Arundhati Roy sul decimo anniversario della Guerra in Iraq – Amy Goodman

Alla vigilia del decimo anniversario dell’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, la militante per la giustizia nel mondo  e scrittrice, si unisce a noi per discutere sul retaggio della guerra. Roy è autrice di molti libri, tra i quali: The God of Small Things,” [Il dio delle piccole cose], “Walking with the Comrades,”  [Camminando con i compagni] e “Field Notes on Democracy: Listening to Grasshoppers [Traduzione italiana: Quando arrivano le cavallette]. La Roy sostiene che la mentalità imperialistica che ha messo in grado gli Stati Uniti di invadere l’Iraq, continua oggi senza sosta in tutto il mondo. “Ci sono state date lezioni di moralità [dai leader mondiali] mentre decine di migliaia di persone vengono uccise, mentre intere nazioni vengono fatte a pezzi, mentre intere civiltà vengono spinte indietro di decenni, se non addirittura di secoli,” dice Roy- “E tutto continua come al solito.”

Trascrizione dell’intervista televisiva di Amy Goodman ad Arundhati Roy e altri.

AMY GOODMAN: Il 19 marzo segna il decimo anniversario dell’invasione statunitense dell’Iraq. In base a  un nuovo rapporto della Brown University, un decennio di guerra ha portato alla morte di circa 134.000 civili iracheni, e ha virtualmente contribuito alla morte di molte altre centinaia di migliaia.  Secondo il rapporto, la guerra in Iraq ha è costata agli Stati Uniti più di 2 trilioni di dollari, compreso mezzo trilione di dollari di indennità dovute ai reduci. Il rapporto riferisce che la guerra ha devastato,  invece di aver aiutato l’Iraq, incitando alla violenza militante, e danneggiando il sistema sanitario. La maggior parte degli oltre 200 miliardi presumibilmente messi da parte per la ricostruzione In Iraq, sono stati in realtà usati per la sicurezza o perduti in mezzo agli imbrogli e agli sprechi incontrollati.  Molti in Iraq continuano a soffrire delle conseguenze dell’invasione. Ora sentiamo Basma Najem, il cui marito è stato ucciso a Basra dalle forze statunitensi nel 2011.

BASMA NAJEM: [tradotto dall’arabo]: Ci aspettavamo che avremmo vissuto in una situazione migliore quando le forze di occupazione, le forze statunitensi, sono arrivate in Iraq. Speravamo che la situazione sarebbe migliorata, ma, contrariamente alle nostre aspettative, la situazione si è deteriorata. E alla fine, ho perduto mio marito. Non ho nessuno al mondo, che mantenga la famiglia, adesso, e ho sei bambini. Non immaginavo che la mia vita sarebbe cambiata in questo modo. Non so come è successo.

AMY GOODMAN: Le conseguenze della guerra sono ancora visibili anche qui negli Stati Uniti. I militari reduci continuano ad affrontare livelli estremamente alti di disoccupazione, lesioni cerebrali da trauma, disturbo post traumatico da stress (PTSD – Post Traumatic Stress Disorder) e vita da senzatetto. Quasi un quarto dei reduci recenti tornano a casa feriti sia fisicamente che emotivamente, e si stima che ogni giorno 18 reduci si suicidino. Sentiamo ora Ed Colley, il cui figlio, che era  soldato semplice dell’esercito, si è  tolto la vita nel 2007.

EDWARD COLLEY: Abbiamo perduto nostro figlio poco dopo che è ritornato dall’Iraq. Aveva chiesto aiuto, ma non ha ottenuto il sostegno di cui aveva bisogno. E chiaramente stava tentando di fare quello che poteva da solo e non ha potuto pensare a nessuna altro rimedio, ovviamente, se non a  togliersi la vita.

