di Aldo, sia del suo pensiero sia della sua azione, diventerà e rimarrà sempre di più Gandhi: “ho visto Gandhi portare i principi della nonviolenza e della nonmenzogna nella vita politica e questo mi ha attratto… Gandhi mi mostrava con i fatti e con le sue parole limpidissime che la mia tendenza alla politica… non era discorde dall’esperienza intima religiosa, di servire il meglio, ciò che è buono assolutamente.”10 E ancora: “Io non sono mai stato né crociano né gentiliano, ma kantiano (prima implicitamente) e poi Gandhiano”.

Gandhi, anche dove non è espressamente nominato, è sempre più presente negli scritti di Capitini, tanto che lui stesso, nello scritto autobiografico già più volte citato, accenna alla sua concezione della nonviolenza “attiva”, “positiva”, come “ispirata da una libera articolazione del gandhismo in sintesi con elementi occidentali…”.11 L’espressione “libera articolazione del gandhismo” è importante segnale di un pensiero aperto, critico, indipendente.

Il tema fondamentale ricorrente sempre di più negli scritti di Capitni è quello della “compresenza” e delle sue espressioni pratiche nella nonviolenza e nella omnicrazia: “la sintesi… di riforma religiosa, di metodo nonviolento, di democrazia diretta e proprietà pubblica”.12

La compresenza Il discorso sulla “compresenza ” costituisce il momento più sistematico – e, almeno in parte, anche di più difficile interpretazione – del pensiero etico-religioso di Aldo Capitini. Egli svolge più compiutamente questo discorso in quello che forse è il suo libro più articolato, certamente il più complesso, La compresenza dei morti e dei viventi.13

Capitini stesso ci dice che la “compresenza porta con sé due punti di vista”: quello della “coralità del valore” e quello dell'”apertura al tu-tutti.”14

In una interpretazione “banale”, la compresenza dal primo punto di vista, quello della “coralità del valore”, può essere identificata con l’idea per cui ogni singolo “atto creativo di valore” – morale, sociale, politico, estetico, scientifico – è sempre un atto in cui convergono, non soltanto gli sforzi del singolo soggetto agente, bensì anche i contributi di tutti quelli senza i quali quell’atto non avrebbe avuto luogo: i passati, i morti, le generazioni precedenti, e i viventi che attraverso il loro essere e agire in qualche modo – quasi sempre non intenzionale – contribuiscono alla vita del soggetto agente, a creare le condizioni del suo atto creativo di valore e anche del suo compimento.

Così, esemplifica Capitini, la musica di Bach e il suo valore “non è risolvibile col fare la somma delle condizioni fisiologiche o storiche di Bach. Anzi l’esperienza di chi compie un’opera o atto di valore, sia la creazione di una musica o il compimento di un atto di bontà o di onestà, è molto spesso quella di essere stato aiutato, di non avercela fatta con le proprie forze, anche se ha fatto ciò che poteva per avvicinarvisi. La compresenza colma questo intervallo, e dice: la compresenza ti ha aiutato.”15

In questo senso i valori sono creati “coralmente.” Tutto questo non mi pare molto controverso; magari in questo senso sono creati “coralmente” anche i disvalori. Tutt’altra cosa è se tale idea viene spinta all’estremo, diventa una idea metafisica, mistica, per cui ogni atto “creatore di valore” non è mai l’atto di questo o quell’individuo, bensì sempre un atto “corale” dell’ “uno-tutti”. Non mi addentro qui in una discussione sul senso più preciso di questa idea mistica della compresenza; noto solo che essa solleva, tra altri, il problema se essa sia compatibile con quella responsabilità morale delle scelte e degli atti del soggetto individuale, che Capitini fa valere nella concezione della compresenza dal punto di vista della “apertura al tu-tutti”. Da questo punto di vista, la “compresenza” è una concezione etica onnicomprensiva che allarga il campo della nostra responsabilità morale di esseri pensanti fino a comprendere “tutti” – i morti, i viventi, coloro che vivranno, le generazioni future, gli animali non umani, tutto ciò che vive.

