L’insostenibilità socio-ambientale della ‘shining’ India
FILM e VIDEO come strumenti di documentazione e riflessione sui conflitti socio-ambientali
Conflitti per l’uso degli spazi ‘naturali’
In India si stanno moltiplicando controversie nate per lo più dall’opposizione di popolazioni locali, talvolta sostenute da associazioni, attivisti dei diritti civili ecc. nei confronti dei governi (sia quello centrale sia quelli dei singoli Stati) e/o di imprese multinazionali).
I motivi di controversia sono vari, ma sono per lo più riconducibili al tentativo di appropriarsi (da parte dei governi e/o delle imprese) di aree (di terra, costa e mare) occupate e/o utilizzate da popolazioni locali: contadini, pescatori, comunità indigene.
Con frequenza crescente, sia per il crescere della domanda, sia per il ridursi di aree non ‘abitate’, si sviluppano conflitti di concorrenza sugli stessi spazi, e conflitti di divergenza rispetto agli usi che di tali spazi si intende fare. Miniere, dighe, impianti industriali, centrali per la produzione di energia hanno subìto una crescente accelerazione negli ultimi 20 anni, in parallelo con lo sviluppo economico, commerciale e industriale dell’India.
Ma miniere, dighe, centrali termiche e nucleari, impianti industriali hanno bisogno di spazi, utilizzano materie prime, richiedono reti di trasporti, producono rifiuti solidi, liquidi e gassosi che – più o meno trattati – si diffondono nell’ambiente, anche a grandi distanze. Si tratta di attività che hanno impatti ambientali gravi e spesso irreversibili sui sistemi naturali (fiumi, foreste, aree marine) e sulle attività umane svolte dalle popolazioni locali (agricoltura, caccia, pesca, raccolta di prodotti forestali ecc., piccole attività artigianali).
Un divario crescente
Del miliardo e più di abitanti che attualmente popolano l’India, circa 350 milioni sono attuali o potenziali ‘consumatori’ che hanno come modello stili di vita all’occidentale: ed è a loro che il governo e le imprese si rivolgono, per fornire loro elettricità, sistemi di trasporto, beni di consumo.
All’altro estremo della ‘scala’ economica ci sono circa 400 milioni di persone il cui livello di vita è sempre più basso: tra di essi ci sono una parte degli abitanti di aree urbane, migrati nelle grandi città alla ricerca di lavoro, e gli abitanti delle aree rurali, che sempre più faticosamente cercano di sopravvivere in campagna, stretti tra la riduzione delle terre a disposizione e l’aumento dei prezzi. Vi è infine un numero crescente di comunità (contadini, pescatori, popoli indigeni) che sono state allontanate dai luoghi in cui vivevano, e private così dei mezzi di sussistenza.
Insieme all’impoverimento progressivo sul piano materiale, è in atto un tragico impoverimento della ricchezza culturale che per millenni le popolazioni rurali e indigene dell’India avevano sviluppato: conoscenze legate all’uso delle foreste, alla coltivazione di piante locali, alla raccolta di erbe medicinali, e anche espressioni artistiche – dalla musica al canto, dall’intreccio di cesti alla costruzione di oggetti in legno, ai tessuti e ai ricami.
Un progetto di Servizio Civile
Nell’ambito di un progetto di Servizio Civile realizzato a Torino, e coordinato da tre realtà locali (il Centro Studi Sereno Regis, il Gruppo ASSEFA Torino e il Centro Interuniversitario IRIS) è stata svolta una ricerca su film e documenti video che illustrino esempi di conflitti socio-ambientali presenti in India. Questa ricerca, realizzata da Paola Camisani e Davide Gianluca Vaccaro, ha portato alla stesura di un archivio di documenti, per lo più reperibili su Internet, alla costruzione di un sito web (www.indiaincrociodisguardi.it) con schede di approfondimento su varie tematiche (miniere, dighe, centrali ecc.), e alla realizzazione di due iniziative rivolte al pubblico.
