Sposata a un altro uomo. Per uno stato laico e democratico nella Palestina storica – Recensione di Francesca Putzolu

Ghada Karmi, Sposata a un altro uomo. Per uno stato laico e democratico nella Palestina storica, Derive Approdi, Roma 2007

Ghada Karmi, docente all’università di Exter, medico e scrittrice di saggi sul conflitto arabo-israeliano, è una donna palestinese, vissuta in Inghilterra, diventata la sua patria di adozione. Situazione condivisa da milioni di profughi dopo il 1948, anno del riconoscimento della creazione dello stato di Israele, che diede origine alla più vasta diaspora di un popolo nel Medio Oriente. L’interesse a condividere la mia lettura nelle news nasce dalla constatazione che, benché non sia un’opera connotata come nonviolenta, tuttavia la soluzione che analizza e propone può stare all’interno di una visione del superamento del conflitto e della spirale di violenza che esso genera. Il suo coinvolgimento nella complessità del conflitto non nasce solo dall’aver abbracciato la causa dei palestinesi, ma dal desiderio di offrire un contributo alla sua soluzione, proponendo, con approfondite analisi storiche e psicologiche, una tesi ritenuta impopolare, ma crescente nell’interesse, e alternativa a due popoli due stati: quella di uno stato unico e democratico che assicuri a tutti i cittadini, arabi, ebrei, cattolici, cristiani e di altre culture, uguali diritti di cittadinanza. Un’alternativa alla proposta di “due popoli, due stati” a cui è giunta , <date le circostanze attuali, il riesame e l’analisi della storia e degli eventi >. La “trascendenza” di una scelta che continua a far crescere l’odio e la guerra fra i due popoli, implica una forte crescita di desiderio di pace coniugata alla giustizia a cui sono ormai giunte componenti della comunità palestinese e israeliana che a tal fine collaborano e lavorano.

“Sposata a un altro uomo” è il titolo del bel libro, che prende spunto da un episodio nel 1897 a Basilea, in cui i rabbini di Vienna inviarono in Palestina due rappresentanti per verificare se il paese fosse adatto all’impresa della terra focolare, per realizzare i sogni sionisti del ritorno alla grande Israele. Essi mandarono un telegramma “La sposa è bella, ma sposata a un altro uomo.” La Palestina non era quindi “una terra senza un popolo per un popolo senza terra”.

Da allora a oggi, si sono verificati, sulla scena locale e internazionale, tali e tanti cambiamenti ed eventi che generalmente si tende a sintetizzarli come il conflitto arabo –israeliano o israelo-palestinese.

L’esordio del libro prende atto del fallimento della mediazione degli Stati Uniti con Obama presidente che, a stento, riesce a influire sul processo di pace e sulla spinta agli insediamenti dei coloni israeliani in terra palestinese. Il saggio è una denuncia delle politiche israeliane, miranti a ridurre al minimo la presenza palestinese nel paese, della iniquità della spartizione attuale e dell’ assenza della ricerca di una soluzione per dare risposta ai profughi. Inoltre, “l’aumento delle by pass roads, riservate agli israeliani, le zone militari chiuse, attorno alle città e ai villaggi palestinesi, hanno cancellato ogni possibilità di uno stato contiguo. La cantonizzazione della Cisgiordania ha prodotte delle enclave palestinesi, circondate da insediamenti israeliani, un bantustan come nel caso del Sudafrica”. Il territorio è totalmente frammentato e le risorse pesantemente a favore di Israele. L’autrice auspica una formula che coniughi le proposte di pace con la giustizia, che significa ”offrire ai palestinesi umiliati dal conflitto- quelli all’interno e all’esterno della Palestina,- una vita futura nella loro patria con garanzie di dignità e uguaglianza.”

Il saggio non nasce senza un terreno già fertile che lo irrora e lo anima. L’autrice fa riferimento alle varie conferenze, come quella di Boston nel 2009 o di Londra nel 2007, sfociate a favore di uno stato unico e sulla necessità di attivarsi per renderlo realizzabile. Numerosi ed eminenti studiosi sia ebrei che palestinesi, oggi, sostengono la proposta più articolata di uno stato unico ma binazionale, di tipo cantonale o federale, come due popoli che vivono nello stesso territorio con uno stato simile al sistema cantonale svizzero. I diversi capitoli dedicati a tale tema analizzano le varie ipotesi organizzative e anche le sue oggettive barriere. Certamente di non facile soluzione sarebbe il superamento delle difficoltà dei palestinesi a convivere con chi ha colonizzato il proprio paese, la realtà attuale di mescolamento sul territorio, la percezione del rischio di essere trattati come cittadini inferiori all’interno di uno stato industriale avanzato in cui gli ebrei detengono diritti e privilegi, l’autopercezione dei due popoli come entità distinte, nel caso degli ebrei connotate dal sionismo.