Per Capitini, come per Gandhi, come per Albert Schweitzer (che però non ho mai visto citato nella molteplicità degli scritti capitiniani che ho letto – ma non li ho letti proprio tutti) vi è un nesso profondo che “unisce” ogni essere vivente (indipendentemente dal tempo o dal luogo in cui vive). Formule come “l’unità della realtà di tutti”, “l’unita di tutti gli esseri”, “l’uno-tutti”, “tutti sono nel profondo un’unità”, ricorrono assai spesso negli scritti di Capitini, e ricordano le formula gandhiane che identificano il concetto di Dio con quello della “somma di tutto ciò che vive”, della “unità di tutto il vivente”. Ricordano anche la formula di Albert Schweitzer: “io sono vita che vuole vivere circondato da vita che vuole vivere.” La compresenza come “apertura al tu-tutti” comporta per Capitini – come per Gandhi, come per Schweitzer – il rispetto per la vita. Come anche si legge nel capitolo quarto di questo libro (Le tecniche della nonviolenza), là dove Capitini scrive su “L’atto del tu”, gli esseri ai quali è rivolto il tu etico, “il tu nonviolento”, non sono soltanto gli esseri umani, bensì anche gli altri esseri capaci di esperire piacere e dolore, in modo particolare “il dolore della violenza.” Di qui il rifiuto che Capitini oppone alla concezione umanistico-antropocentrica-specista, la denuncia di quell’atteggiamento per cui si considerano gli animali non umani come pure mezzi; di qui il vegetarianesimo che, come Capitini scrive nel passo su “La zoofilia e il vegetarianesimo”, sempre nel capitolo quarto del libro citato, è motivato dal “proposito di ridurre la strage” degli animali non umani, e “specialmente di quelli più sensibili al dolore e di una vita più complessa.” Capitini va oltre il rispetto della vita degli animali non umani. Egli fa sua la dottrina gandhiana dell’ahimsa – antica nel pensiero etico-religioso orientale, e ripresa in vari modi in quello occidentale da Schopenhauer, Albert Schweitzer e da certi contemporanei fautori dell’ecologia profonda come Arne Naess – per cui, oltre agli esseri senzienti, anche ogni altra creatura non senziente, ma vivente, è degna di vivere e di perseguire il proprio sviluppo, il proprio telos. Invitava dunque, come Schweitzer, a “stroncare il meno possibile piante e fiori.”16

E come per Schweitzer e Gandhi, anche per Aldo la religiosità – ma si potrebbe anche dire la moralità – è “legame” con e “riverenza” per ogni essere vivente, secondo quelli che egli stesso indicava come “i due significati di religione: legare, riverire.”17

Questa “apertura nonviolenta a tutti gli esseri” non è legata a questa o quella religione; come è enunciato nella tesi 8 del capitolo secondo del libro citato, essa “può essere accettata dai teisti e dagli atei collettivisti, dall’Occidente e dall’Oriente…” All’idea della “compresenza di tutti”, nella interpretazione etica qui in esame, è dunque sotteso un principio secondo il quale ogni essere ha valore di fine e mai soltanto e puramente valore di mezzo. Forse certi esseri hanno maggior valore di fine di altri esseri – gli esseri umani maggiore degli animali, questi maggiore delle piante. Capitini dà spesso a intendere che sottoscrive questa “gradualità” etica, la quale, però, solleva molti problemi nel merito dei quali qui non entro. Noto solo che nessuna singola creatura – nemmeno umana – può plausibilmente essere considerata un fine assoluto, una creatura che è sempre e assolutamente proibito trattare come mezzo, il cui bene non può mai essere giustificatamente anteposto a quello di altri; dire un “tu divino” a questa o quella creatura deve essere compatibile con il dire “un tu divino” a ogni altra creatura, o almeno a ogni altra simile creatura – e dunque il “tu divino” non può essere un “tu infinito”. Nell’ “atto etico”, nel “fare persuaso”18 sono dunque compresenti tutti quelli sul cui bene o sul cui male quell’atto incide, ma ciascuno non può contare che per un tu, e nessuno per più di un tu.

Ci si può chiedere se questa concezione non dovesse portare Capitini a discutere più a fondo di quello che non ha fatto la concezione etica dell’utilitarismo per cui, appunto, si tratta di massimizzare la felicità, il benessere delle creature senzienti, capaci di esperire dolore e piacere, gioia e sofferenza, ciascuno contando per uno e nessuno per più di uno. L’idea della “compresenza di tutti” come l’idea di una realtà in cui la vita, la gioia, la serenità la felicità, lo sviluppo sono letteralmente di tutti, di ogni tu19, è una idea limite. Messa a confronto con il mondo in cui viviamo, questa idea, quand’è presa sul serio, diventa “insoddisfazione davanti alla società e davanti alla realtà, per ciò che esse sono di inadeguato alla compresenza.”20

E questa insoddisfazione si traduce in “prassi”, in “impegni davanti alla società e alla realtà insoddisfacente”, in “attività volte alla loro trasformazione”, in “una vita di tensione, di centro, con impegni, rapporti e appassionamenti, nella quale c’è molto meno, o per nulla il posto per la ricerca della felicità propria per se stessa.”21 C’è la ricerca di una società del benessere di tutti – il gandhiano sarvodaya, the welfare of all – in primo luogo tesa a migliorare la sorte dei più svantaggiati dalla lotteria naturale o vittime delle più inique ingiustizie sociali, i “sofferenti”, gli “stroncati”, gli “ultimi”, in una identificazione con essi che è l’opposto del disprezzo nazista per “i deboli “.