Nella prima iniziativa (il 28 febbraio 2013, presso il Museo di Scienze Naturali Torino: L’insostenibilità socio-ambientale della ‘shining India’) vengono presentati tre film, che rappresentano solo una minima punta di iceberg rispetto alla quantità e varietà di conflitti che stanno emergendo in tutta l’India. Il primo film – relativo al tentativo di insediare una fabbrica per la produzione di auto in un’area molto fertile e densamente abitata da comunità contadine – racconta uno dei pochi esempi di resistenza che ha avuto un esito positivo per le comunità locali, anche se a prezzo di lutti e violenze subite (Non cederemo né ora né mai).
Il secondo film illustra una fase della lotta, ormai più che ventennale, condotta da comunità rivierasche contro la costruzione di numerose dighe sul fiume Narmada (Yindabad). La lunga resistenza messa in atto lungo questo fiume, pur non avendo condotto al successo, ha contribuito a richiamare l’attenzione di una parte della società civile, in India e altrove, sul problema dell’allontanamento coatto di intere comunità dalle loro abitazioni, dalle loro terre, dall’accesso a foreste e a fonti d’acqua dalle quali traevano sostentamento. Si contano ormai a parecchie decine di milioni le persone che hanno subìto questa violenza, nella sola India.
Il terzo film (Cowboys in India) illustra il viaggio compiuto dal regista, un film-maker inglese, in una zona remota dello Stato dell’Orissa, alla ricerca di indizi e testimonianze sul conflitto che vede confrontarsi i responsabili di una impresa multinazionale, la Vedanta, molto attiva nell’ aprire miniere e ‘sviluppare’ industrialmente l’area, e le popolazioni locali, intenzionate a difendere il loro ambiente e le loro abitudini di vita.
Dal web immagini ‘forti’
La seconda iniziativa che i due giovani in Servizio Civile propongono si realizzerà il 22 marzo, presso il Centro Studi Sereno Regis (ore 18-22): Conflitti socio-ambientali in India e in Italia: testimonianze, riflessioni, proposte
Sarà un momento di incontro e di discussione a partire da una selezione di testimonianze (accessibili da siti internet) di forme di protesta e opposizione nonviolenta da parte di comunità locali (per lo più gli abitanti di piccoli villaggi agricoli, o pescatori, o gruppi di tribali che vivono ai margini delle superstiti foreste dell’India) di fronte alle decisioni di società e imprese indiane o multinazionali (spesso con l’approvazione dei governi locali), di utilizzare i territori in cui vivono (per lo più da tempi immemorabili) per scavare una miniera, insediare un impianto industriale, aprire una discarica di rifiuti…
Spesso nei filmati si contrappongono immagini di vita semplice, capanne povere ma pulite, campi ben coltivati, con scene di scavi, polveri, grandi macchinari. Si vedono lunghe file di persone che camminano, per strade di paesi e di città, praticando la forma più tradizionale di protesta nonviolenta dell’india, la padayatra, un pellegrinaggio a piedi per richiamare l’attenzione dei governanti e della società civile. In altri documentari si vedono momenti di scontro tra truppe dell’esercito, ben vestite e armate di lathi e gruppi di persone con gli abiti tradizionali delle campagne: uomini in dothi, e sempre più spesso anche donne (con le loro saree colorate) e bambini (come i nostri, pantaloncini e maglietta).
Tra le immagini più intense dei video individuati vi sono quelle che illustrano le condizioni sanitarie di interi villaggi, in cui la presenza di polveri nell’aria, o di rifiuti tossici nell’acqua, o di sostanze radioattive nelle vicinanze ha provocato danni irreparabili alla salute. E quelle delle donne che – nella prospettiva di vedere le loro capanne spazzate via dall’acqua dopo la costruzione di una diga – protestano stando immerse nell’acqua fino al collo, per giorni e giorni, contando su una presa di coscienza della società civile indiana (e non solo) di fronte all’ingiustizia che stanno subendo.
Il sito web messo a punto dai due volontari (www.indiaincrociodisguardi.it) è attualmente in fase di costruzione: esso permetterà al pubblico, soprattutto ai giovani, di fare conoscenza con un mondo che i mass media e le immagini di copertina hanno finora oscurato.