AMY GOODMAN: Per parlare ancora di questo decimo anniversario, si unisce a noi la scrittrice insignita di premi e attivista Arundhati Roy, una delle critiche più esplicite della guerra in Iraq. Fra pochissimo si collegherà con noi da Chicago. Prima, però, torniamo a un discorso che ha fatto nel 2003 alla Chiesa di Riverside, qui a New York.

ARUNDHATI ROY: Quando gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq, un’indagine del New York Times e della CBS ha stimato che il 42% del pubblico americano credeva che Saddam Hussein fosse il diretto responsabile degli attacchi dell’11 settembre al World Trade Center e al Pentagono. E un sondaggio della ABC ha trovato che il 55% degli americani credeva che Saddam Hussein appoggiasse  direttamente al-Qaida. Nessuna di queste opinioni è basata su prove, perché non ce ne sono. Tutto è basato sull’insinuazione o sulla suggestione e sulle bugie immediatamente fatte circolare dai media statunitensi finanziati dalle grosse imprese, altrimenti noti come “stampa libera”, quel pilastro vuoto su cui poggia la democrazia americana contemporanea. Il sostegno pubblico negli Stati Uniti alla guerra contro l’Iraq era fondato su una struttura di molteplici ripiani di falsità e inganno, coordinata dal governo statunitense e fedelmente amplificata dai media finanziati dalle grosse imprese.

A parte i collegamenti inventati tra Iraq e al-Qaida, avevamo la folle informazione  del tutto inventata  delle armi di distruzione di massa in possesso  dell’Iraq. George Bush jr è arrivato al punto di dire che sarebbe stato suicida per gli Stati Uniti non attaccare l’Iraq. Ancora una volta siamo stati testimoni della paranoia che una nazione ridotta alla fame, bombardata, assediata, stava per annientare la potentissima America. L’Iraq è stato solo l’ultimo di una successione di paesi. Precedentemente c’erano state Cuba, il Nicaragua, la Libia, Grenada, Panama. Questa volta, però, non era soltanto la solita marca di follia cordiale tra vicini. Era una follia con uno scopo.      Annunciava una vecchia dottrina in una bottiglia nuova: la dottrina dell’attacco preventivo, noto come: “gli Stati Uniti possono fare che diavolo vogliono” e questo è ufficiale. La guerra è stata combattuta e vinta, e non si sono trovate armi di distruzione di massa, neanche una piccola arma.

AMY GOODMAN: Questa era Arundhati Roy che parlava nell’ottobre 2003 alla Chiesa di Riverside sette mesi dopo l’inizio dell’invasione statunitense dell’Iraq. Arundhati Roy ha scritto molti libri, compreso Il dio delle piccole cose che ha vinto il Premio Booker.  Si collega ora con noi da Chicago:

Arundhati Roy, benvenuta a Democracy Now! Mentre osserva la sua immagine di 10 anni fa, e  torna alla riflessione fatta 10 anni fa quando gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq, quali sono i suoi pensieri oggi?

ARUNDHATI ROY: Bene, Amy, ma prima di questo ricordiamo che, credo, 50 milioni di persone in tutto il mondo hanno dimostrato contro la guerra in Iraq. E’ stata forse la più grossa esibizione di  moralità nel mondo,  prima che scoppiasse la guerra. Prima che ci fosse la guerra ognuno sapeva che gli venivano propinate bugie. Mi ricordo di aver detto che è proprio la qualità delle bugie che è così offensiva, perché siamo stati usati per farci dire bugie.

Sfortunatamente, quindi, adesso, dopo tutti questi anni, dobbiamo farci due domande. Una è: chi ha tratto beneficio da questa guerra? Il governo degli Stati Uniti? Il popolo degli Stati Uniti? Hanno ottenuto i contratti del petrolio che volevano, nel modo in cui li volevano? La risposta è: no. E tuttavia, oggi, sentiamo Dick Cheney che dice che rifarebbe tutto in un secondo.