Ghada Karmi, sostiene la soluzione di uno stato unico ma laico e democratico che, non solo faccia giustizia ai palestinesi, ma salvaguardi i diritti della comunità ebraico – israeliana che è nata e vive in quella terra.

Queste sono alcune riflessioni, fra le tante, che mi pare opportuno far emergere per chi volesse approfondire la conoscenza delle questioni che caratterizzano il conflitto fra ebrei e palestinesi. Il saggio ci introduce nella complessità degli avvenimenti storici che hanno permesso la nascita dello stato di Israele, dalle origini del progetto sionista alla dichiarazione del ministro degli esteri inglese Arthur Balfour nel 1917, che definì il sionismo, come cita il libro, in questi termini: “… giusto o sbagliato, buono o cattivo che sia, è radicato in tradizioni e tempi lontani, in azioni odierne, in speranze future, di rilevanza assai più cospicua dei desideri e dei pregiudizi dei 700.000 arabi che adesso abitano quella terra”. Motivando così il sostegno del governo britannico, che aveva il mandato su tutta l’area della Palestina, alla causa del sionismo.

Il saggio, nel bel capitolo: ”allevare Israele ancora in fasce” esamina il ruolo degli Stati Uniti e della Francia, che armarono e fornirono Israele di armi nucleari (200 testate oggi possedute), della Germania che, per risarcirli dei crimini commessi collabora fornendo loro circa un ottavo delle entrate globali che costituiscono un terzo dei suoi investimenti. E miliardi in beni e servizi fino alla fornitura nel 2005 di sottomarini lanciamissili.

Interessante la posizione della Russia che, dal sostegno e riconoscimento iniziale dello stato d’Israele, con invio di armi, alla rottura dopo la scelta dell’alleanza con gli USA, fino alla apparizione sulla scena di Gorbaciov che permise agli ebrei sovietici di migrare in Israele.

La miscela di luoghi comuni, di psicologia, di emozioni, di credenze radicate, la campagna promossa dai sionisti a livelli internazionali, la mitologia biblica, il sostegno dei governi occidentali nel tempo, la forza delle armi sofisticate israeliane, il cambiamento dei paesi arabi pressati nell’attivare politiche di “normalizzazione” con lo scomodo vicino, il supporto delle comunità ebraiche internazionali, la divisione del fronte di resistenza, sono elementi che caratterizzano un compito immenso da affrontare da parte dei palestinesi, vittime della sciagurata impresa della costruzione della “grande Israele”.

Quattro milioni di palestinesi vivono in campi profughi, tre milioni sotto l’occupazione israeliana. Per non parlare dei campi di lavoro forzati istituiti dal nuovo stato per uomini e donne, che trasportavano le pietre delle loro case distrutte per costruire quelle dei nuovi coloni ebrei. Il libro è una fonte interessante che scava nel lungo cammino di umiliazione e dei danni causati dalla presenza di un nuovo stato per i paesi arabi.

Nel capitolo “Dividere il mondo arabo in fazioni” mostra l’abilità del servizio segreto israeliano nella realizzazione del programma di governo di attuare una lucida strategia di divisione dei paesi circostanti dalla Giordania, alla Siria, all’Iraq, al Libano. Progetto che ebbe la sua importanza nelle guerre e nelle invasioni del Libano del 1978 e nel 1982. Una politica di accerchiamento che ha prodotto legami con la Turchia, con l’Etiopia , con l’Eritrea, con l’India, a cui fornisce armi, dollari e intelligence militare.

Un’ampia parte del saggio è dedicata al supporto che Israele riceve dagli ebrei, al sentimento comune di identità, al legame percepito con le loro supposte origini mediorientali, a sostegno della legittimità della nazione ebraica. Le tesi dell’ autorevole America Council for Judaism fondato nel 1942, che considerava gli ebrei una comunità religiosa, non una nazione, persero vigore e la confusione non ridusse il sentimento degli ebrei di sentirsi parte di un popolo. Sostiene l’autrice: ”E’ di estrema importanza che gli arabi lo capiscano, dato che sono le principali vittime di questa convinzione”. ”Essere ebreo è discendere fisicamente, per quanto lontanamente, da eventi storici biblici e mitologici, anche se non accompagnati dalla fede religiosa.”