Conflitti interconnessi
La ricerca svolta da Paola e Davide Gianluca ha permesso di mettere in luce una grande quantità e varietà di situazioni conflittuali in India. Tamilnadu, Jharkhand, Andhra Pradesh, Orissa, Hichamal Pradesh… sono i nomi di alcuni degli Stati della Confederazione Indiana, in cui le iniziative dei governi e di imprese – indiane e spesso multinazionali – trovano ostacolo alla loro realizzazione nella presenza di comunità umane, spesso di ‘scheduled casts’ e di adivasi (indigeni), che occupano da sempre i territori in cui si intende scavare una miniera, allagare una valle, costruire un’acciaieria o una centrale nucleare.
Analizzando questi conflitti ci rendiamo conto che – anche se il teatro delle controversie ci appare lontano – in realtà questi problemi riguardano noi tutti, anche in Italia. In alcuni casi emergono le implicazioni globali di scelte politiche locali: è il caso delle miniere di uranio, la cui operatività è strettamente legata alla scelta del nucleare come fonte energetica. Il problema dell’acqua, della sua conservazione e gestione, è attualissimo anche da noi, per esempio per quanto riguarda l’intercettazione di falde durante la costruzione di grandi opere. La produzione industriale di beni di consumo, dalle auto ai più moderni e raffinati ‘oggetti’ informatici, attualmente insediata in molti Paesi del Sud del mondo, è alimentata anche dalle nostre scelte di vita.
Qui di seguito sono descritti brevemente alcuni ‘studi di caso’ emersi durante la ricerca di documenti e testimonianze video sui conflitti socio-ambientali.
Uranio e centrali nucleari. I nomi di alcuni villaggi, anche se a noi sconosciuti, sono noti agli esperti. Jadugoda (nel Jharkhand) è una miniera di uranio dove per anni sono state triturate ogni giorno tonnellate di roccia per estrarre, per ogni 1000 Kg, 65 grammi di minerali di uranio. Una vasta area intorno è completamente contaminata, e le condizioni di salute degli abitanti sono drammaticamente peggiorate. Tummalapalle è il nome di un altro villaggio (nell’Andhra Pradesh), nei pressi del quale è stato scoperto un enorme deposito uranifero, stimato a più di 60.000 tonnellate. L’India, che ha un ambizioso programma di sviluppo dell’energia nucleare, ha bisogno di uranio per i suoi reattori, e le pressioni per una rapida apertura della miniera sono fortissime. Le previsioni affermano che nel 2020 il Paese avrà bisogno di 8.000 tonnellate all’anno per alimentare le sue centrali. Che fine faranno le comunità rurali che abitano l’area agricola intorno a Tummalapalle?
Dighe …la ‘cattura’ dell’ acqua. Lungo le pendici della catena Himalayana è in programma la costruzione di centinaia di dighe. Come segnalano Grumbine & Pandit (2012), nelle prossime decine di anni il Governo dell’India si propone di costruire 292 dighe lungo il versante indiano dell’Himalaya, contribuendo così per il 6% alle necessità energetiche del Paese. Tutto ciò nonostante l’opposizione non solo delle popolazioni locali i cui villaggi verranno inondati, ma anche di un numero crescente di studiosi: dai geologi che mettono in guardia sull’eventualità di terremoti in questa zona altamente instabile, agli ecologi che stanno monitorando la straordinaria biodiversità delle aree pedemontane, che rischiano di essere inondate. Anche antropologi, esperti di diritti umani e politologi hanno espresso pareri contrari: gli uni sottolineando l’iniqua distribuzione dei costi e dei benefici che consegue alla costruzione delle grandi dighe, gli altri mettendo in luce i conflitti che inevitabilmente esploderanno tra regioni o tra nazioni, in seguito all’intercettazione di quantità sempre più grandi di acqua da parte di chi sta a monte, lasciando letteralmente ‘all’asciutto’ i rivieraschi a valle degli sbarramenti. Le tensioni politiche tra vari Stati dell’India, e tra l’India e gli Stati vicini sono destinate a crescere.
Un esempio di disuguale distribuzione dei costi e benefici è ben illustrato dalla situazione della Renuka Valley, una ridente vallata nel nord dell’India (Himachal Pradesh), dove si sta progettando (tra forti opposizioni locali) la costruzione di una diga allo scopo di costruire un grande serbatoio dal quale l’acqua sarà incanalata verso la città di Delhi, a 300 Km di distanza. La costruzione della diga per soddisfare la sete della capitale provocherebbe l’allagamento di una vasta area, e sommergerebbe 37 villaggi, abitati attualmente da 750 famiglie.