La nonviolenza

Come già accennato, il “metodo nonviolento” è, in Capitini, l’espressione nella prassi della concezione etica – che per Capitini, si è visto, è anche “religiosa” – della compresenza: “l’homo religiosus opera sulla base della compresenza”.22 Corollari della compresenza sono, in Capitini, i due principi della nonuccisione e della nonmenzogna (il quale ultimo, osserva Capitini, “non significa dire tutto a tutti, il che sarebbe anche una immane fatica.”).

Ambedue i principi sono sottesi alle varie “tecniche della nonviolenza” che Capitini passa in rassegna nella seconda parte di questo libro, una rassegna che, come egli stesso sottolinea già all’inizio, non può essere esaustiva: “guai se dovesse spengere la creatività di nuovi modi” in situazioni diverse. Il rifiuto, “per principio”, della violenza come metodo di lotta, di conduzione dei conflitti, è ciò che caratterizza la nonviolenza del persuaso, e la differenzia dalla nonviolenza del pragmatico, di colui il quale in determinate situazioni può ricorrere a metodi di lotta non armata, incruenta, ma non esclude la possibilità di ricorrere, in altre situazioni, alla violenza armata. Come enuncia la tesi 6 nel secondo capitolo di questo libro, il persuaso della nonviolenza è fermo “nel rifiutarsi a praticare la guerra, la guerriglia, la tortura, il terrore, per qualsiasi ragione”, per qualsiasi causa.

Qui si inserisce il discorso sul rapporto mezzi-fini – un discorso sul quale, come una volta si soleva dire, “sono stati versati fiumi di inchiostro”.23 Capitini si è inserito in questo discorso in vari scritti e con esso apre anche questo libro, citando un famoso passo di Gandhi: “…i mezzi in fin dei conti sono tutto…”. La tesi sostenuta è quella della “inseparabilità”, o, come Capitini anche la chiama, della “coincidenza” tra mezzi e fini. Di questa tesi si possono dare almeno due interpretazioni, una etica, normativa, l’altra empirica. Secondo l’interpretazione etica i mezzi sono inseparabili dai fini nel senso che debbono essere valutati con gli stessi criteri con cui si valutano i fini: un fine buono – giudicato tale in base a certi criteri di bontà – può essere lecitamente perseguito soltanto con mezzi rispettosi degli stessi criteri. In questo senso i mezzi contano sommamente, e nessun fine buono giustifica l’impiego di mezzi intrinsecamente malvagi. Se si rifiuta la violenza come fine, si deve rigorosamente rifiutarla pure come mezzo – anche in situazioni in cui l’uso della violenza può apparire necessario al conseguimento del fine buono. Il pacifismo assolutistico si fonda su questa concezione. Capitini talora si esprime in questo senso: “La religione porta nel modo più risoluto l’attenzione sui mezzi: i mezzi religiosi della verità e della nonviolenza [i gandhiani satya e ahimsa] sono proprio l’atto religioso, che non vale nella sua essenza perchè è vantaggioso, ma in senso assoluto, per un amore che è superiore ad ogni considerazione di utilità.”24

Nella interpretazione empirica – sulla quale pure Capitini spesso porta il discorso – la tesi della inseparabilità dei mezzi dai fini dice che la natura dei mezzi impiegati di fatto determina – attraverso complessi processi psicologici, socialpsicologici, sociologici – quella del fine che si persegue. Nei mezzi impiegati è prefigurato il fine; nei mezzi violenti impiegati dai nazisti è prefigurato il fine violento del nazismo, nei mezzi nonviolenti è prefigurato il fine nonviolento: la nonviolenza è un “metodo di lotta che porta già il fine a coincidere col mezzo.”25

L’impiego sistematico della violenza – specie nella forma della guerra, della guerriglia, del terrorismo – è controproducente in relazione al fine di realizzare una società, un mondo, il più possibile liberato dalla violenza. Chi semina violenza raccoglie – se non nel breve periodo, alla fine – violenza: come Capitini scrive verso la fine del capitolo secondo di questo libro, “la violenza, anche quella rivoluzionaria, prepara la strada ai tiranni”. Questa è una lezione della storia. Un’altra lezione è data dalla escalation storica della corsa ad armamenti sempre più distruttivi, dai tempi in cui i conflitti acuti tra gli umani si combattevano con armi rudimentali, ai tempi odierni della armi ABC di distruzioni di massa.

