Appa (e Amma), il semplice benessere di tutti

Marinella Correggia

Non era ancora l’alba quando un rumore che non riuscivo a decifrare mi svegliò, sul materassino della stanza alla Gandhi Peace Foundation. Sarà Appa che sta male, mi dissi? Condividevo infatti la stanza, la più economica dell’ostello (niente letti, solo stuoie) con Krishnammal, Jagannathan che allora aveva 82 anni e un ragazzo del movimento Lafti.

Li avevo già incontrati in Italia l’anno prima e non speravo di vederli a Delhi ma il pomeriggio precedente, senza appuntamenti, mentre stavo per andarmene non avendo trovato posto all’ostello, avevo incrociato Amma nel bagno comune dell’ostello! Loro erano a Delhi, in quel 1994, dopo due notti in treno dal Tamil Nadu, per perorare la causa delle loro comunità danneggiate dalle multinazionali dei gamberetti. La loro ultima lotta, dopo decenni passati a riscattare terre per i braccianti e a praticare lo sviluppo pacifico ed egualitario dei villaggi.

Tirandomi su dalla stuoia nel buio, notai una lucetta accesa proprio a fianco di Jagannathan. Che non era sdraiato, era seduto. Stava benissimo, e filava! Sì, filava con il suo arcolaio portatile in una bellissima valigetta di legno lustro, forse la cosa più preziosa che aveva (giacché non ricordo altri oggetti suoi, nelle stanzette disadorne del Gandhigram o del Vinoba Ashram, le loro case collettive, che visitai negli anni seguenti. Filava ogni giorno per almeno mezz’ora, otteneva il filo che poi con il telaio a mano sarebbe diventano khadi, le pezze di cotone a energia interamente manuale delle quali si vestiva.

Appa è morto a cento anni il 12 febbraio alla “Dimora dei lavoratori” che aveva costruito tanto tempo fa con le sue mani, nell’università rurale Gandhigram in Tamil Nadu. Insieme Krishnammal detta Amma (mamma), nata nel 1926, ha percorso l’India nello spazio e nel tempo a partire dagli anni Quaranta. Allora militavano come freedom fighters nonviolenti a fianco del mahatma Gandhi nella lotta per l’indipendenza.

Erano portatori di un mondo nuovo fin dalla loro vita familiare: lui era nato in una famiglia benestante di casta alta, lei di intoccabili miseri. Per la feroce tradizione indù non avrebbero nemmeno dovuto sfiorarsi. Ma lui, che aveva lasciato perdere i suoi studi per servire la disobbedienza gandhiana e il Quit India Movement facendo anche tre anni di dura prigione sotto gli inglesi, non poteva che scegliere una “ragazza senza gioielli”, interamente votata al movimento Sarvodaya (“benessere di tutti”).

Si sposarono nel 1950, nell’India indipendente e condivisero l’impegno nonviolento per i senzaterra, i fuoricasta e lo sviluppo giusto e sostenibile. Chiamarono i loro figli Sathya in onore del sathyagraha (cammino per la verità) e Bhoomikumar (dono della terra). Non ebbero mai una casa loro, vissero in diversi ashram, dimore comunitarie, stanzette disadorne. Appa ogni alba filava all’arcolaio il filo per tessere a mano (khadi) le pezze di cotone grezzo con le quali si vestiva. Amma trovava il tempo – fra le sue tante attività esterne – di cucinare, ovviamente cibo semplicissimo e vegetariano visto che il sarvodaya si intende esteso a tutti gli esseri sensibili.

Costò ad Appa altri periodi in carcere il lungo impegno per la riforma agraria e una vera redistribuzione delle terre. Ci riuscirono. Ma i quattro milioni di acri  che i poveri avevano ottenuto in seguito all’appello al Bhoodan (dono della terra) erano di cattiva qualità e improduttivi. Fu allora che Jagannathan diede il via al movimento Assefa per lo sviluppo e l’autosufficienza dei villaggi gandhiani, che è ormai affermato ed efficace in diversi stati.

Nel 1968 a Thanjavur quarantadue  donne e bambini senzaterra in sciopero vengono rinchiusi e bruciati vivi da ricchi possidenti. Amma e Appa decidono di concentrare là il loro lavoro sulla terra e per la terra. Nasce dopo qualche anno il Lafti, Land for Tiller’s Freedom, terra per la liberazione dei braccianti. Obiettivo: negoziare la cessione di terre sulla base della legge della riforma agraria, ma anche crediti bancari e governativi per permetterne la messa in valore.

Tutto fu molto difficile e furono necessari scioperi, marce, raduni, digiuni e petizioni; vincendo anche gli ostacoli burocratici, tredicimila famiglie ottennero infine altrettanti acri da coltivare. Parallelamente il Lafti operava per lo sviluppo dei villaggi, con attività edili di autocostruzione, artigianali, educative (ancor oggi diversi italiani adottano a distanza i piccoli studenti di Amma, attraverso l’Operazione Futuro di Speranza del Gruppo 1% di Sestola.

La globalizzazione  come causa di ingiustizie sociali, distruzione della natura e rovina dell’India – come prima erano stati i colonizzatori, i latifondisti e le caste –  era una delle fissazioni di Appa, ammiratore dell’economista gandhiano J.C. Kumarappa, teorico e pratico di un’economia di villaggio egualitaria basata sull’agricoltura, l’artigianato e il “lavoro per il pane”, il volto locale di un’economia nazionale che doveva rendere l’India autonoma, pacifica, resistente contro l’imperialismo.

Nel 1993 le comunità costiere del Tamil Nadu dove lavorano Amma e Appa subiscono l’aggressione dei nuovi latifondisti, i grossi imprenditori del gamberetto per l’esportazione. Un’attività travolgente che salinizza le terre coltivate dei dintorni e distrugge quindi ogni altra possibilità di reddito, oltre a minare le foreste di mangrovie. Jagannathan e Amma si sobbarcano frequenti viaggi di due giorni in treno verso la capitale indiana (sempre in cuccette di seconda classe, gratuite per loro, come unico privilegio dei freedom fighters): vanno a perorare la causa presso politici spesso distratti.

Appa trova in un avvocato ambientalista un grande e gratuito appoggio per ricorrere alla Corte Suprema dell’India che ordina un’inchiesta in seguito alla quale, nel 1996, la Corte vieta l’acquacoltura intensiva entro i 500 metri dalla costa. Ma le influenze politiche non fermano la distruzione. Così Appa ha dovuto continuare a lottare finché la salute gliel’ha permesso.


 

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