Lo ‘sviluppo’ industriale ha bisogno di materie prime e di suolo. La fase di sfruttamento delle risorse minerarie ed energetiche della quale siamo attualmente testimoni è probabilmente l’atto ‘finale’ di un processo che – avviato gradualmente fin dalle prime forme di civilizzazione (l’età del bronzo, del ferro, del carbone…) – ha assunto negli ultimi cento anni una crescita esponenziale, grazie alla disponibilità di energia fossile a basso costo, di enormi macchine in grado di scavare e spostare grandi quantità di terra, e grazie alla concentrazione di ricchezze e di potere nelle mani di poche persone. La costruzione di grandi opere (viadotti, palazzi, centri commerciali, ponti…) richiede ferro, acciaio, alluminio, rame. Anche l’enorme apparato militare di cui tanti Paesi sono dotati consuma grandissime quantità di materie prime. E, nonostante gli sforzi di dematerializzazione, la fabbricazione di miliardi di computer, telefoni cellulari, oggetti informatici, centri di calcolo utilizza una gran quantità di materie prime, spesso meno diffuse sul pianeta (come le ‘terre rare’) quindi facilmente oggetto di dispute per il loro possesso e uso. Tra le materie prime e i prodotti – siano essi treni, palazzi, portaerei o antenne – ci sono gli impianti industriali di trasformazione delle materie prime e di costruzione degli oggetti finiti. Miniere, impianti, strade per il trasporto merci… tutto occupa suolo: sempre più si tratta di suolo agricolo, che viene sottratto alle comunità contadine, o di foreste, in cui popolazioni indigene erano riuscite a sopravvivere fino a pochi decenni fa.
Nel trasformare il ‘naturale’ in ‘artificiale’ lo sviluppo industriale non solo consuma materie prime (energetiche e minerarie), ma produce prodotti di scarto che in forma gassosa, liquida e solida si disperdono nell’aria, nel suolo, nelle acque. In italia purtroppo lo sappiamo bene! Spesso la massima concentrazione è nei luoghi di produzione, ma ormai non vi è luogo della Terra che non sia contaminato da ‘rifiuti’, che si vanno accumulando sempre più, con gravissime conseguenze su tutte le forme di vita.
PIL e IE: due prospettive diverse!
Mentre il Prodotto Interno Lordo (PIL) della ‘shining India’ continua a crescere, le piccole comunità contadine e i superstiti gruppi di adivasi (popoli indigeni) incontrano sempre maggiori difficoltà a sopravvivere: il costo dei generi di prima necessità aumenta; attività industriali e cantieri edili occupano e cementificano terreni agricoli; i monsoni arrivano con minore regolarità e intensità…
La situazione è drammatica in tutta l’India. In termini di indicatori sociali l’India è scesa molto in basso nella lista dei Paesi dell’Asia del Sud, nonostante le eccellenti prestazioni economiche. Le disuguaglianze sociali si sono approfondite, tanto che addirittura l’India registra una percentuale di bambini sottopeso superiore a qualunque altro Paese al mondo (Dreze & Sen, 2011).
Un recente studio di Singh et al. (2012) presenta le trasformazioni dell’India negli ultimi decenni non solo in termini di sviluppo economico, ma anche di condizioni biofisiche (disponibilità delle risorse energetiche e materiali). E’ aumentato il ‘peso’ della popolazione indiana sui sistemi naturali (espresso tramite il calcolo dell’Impronta Ecologica, IE), mentre si è ridotta la Biocapacità, cioè la produzione di biomassa annua (in termini di boschi, aree coltivate, pescosità ecc.). Ma non tutti gli indiani ‘pesano’ in ugual misura: i contadini, i popoli indigeni, i piccoli pescatori hanno impronte ecologiche piccole, e vivono in modo sostenibile rispetto ai limiti biofisici del pianeta. Sono gli altri, coloro che hanno abbracciato l’opzione della crescita economica, alimentata in tutti i campi dai progressi della tecnoscienza, che hanno fatto sì che l’India abbia perso in 40 anni la sua autonomia energetica e alimentare. Singh e i suoi colleghi concludono la loro indagine sulla situazione biofisica dell’India affermando che se i flussi di energia e materia che attraversano attualmente l’India continueranno con questo ritmo “le sfide che si pongono a livello regionale, nazionale e globale sono immense in termini di disponibilità di risorse, di conflitti sociali, per pressioni sugli ecosistemi e sull’uso delle terre, sulle emissioni atmosferiche”.