Nel secondo capitolo di questo libro, la tesi 4 sulla nonviolenza enuncia che “La nonviolenza non è inerzia, inattività, lasciar fare…” Capitini non si è mai stancato di denunciare quello che chiamava “l’equivoco della nonviolenza come pace”. Scriveva nel 1948: “È un errore credere che la nonviolenza sia pace, ordine, sonno tranquillo… La nonviolenza non è l’antitesi letterale e simmetrica di guerra: qui tutto infranto, lì tutto intatto. La nonviolenza è guerra anch’essa, o per dir meglio lotta, una lotta continua”.26

È lotta continua contro la guerra – ivi comprese “le crociate liberatrici”, “le guerre igieniche” (oggi possiamo aggiungere le “guerre etiche” e “le guerre umanitarie”) nel corso delle quali, solo nel secolo passato, esseri appartenenti a quella che è chiamata la specie homo sapiens hanno massacrato totalmente 180 milioni di esseri appartenenti alla stessa specie (e nessuno, che io sappia, ha mai contato le centinaia di milioni di animali completamente innocenti massacrati assieme agli umani nel corso di queste guerre); è lotta continua contro il militarismo e gli eserciti armati di armi di distruzione di massa, le istituzioni e le strutture belliche, il complesso militare-industriale-burocratico-scientifico, la corsa sempre più folle ad armamenti di distruzione apocalittica; lotta continua contro la violenza intrinseca al fondamentalismo del mercato, al capitalismo predatore, all’industrialismo sfrenato, al consumismo sprecone; lotta contro quello che Capitini chiamava lo “stato vecchio” con la polizia violenta, la tortura, le enormi disuguaglianze sociali ed economiche; lotta continua contro l’ubbidienza autoritaria che porta a ubbidire comandi di commettere crimini orrendi; lotta continua contro quello che Aldo chiamava “il politicismo che chiude i partiti in stati maggiori” e contro le tendenze delle élites dei politici di professione a diventare “casta” – anche dentro i sistemi democratici; lotta continua contro quella che egli denunciava come “la scorrettezza civica italiana”, il “fregare lo stato”, “ingannare sulle tasse, frodare gli enti pubblici, valersene per profitti privati, mentire a tutti i livelli”, “scorrettezza civica” che naturalmente non esiste solo in Italia e che costituisce una delle minacce alla democrazia.

E ancora, lotta contro le chiese che divengono poteri temporali e piramidali, caste di potenti; lotta contro il pietrificarsi di un pensiero in dogma, ideologia chiusa, intollerante, fanatica (si ricordi che Gandhi stesso avversava profondamente “il gandhismo”); lotta contro la violenza psicologica e culturale perpetrata dai media, la manipolazione delle menti, l’indottrinamento distruttore dell’autonomia e del senso di identità della persona. Capitini non è uno sprovveduto, un ingenuo.

Sa che la storia è – anche – storia di follie, di orrori, e che tanto le une quanto gli altri si possono ripetere. Vede nella storia “popoli che spezzano convenzioni internazionali utili a tutti, diventano perciò realmente più poveri, e si portano allora a fantasticare una guerra che darà il paradiso; cricche di politici o di militari che prendono il potere, promettendo di stabilire il miglior regime del mondo; potenze che per ‘mantenere la libertà’ fanno lega con le caste ricche e le fanno diventare più ricche; liberali che utilizzano il fascismo, marxisti che utilizzano il nazionalismo, e dappertutto il gusto del colpo di potere, dei carri armati che sfilano, dei lanciafiamme che aprono la via, del terrorismo che distrugge in un colpo cose e persone. Questo è il contenuto storico forse ancora di anni.”27

Ma intanto il persuaso della nonviolenza fa qui e ora la sua scelta: “scelta severa e tremenda”, e proprio perché severa e tremenda Capitini la propone come “libera aggiunta”: si può costringere esseri umani a praticare la violenza, ma non li si può costringere a praticare la nonviolenza.