Sfortunatamente, quindi, ci dobbiamo occupare di psicosi. Ci stiamo occupando di una situazione di psicopatia. E tutti noi, me compresa, non possiamo fare nulla se non continuare a essere ragionevoli, continuare a dire ciò che deve essere detto. Questo, però, non sembra bastare a migliorare  la situazione, perché, naturalmente, come sappiamo, dopo l’Iraq  c’è stata la Libia, c’è la Siria e la retorica della democrazia contro l’islam fondamentalista. Se si guarda alle nazioni che sono state attaccate, nessuna  di esse era una nazione islamica fondamentalista wahabita. Quelle sono appoggiate, finanziate dagli Stati Uniti, c’è quindi una vera collusione tra l’Islam radicale e il capitalismo. Quella che si sta svolgendo è realmente un altro genere di battaglia.

E, sai, la maggior parte delle persone è condotta su una strada che li tiene occupati. E, in un certo qual modo, ci tengono tutti occupati, mentre il centro di tutta la faccenda non è questo, a parte le persone che hanno sofferto durante la guerra. Non dimentichiamo le sanzioni. Non dimentichiamo Madaleine Albright che diceva che la morte di 1 milione di bambini in Iraq era un duro prezzo da pagare, ma che ne valeva la pena. Voglio dire: sembra che lei fosse vittima delle sanzioni; si faceva appello alla sua tenerezza e doveva essere coraggiosa per farlo.  E oggi abbiamo i  Democratici che bombardano il Pakistan, che distruggono anche quel paese. E quindi soltanto nello scorso decennio, l’Afghanistan, il Pakistan, l’Iraq, la Libia e la Siria, sono state fatte a pezzi.

Abbiamo sentito tante cose sulla guerra in Afghanistan che era combattuta per motivi femministi, e che i Marine erano lì proprio per compiere questa missione a favore delle donne. Oggi, però, le donne sono state respinte in situazioni da Medio Evo. Le donne che si erano liberate, che erano dottoresse, avvocatesse, poetesse, scrittrici, sono state spinte di nuovo nella lotta  tra gli Sciiti che si contrappongono ai Sunniti. Gli Stati Uniti stanno appoggiando le milizie di al-Qaida in tutta quella regione e fanno finta di combattere l’Islam. Siamo quindi in una situazione di psicopatia.

E mentre a tutti quelli che si sono opposti vengono date lezioni morali sulla lotta armata o sulla violenza o su qualunque altra cosa, al centro di questa operazione c’è immoralità e violenza e –  continuo a usare questa parola – violenza psicopatica, a causa della quale adesso soffre anche la gente che vive negli Stati Uniti. Sai, in fin dei conti c’è un collegamento, tra tutte queste guerre e le persone che vengono buttate, sfrattate qui negli Stati Uniti. E tuttavia, naturalmente sappiamo chi trae vantaggio da queste guerre. Forse non chi fa contratti per il petrolio, ma certamente l’industria delle armi dalla quale dipende in gran parte  questa economia. Dappertutto, quindi, adesso, in India e in Pakistan la gente sostiene la guerra. E l’industria delle armi ne fa parte con le sue grosse imprese  in India.

Ci stanno quindi prendendo in giro. Questa è la cosa più offensiva. Ci si danno lezioni sulla moralità mentre decine di migliaia di persone vengono uccise, mentre le nazioni vengono distrutte,  mentre intere civiltà sono costrette a tornare indietro di anni, se non di secoli. E tutto va avanti come se questa fosse la normalità. E abbiamo criminali, davvero, come Cheney che dicono: “Lo farò di nuovo, lo farò di nuovo. Non ci penserò. Lo farò di nuovo.” Questa è quindi la situazione in cui ci troviamo adesso.

AMY GOODMAN: Dieci anni dopo l’invasione dell’Iraq, l’ex Primo ministro britannico Tony Blair conferma la sua decisione di andare in guerra, dicendo che ha salvato l’Iraq da un destino peggiore di quello della Siria attuale.