Proteste noviolente… fino a quando?
Di fronte al destino subìto da milioni di persone che negli ultimi venti anni nella sola India sono state private delle loro terre, delle loro abitazioni, della salute e della cultura, viene da chiedersi fino a quando le minoranze globalizzate che decidono le sorti dell’intera umanità potranno imporre le loro decisioni, senza che le società civili – in India e dappertutto nel mondo – intervengano per far rispettare quelle regole di giustizia e di equità che pure sono state il vanto e la speranza delle democrazie del ‘900.
Le popolazioni indiane coinvolte nei conflitti socio-ambientali hanno agito finora per lo più senza violenza, secondo la tradizione gandhiana, con marce, digiuni, manifestazioni di piazza, denunce alle Corti di Giustizia. L’ efficacia delle azioni locali è stata finora molto limitata, e spesso dipendente dalla correttezza e attenzione delle realtà istituzionali coinvolte (la Corte Suprema, i Governi locali, gli Enti di Protezione ambientale ecc.).
Alcune proteste locali, sostenute da attivisti, ONG locali e internazionali, hanno raggiunto i mass media e in alcuni casi hanno ottenuto qualche successo: è il caso dei Dongria Dongh, una popolazione che, sostenuta da Amnesty International, è riuscita (finora) a bloccare l’espansione delle attività industriali della Vedanta Resources nei propri territori. Altre proteste, altrettanto appoggiate dall’esterno –come è il caso del movimento anti-nucleare di Kudankulam, in Tamilnadu – non hanno finora avuto successo: la pressione del governo indiano a favore dell’uso di energia nucleare ha avuto la meglio sulle voci contrarie. Le grandi manifestazioni contro la costruzione di grandi dighe hanno visto alternarsi fasi di parziale vittoria e di sconfitta, a seconda del luogo, del momento, delle forze in campo.
Sono state anche organizzate manifestazioni ‘oceaniche’, come la marcia dei 100.000 coordinata dall’Associazione Ekta Parishad (www.ektaparishad.com/), con la richiesta presentata al Ministro dello Sviluppo Rurale, Jayram Ramesh, di introdurre profondi mutamenti nella regolamentazione delle terre. Occorrerà attendere ancora per capire se porterà a una svolta. Si susseguono sentenze contraddittorie di Tribunali locali, governativi e della Corte Suprema Indiana, che impediscono una svolta chiara nelle relazioni di potere e nella concettualizzazione dell’importanza della popolazione contadina e indigena per la sostenibilità dell’India.
Da decenni sono in atto forme di lotta armata tra gruppi di ‘ribelli’ (Maoisti, naxaliti, guerriglieri) e le forze dell’ordine, o bande paramilitari protette dai governi, soprattutto negli Stati centrali dell’ India, dove sono state individuate ingenti riserve di minerali di interesse commerciale: bauxite,ferro, carbone.
E’ responsabilità del Governo Indiano, ma anche della società civile indiana e internazionale, promuovere un cambiamento di prospettiva e una trasformazione sia nell’organizzazione sociale sia negli stili di vita. Riducendo i consumi superflui, quindi abbassando la richiesta di materie prime e di prodotti finiti, si agisce indirettamente sulle imprese, che vedono ridursi la domanda, e sulle popolazioni coinvolte nei conflitti, che vedono così riconosciuti i loro diritti a esistere.
Churning the Earth
E’ il titolo di un libro pubblicato nel 2012, scritto da due Autori Indiani, Aseem Shrivastava e Ashish Kothari. La traduzione italiana del termine ‘churning’ rimanda a un’azione per noi ormai desueta, la ‘zangolatura’: ma per gli Indiani rimanda immediatamente al mito hindu della “frullatura dell’oceano di latte”, la titanica impresa condotta da dèi e démoni per estrarre l’ambrosia1.