Capitini è profeta, non utopista. Non considerava se stesso un nonviolento; preferiva dirsi un “amico della nonviolenza”, “un violento che tende, più costantemente che può, a essere nonviolento”28, che cerca di “vivere anticipazioni” di “una società che riduca al minimo la violenza “29, operando sia sul piano della “tramutazione” personale, sia su quello della “trasformazione” delle strutture e delle istituzioni.”Tramutazione” e “trasformazione” sono – come “persuasione”, “apertura”, “aggiunta” – termini tipicamente capitiniani. La nonviolenza del persuaso, sia a livello di azione individuale sia a livello di azione collettiva, si “sottrae ai vari machiavellismi, alle tattiche della menzogna politica, alla diversificazione del mezzo dal fine (ora il liberalismo e poi il socialismo, ora la dittatura e poi la libertà, ora la guerra e poi l’amore universale, ora il rogo degli eretici e poi il regno dei cieli).”30

Capitini rifiuta la concezione del realismo politico, quella “specie di imitazione della natura in ritardo”31 che vede la politica esclusivamente come la sfera delle relazioni di potere regolate dalle leggi machiavelliche del “lione” e della “golpe”, la forza bruta e la frode, uccisione e menzogna, contro-uccisione e contro-menzogna, il “diritto” del più forte, “l’uso di ogni mezzo per la vittoria”32; una concezione della politica che, portata alle sue estreme conseguenze logiche, sfocia nella ideologia e pratica violenta del nazismo e nutre le tendenze naziste che diramano da esso e si esprimono oggi in nuove barbarie e altre ne preparano per domani.

Attraverso il suo agire nonviolento il persuaso cerca di dare il suo contributo alla diminuzione della violenza nel mondo. “Le violenze sono da ridurre al minimo con piena buona fede e con molta riflessione per ogni caso…”33 Capitini sa che la nonviolenza attiva comporta grandi rischi, compreso quello di portare a galla conflitti latenti e anche far scoppiare violenze. Il persuaso è disposto a correre questi rischi, il persuaso “vive nel rischio”34.

Ma trattandosi di ridurre il più possibile la violenza nel mondo, può argomentare che, anche se la lotta nonviolenta in certe situazioni acuisce i conflitti e può inasprire, o anche scatenare la violenza di coloro contro cui è diretta, tuttavia essa è ben lontana dal causare quei processi di escalation della violenza in violenza sempre più massiccia che la lotta armata – anche attraverso i processi di brutalizzazione, disumanizzazione, militarizzazione a essa connessi – immancabilmente mette in moto. Il persuaso della nonviolenza non si fissa sugli effetti immediati, perché ritiene che è proprio quando gli uomini guardano agli effetti immediati che le violenze si accavallano sulle violenze, comprese le grandi violenze di cui sono minacciate molte generazioni future.

Ci sono naturalmente le “ipotesi tormentose”, i “casi personali”, su cui spesso si rivolgono le obiezioni dei critici della nonviolenza: che fare se uno si trova in una situazione in cui una persona lo assale o sta per uccidere un bambino? La risposta di Capitini a queste domande è identica a quella che vi dava Gandhi; se si è preparati e in grado di difendersi o difendere il bambino in modi nonviolenti si fa questo; altrimenti si deve intervenire in modo violento, cercando in ogni maniera di non usare più violenza di quella necessaria. “Sarà stimabile chi, in omaggio alla nonviolenza e per tutto ciò che essa significa e produce, non compie la violenza di uccidere l’aggressore”, perchè riesce a bloccarlo con un atto nonviolento. “Ma sarà stimabile anche chi compie questa violenza, con il puro scopo della difesa del bambino… L’atto vale per tutta la sua sostanza, e la sostanza della nonviolenza è rispettabile tanto quanto quella della legittima difesa, purché siano entrambe serie e profonde.”35

Ma questo non è generalizzabile, non comporta che si debba accettare la violenza massiccia degli eserciti e delle guerre – specie nel mondo d’oggi in cui anche le cosiddette “guerre di difesa” sono sempre di più guerre di offesa che crescono su se stesse in processi di escalation e seminano stragi soprattutto tra gli innocenti, ivi comprese generazioni future. “Qui si è fuori del sottilizzare su nonviolenza personale, sui diversi ‘casi’, su quelli tormentosi, ecc.; qui siamo davanti ad un fatto enorme, che è la violenza con una organizzazione poderosa, con una campagna psicologicamente imponente con uno sviluppo impersonale;…è il trionfo più brutale dello ‘schema’.”36

Anche la questione di un organo di polizia è diversa da quella riguardanti il mantenimento degli eserciti e la pratica della guerra, “perché l’azione di un organo di polizia in una comunità [democratica, civile] è lontana da quegli eccessi di distruzione e di eccitazione psichica e di impersonalità che sono per gli eserciti e la guerra: quell’azione è circoscritta, diretta specificamente contro chi porta violenza e con lo scopo più di distogliere dalla tentazione che altro.”37.