TONY BLAIR: Penso che se ci fossimo tirati indietro e lo avessimo lasciato al potere – immaginate soltanto che cosa sta succedendo in Siria oggi – se avessimo lasciato Saddam a capo   dell’Iraq, avremmo avuto una carneficina su scala peggiore che in Siria e senza che se ne potesse vedere la fine. Quindi, sai, questa è stata la decisione più difficile che abbia mai preso e quella più equilibrata. Tuttavia, personalmente, credo che abbiamo fatto meglio a rimuoverlo che a lasciarlo.

AMY GOODMAN: Questo era l’ex Primo ministro britannico Tony Blair. Arundhati Roy, la sua replica?

ARUNDHATI ROY: Ebbene, Non so. Forse ci devono mettere in una stanza con le pareti imbottite  e darci da leggere delle notizie vere. Cioè, come si può dire una cosa  del genere, dopo aver creato una situazione in Iraq  dove ogni giorno la gente viene fatta saltare in aria? Le moschee vengono attaccate e migliaia di persone vengono uccise. Hanno fatto in modo che la gente si odiasse. In Iraq le donne erano tra le più emancipate  del mondo e sono state fatte arretrare  al punto che devono ancora indossare il burqa per essere al sicuro, a causa della situazione.  E questo uomo dice:” Oh, abbiamo fatto una cosa così meravigliosa. Abbiamo salvato queste persone.” Non è una cosa da pazzi? Non so come replicare a una cosa del genere, perché è come se qualcuno guardasse una persona che viene massacrata e dicesse: “O penso che gli piaccia molto. Lo stiamo davvero aiutando,”.  Come si fa quindi a discutere in modo razionale con queste persone? Sai, dobbiamo soltanto pensare a che cosa è necessario fare, ma non possiamo fare una conversazione con loro, a questo punto.

AMY GOODMAN: Lei pensa che il presidente Obama stia andando in una direzione diversa?

ARUNDHATI ROY: No, non vedo affatto che stia andando in un’altra direzione. La vera domanda da porsi è: quando è stata l’ultima volta che gli Stati Uniti hanno vinto una guerra? Hanno perduto in Vietnam, hanno perduto in Afghanistan. Hanno perduto in Iraq. E non saranno in grado di contenere la situazione. E’ come un’emorragia. Naturalmente si può continuare con gli attacchi dei droni e si può continuare con le uccisioni mirate di certe persone, ma nel concreto si è creata una situazione che nessun esercito, non l’America, nessuno può controllare. Ed è proprio una combinazione di tale follia e  di tale mancanza di comprensione della cultura nel mondo.

E Obama va semplicemente avanti, e se ne esce sempre fuori con queste frasi raffinate, lunatiche,    che sono completamente prive di significato. Mi ricordo quando è stato insediato alla presidenza per la seconda volta ed è apparso sul palco con sua moglie e le sue figlie – è stata una cosa davvero   carina – e ha detto: “Le mie figlie dovrebbero avere un altro cane, oppure no?” E un uomo che aveva perso tutta la sua famiglia a causa di un attacco di droni appena due settimane prima, ha detto:”Che cosa ci si aspetta che pensi di questa esibizione di amore e di valori della famiglia e di affetto di un buon  padre e di un buon marito?” Non siamo deficienti. Sarebbe quasi ora che la smettessimo di agire in maniera così saggia. Non mi sento più razionale riguardo a questo.

AMY GOODMAN – Facciamo un intervallo e poi parleremo di quello che succede in Kasmir, un luogo sul quale hai di recente concentrato la tua attenzione, Arundhati.

 

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org

Fonte: www.zcommunications.org/iraq-war-tenth-by-arundhati-roy

Originale: Democracy Now Traduzione di Maria Chiara Starace

21 marzo 2013 http://znetitaly.altervista.org/art/10189

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