Evocando l’immagine maestosa della montagna che viene usata come un bastone per mescolare l’OceanodiLatte, gli Autori sottolineano le dimensioni delle trasformazioni che l’India sta subendo da vent’anni a questa parte, da quando cioè ha imboccato la strada dello ‘sviluppo’ globalizzato.
Il libro passa in rassegna l’insieme di problemi sociali e ambientali che l’India ha contribuito a ingigantire, con la strategia di sviluppo messa in atto negli ultimi vent’anni, basata sul mito della crescita e sulla globalizzazione guidata dalle multinazionali.
Alla prima parte del libro, che contiene una analisi accurata e ricca di dati, che mette in luce la devastazione ambientale e la crescente disuguaglianza sociale in India, segue una seconda parte intitolata “Alba: vi è una alternativa”. Essi – come sottolineano più volte – non sono contrari alla globalizzazione, ma alla forma perversa che hanno finora assunto le relazioni tra le comunità umane, dominate da pochi soggetti potenti che agiscono al di fuori di ogni regola. Negli ultimi capitoli gli Autori forniscono esempi concreti di una ‘democrazia ecologica radicale’, e propongono dei percorsi di riconcettualizzazione non solo dell’India, ma del mondo. La ‘frullatura’ dell’India, infatti, implica rimescolare le sorti dell’intero pianeta.
La prospettiva del ‘sarvodaya’.
Come sottolinea uno dei revisori del libro sopra citato, “se il Mahatma Gandhi fosse in circolazione e volesse riscrivere il suo Hind-Swaraj, si muoverebbe sullo stesso terreno di Shrivastava e Kothari”.
Leggere le pagine di questo libro aiuta a capire non solo quello che sta avvenendo in India, ma nella nostra piccola Italia: pur avendo una situazione socio-economica e ambientale favorevole a intraprendere un percorso di ‘auto-sviluppo’ che valorizzi le competenze, i saperi, l’arte e la varietà biologica e culturale del nostro Paese, stentiamo a esprimere e a realizzare i cambiamenti che potrebbero aiutarci a diventare più sostenibili e più autonomi. Il ‘sarvodaya’, cioè una condizione di ben-essere per tutti, che Gandhi proponeva come ideale da conseguire in ciascun villaggio, potrebbe diventare un elemento di riferimento in un mondo diventato ormai piccolo, perché si sono messi in chiara evidenza sia i confini biofisici sia la limitatezza delle risorse.
Letture
Baviskar A., In the belly of the river. Oxford India Paperbacks, 1993.
B.I.R.S.A. (Bindrai Institute for Research, Study & Action), Sacred lands… Poisoned minds. International physicians for the prevention of nuclear war. World Congress, Basel, august 26th – 30th 2010.
Dreze J. & Sen A. Putting growth in its place. Outlook India Nov 14, 2011.
Forti M. Il cuore di tenebra dell’India. Bruno Mondatori, Milano, 2012.
Grumbine R.E. & Pandit M.K. Threats from India’s Himalaya Dams. SCIENCE VOL 339, 4 January, pag. 36, 2013.
Mondini U. & Srivastava V.K. Adivasi. Le minoranze etniche dell’India. Ed Progetto Cultura, Quaderni di Ricerca 3, 2009.
Mosse D. Cultivating development. Pluto Press, London, 2005.
Scudder T. The future of large dams. Earthscan, London, 2005.
Singh S. J. et al. India’s biophysical economy, 1961–2008. Sustainability in a national and global context Ecological Economics 76, 60–69, 2012.
Shrivastava A. & Kothari A. Churning the earth. Viking, Penguin India, 2012.
Whittell R. & Eshwarappa M., Dodgy development, Corporate Watch, 2010.
1Nel mito si racconta che la montagna cosmica venne collocata nell’oceano con legato attorno il serpente Vasuki, in modo da ottenere una zangola. Le due parti cominciarono a tirare il rettile, facendo girare la montagna come un frullino.
[Elena Camino, Gruppo ASSEFA Torino – www.assefatorino.org e Centro IRIS – www.IRIS.unito.it ]. Febbraio 2013
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