Il nonviolento si rende conto che un organo di polizia “è l’ultimo organo a cui una comunità rinuncia”; ” finché ci saranno persuasi della nonviolenza e non persuasi, accadrà che saranno usate forze dell’ordine, tutela coercitiva di tipo guardiano notturno, riducenti gradualmente i propri interventi.”38 Ma il nonviolento persuaso si impegna in una “opera instancabile perché la repressione sia umana e non torturatrice, educatrice e non vendicatrice, ma cooperante al bene anche del criminale stesso.”39 “Sarebbe già molto in una civiltà se eliminato l’uso della violenza torbido, irrazionale, per gusto, restassero due elementi in gara di serietà e impegno, l’uso minimo della violenza per il bene sociale, la nonviolenza per lo stimolo continuo ad un ulteriore sviluppo, a una ancora maggiore importanza data alle persone, sorgenti dal nostro intimo, e non soltanto affidate alle garanzie del diritto [sorretto dalla forza].40

La nonviolenza del persuaso non esclude nemmeno, per Capitini – come non esclude per Gandhi – l’appoggio a lotte violente per cause con le quali il nonviolento si può identificare.”Mentre non è possibile [per il persuaso] collaborare sul piano della guerra o guerriglia, che porta stragi, terrorismo, tortura, cioè ad una violenza che prende la mano rispetto al motivo originario [di liberazione dalla violenza], è possibile stare accanto a chi semplicemente usi la violenza entro la stretta disciplina di giovare alla convivenza di tutti nella loro evoluzione, una violenza in ambito modesto strettamente condizionata nei modi (quante armi si possono usare che non uccidono!), accompagnata costantemente da un soffio omnicratico.

Il persuaso della nonviolenza può, personalmente, non usare nemmeno questo tipo di violenza, se il suo cómpito è di richiamare costantemente al fine: ma comprende che c’è violenza e violenza, e quella per mantenere la convivenza di tutti è più giustificata di ogni altra.”41

L’omnicrazia

Il “metodo della violenza” è l’espressione della concezione della compresenza come “apertura a tutti” al livello dell’azione diretta, individuale e collettiva; a livello istituzionale – che è anch’esso il livello dei mezzi – l’espressione della compresenza è “l’omnicrazia”, il potere di tutti che, scrive Capitini nella tesi 10 del capitolo secondo di questo libro, rispecchia “concretamente l’unità di tutti gli esseri.”

Al tema del potere Capitini dedica sempre più la sua attenzione, specie negli ultimi anni della sua vita, come appare dagli articoli che va pubblicando sul tema nel periodico Il potere di tutti.

Nell’ultimo anno della sua vita si era dedicato a raccogliere le sue idee sul potere in un libro, il suo ultimo, al quale non poté dare gli ultimi ritocchi perché la morte lo stroncò. Il libro, titolato appunto Omnicrazia, uscì postumo; fu inserito – assieme a tutta una serie di articoli pubblicati sul periodico Il potere di tutti e alle 63 Lettere di religione che Capitini andò pubblicando dal 1951 sino alla sua morte – nel già più volte citato volume Il potere di tutti, con una introduzione di Norberto Bobbio, e una prefazione di Pietro Pinna, il primo obiettore di coscienza italiano e per molti anni collaboratore infaticabile di Capitini.

Omnicrazia è il potere di tutti – non nel senso hobbesiano di guerra di tutti contro tutti, ma nel senso di potere uguale di tutti con tutti esercitato con il metodo democratico. A livello teorico sorgono problemi assai complessi e sui quali Capitini, pur riflettendovi, nei suoi scritti non va a fondo. Sorge il problema dell’inclusione: chi sono i tutti? Sorge il problema dell’estensione: potere di tutti su cosa? Su tutto; ma cosa entra nel tutto? Una possibilità di risposta a queste domande può muovere dall’idea del potere massimo e uguale di tutti coloro, i cui interessi sono in gioco, di influire su ogni decisione che riguarda i loro interessi, o almeno i loro interessi basilari.

Ma come si delimita la classe degli interessi basilari? E quelli delle generazioni future? Come si dà loro potere sulle decisione collettive che si prendono nell’ambito delle generazioni presenti? E sorge anche il problema dei metodi: democrazia diretta o democrazia rappresentativa? O magari una miscela delle due – democrazia diretta a livelli locali, democrazia rappresentativa a livelli più vasti. nazionale, internazionale, globale? Inutile ricordare che su tutti questi problemi esiste una letteratura sterminata.

Capitini considera “utile il Parlamento”42, ma propone la riduzione della durata in carica dei parlamentari, favorendo l’avvicendamento e il diritto di revocare il mandato, quando “dal basso” fosse ritenuto errato l’uso del potere fatto dal rappresentate.43

Sosteneva pure la necessità di limitare il potere della burocrazia, dei tecnici, dei tecnocrati, favorendo l’avvicendamento nei posti di direzione.44

Soprattutto insiste sull’esigenza di creare reti di organismi di controllo permanente dal basso “in ogni località ed in ogni ente”, a livello di quartiere, di fabbrica, di consigli degli studenti nelle scuole e nelle università (affinché “i giovani non si sentano isolati e giocati dall’alto”45), “assemblee deliberanti o consultive in tutta la periferia”46, centri sociali di discussione e orientamento sociale (i COS sopra menzionati), luoghi di educazione permanente alla cittadinanza democratica, di crescita nonviolenta, scuole di dialogo, in una atmosfera di libertà di informazione e di critica permanente; un'”aggiunta” continua al metodo elettorale e alla democrazia parlamentare e partitica, per una estensione graduale verso una democrazia sempre più partecipata e sempre più comprensiva (l’omnicrazia).

L’omnicrazia richiede una trasformazione radicale delle strutture sociali ed economiche. La formula preferita di Capitini è “massimo socialismo, massima libertà”, “massima libertà sul piano giuridico e culturale, e massimo socialismo sul piano dell’economia”47; lo stato di diritto e tutti i diritti civili e politici essenziali per la democrazia, e la socializzazione dei grandi mezzi di produzione, la “proprietà pubblica nelle dimensioni più larghe (la fine della differenza tra ricchi e poveri) e del controllo dal basso da parte di tutti.”48L

‘idea di omnicrazia dovrebbe portare Capitini a riflettere sulla struttura del sistema internazionale, sul ruolo dell’ONU, sulla sua democratizzazione, sul cosmopolitismo democratico, sulla possibilità e desiderabilità di una qualche forma di governo mondiale. Ma negli scritti di Capitini (che pure conosceva bene il suo Kant, anche quello de La pace perpetua) i riferimenti diretti a questi temi sono piuttosto scarsi.

Accenna alla possibilità di “una federazione orizzontale e nonviolenta di regioni del Terzo Mondo, ispirata dall’Internazionale della Nonviolenza”, capace di “influire sulla Nazioni Unite, premendo sulla trama di quegli interessi di potenza, e talvolta di sovrana potenza che le inceppano.”49.

Accenna alla “preferibilità di una società internazionale federata, e nelle singole sue parti decentrata, articolata, atta a dissolvere ogni forma di privilegio e di oppressione.”50

Ma sono solo accenni. Quello che Norberto Bobbio ha caratterizzato come “pacifismo giuridico” era per Capitini secondario rispetto al “pacifismo etico”, la”tramutazione” dell’essere umano attraverso la nonviolenza, praticata nel giornaliero qui e ora.

Non è però affatto da escludere che, se la morte non l’avesse stroncato, avrebbe approfondito il suo pensiero anche sulle implicazioni dell’idea di omnicrazia a livello internazionale e globale, come sono implicite nell’idea di compresenza:

“L’idea della compresenza porta un’influenza decisiva nella lotta per una società nuova, la cui novità non può essere che la possibilità dello sviluppo per tutti, la fine dell’oppressione dell’uomo sull’uomo, la possibiltà dell’utilizzazione comune dei beni, dell’accesso di tutti alla produzione e alla fruizione dei beni, alle deliberazioni e al controllo della loro attuazione.”51

Capitini come “persuaso” era anche un fiducioso. Aveva fiducia nelle forze morali costruttive di cui, se non altro per ragioni di sopravvivenza, è dotato l’essere umano; quelle forze morali costruttive, quella “capacita costruttiva sociale unitaria”52, che esseri umani, in ogni epoca della storia, hanno mobilitato contro le forze distruttive della violenza e della barbarie. In tutta la sua vita si dedicò con estremo impegno, unito a umiltà e mitezza, a mobilitare queste forze – in sé e in tu.


(uscita con il titolo ‘Introduccio’ a Aldo Capitini i la noviolència nella traduzione catalana del libro di Capitini Le Tecniche della nonviolenza: Aldo Capitini, El mètode de la noviolència, Pages editors, Barcelona 2010, pp. 2-26).

Note

1 Il saggio fu pubblicato postumo nella rivista “La Cultura”, 6,1968, pp.457-73; è ristampato in Aldo Capitini, Scritti sulla nonviolenza, a cura e con una Introduzione di Luisa Schippa, Protagon editrice, Perugia 1992, pp. 3-15; di qui in avanti citato come Scritti sulla nonviolenza.

2 Cfr. il testo delle lettere in Aldo Capitini, Scritti sulla nonviolenza, pp.15-16.

3 Scritti sulla nonviolenza, pp. 437-38.

4 Ivi, p.4. L’accenno alla “Conciliazione” si riferisce ai Patti Lateranensi che, nel 1929, avevano sancito il connubio tra il governo fascista e il Vaticano.

5 Aldo Capitini, Scritti filosofici e religiosi, a cura e con una Introduzione di Mario Martini, Protagon editrice, Perugia 1994, p.5; di qui in avanti citato come Scritti filosofici e religiosi.

6 Scritti sulla nonviolenza, p.5.

7 Ivi, p.11.

8 Ivi, p.12.

9 Aldo Capitini, Antifascismo tra i giovani, Celebs, Trapani 1966, p.53.

10 Introduzione alla seconda edizione di Elementi di un’esperienza religiosa; ora in Scritti filosofici e religiosi, p.8.

11 Scritti sulla nonviolenza, p.10.

12 Ivi, p.14.

13 Il libro venne pubblicato dalla casa editrice Il Saggiatore, Milano 1966; ora in Aldo Capitini, Scritti filosofici e religiosi, pp.257-458.

14 Scritti filosofici e religiosi, p.355.

15 Ivi, p.370.

16 Ivi, 102.

17 A.Capitini, Il potere di tutti. Introduzione di Norberto Bobbio, prefazione di Pietro Pinna, La Nuova Italia, Firenze1969, p.123; di qui in avanti citato come Il potere di tutti.

18Scritti filosofici e religiosi, p.180.

19 Ivi, p.240.

20 Ivi, p.287.

21 Ibidem

22 Ivi, pp.292-93.

23 Ne ho versato, tanti anni fa, un torrentello anch’io scrivendo Se il fine giustifichi i mezzi, prefazione di Norberto Bobbio, Il Mulino, Bologna 1974.

24 Scritti filosofici e religiosi, p.39; l ‘aggiunta tra parentesi è mia.

25 Il potere di tutti, p.112.

26 Il Messaggio di Aldo Captini. Antologia degli scritti, a cura di Giovanni Cacioppo, Lacaita Editore. Manduria 1977, p.221.

27 Scritti sulla nonviolenza, pp.426-27

28 Ivi, p.370.

29 Ivi, p.137.

30 Ivi, p.81; l’aggiunta tra parentesi è mia.

31 Ivi, p.35.

32 Il potere di tutti, p.85.

33 Scritti filosofici e religiosi, p.37.

34 Ivi, p .66.

35 Ivi, p.554.

36 Ivi, p.553.

37 Ibidem.

38 Il potere di tutti, p.112.

39 Scritti filosofici e religiosi, p.553.

40 Scritti sulla nonviolenza, p.34; l’aggiunta tra parentesi è mia.

41 Il potere di tutti, pp.128-29.

42 Ivi, p.88.

43 Ivi, p.92.

44 Ivi, p,95.

45 Ivi, p.82.

46 Ivi, p.88.

47 Ivi, p.327.

48 Ivi, p.134.

49 Ivi, p.140.

50 Scritti sulla nonviolenza, p.81.

51 Scritti filosofici e religiosi, p.343.

52 Il potere di tutti, p.124.

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  1. […] Qualcuno gli ha dato del comunista miscredente e del sedizioso; altri hanno paragonato la sua vita a quella dei santi capaci di salire sul rogo per coerenza. Ha subito, nel corso della sua vita, ben ventisei processi. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti internazionali ed è stato candidato al Premio Nobel per la Pace. Hanno collaborato con lui, o lo hanno sostenuto in diversi modi, intellettuali come Norberto Bobbio, Ignazio Silone, Cesare Zavattini, Alberto Moravia, Enzo Sellerio, Lucio Lombardo-Radice, Erich Fromm, Bertrand Russell, Jean Piaget, Aldous Huxley, Jean Paul Sartre, Ernst Bloch, Gianni Rodari, Elio Vittorini, Carlo Levi, senza dimenticare l’amicizia e la fitta corrispondenza con Aldo Capitini http://serenoregis.org/2013/04/22/introduzione-a-aldo-capitini-giuliano-pontara/ […]

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