Dall’Illuminismo europeo, che permise alle comunità ebraiche di uscire dal ghetto e integrarsi nella società in cui vivevano, gli ebrei iniziarono il processo di assimilazione e di emancipazione, relegando alla sfera religiosa l’essere ebreo e iniziando un processo di dissolvimento dello stereotipo dell’ebreo come straniero. Tendenza che diede, di contro, origine a movimenti antiebraici, e che si interruppe drammaticamente con l’avvento del nazismo in Germania.

L’autrice esamina il complesso evolversi storico dal passaggio del sentimento comune di appartenenza e della generale tendenza integrazionista non sionista, alla identificazione ebraica con Israele. Si opponevano all’idea della grande Israele e del focolare a cui tornare, i partiti di ispirazione socialista, la numerosissima comunità lituana, polacca, russa, gli stessi ebrei ortodossi riformati in Germania, e tantissimi ebrei americani ed europei che “non vedevano la ragione di lasciare le loro comode case per un angolo sperduto e infestato dalla malaria come la Palestina”.

Il Nazismo e l’Olocausto ebbero una enorme importanza nell’invertire questa rotta. Da allora iniziò il processo di de-assimilazione e dopo il 1948, il 1967 e il 1973, gli ebrei si sono sempre più identificati con la causa d’Israele. I capitoli che seguono approfondiscono aspetti complessi e danno un quadro degli intrecci con le “doppie lealtà” che spingono elite economiche e politiche ebraiche nel mondo a sostenere massicciamente la militarizzazione di Israele e la destabilizzazione di tutto il Medio Oriente.

Il perché l’occidente sostenga la causa sionista e lo stato più potente del mondo l’appoggi, viene esaminato in un capitolo ricco di riflessioni e di ipotesi che l’autrice lascia aperte, ma che rende più complessa la soluzione del conflitto da parte palestinese.

Così si sofferma su una quarantina di lobby filo israeliane che fanno pressione e finanziano i politici americani e i decision makers.

L’Aipac è il più potente e lavora sia per l’abolizione della Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si preoccupa dei rifugiati palestinesi, sia contro la costituzione di uno stato palestinese che costituirebbe per Israele una costante minaccia. L’analisi della complessità degli interessi americani nel Medio Oriente lascia aperta la questione se Israele sia stata strumento dell’imperialismo americano per garantire l’approvvigionamento del petrolio e nella lotta contro il nazionalismo arabo estremista. E per quanto ci fossero segretari di stato che erano consapevoli del risentimento arabo e che cercarono di migliorarne i rapporti, fornendo assistenza tecnica ed economica, cionondimeno la prevalenza del reciproco beneficio fra gli Stati Uniti e Israele rende anche i governi americani responsabili dei mali inflitti ai palestinesi.

La pressione costante sui paesi arabi perché sia normalizzata la loro politica verso Israele e l’instabilità che ne deriva nel rapporto tra governanti, che ottengono privilegi, e le popolazioni che restano solidali con i palestinesi, viene approfondita e viene considerato il legame stretto tra questa indignazione con la nascita dei movimenti fondamentalisti e l’antiamericanismo, che ha trovato un fertile terreno fra i giovani disoccupati e i poveri di quelle terre.

Il capitolo viene arricchito da una parte dedicata al sionismo cristiano, alla Riforma protestante e alla diffusione della Bibbia nel XVI secolo, creando le basi per l’interesse nel Vecchio Testamento e la connessione con le vicende del popolo ebraico. In sintesi, “il sionismo cristiano si riferisce a un insieme di credenze che ritengono fondamentale il ritorno degli ebrei alla terra promessa quale preludio per il secondo avvento di Cristo, conferito da Dio in un patto con Abramo”. Tale principio fu il motivo per le organizzazioni cristiane delle pressioni per far tornare gli ebrei in Palestina. Questi e altri elementi, che ho sintetizzato al massimo per ragioni di brevità, vengono ritenuti terrificanti per una politica di pace sia in Palestina sia in Israele. Attualmente sono circa 25 milioni di persone che, per tutti gli Stati Uniti, vengono guidati da 80 mila pastori fondamentalisti.

Tutto ciò fa emergere un quadro che è sostanzialmente sfavorevole alla causa palestinese su cui gioca l’ignoranza sulle ragioni del conflitto. Ma il fattore più rilevante nelle pagine seguenti è l’Olocausto e l’atteggiamento europeo nei confronti di Israele. Lascerò al lettore l’approfondimento del capitolo per passare alla parte finale che pone la questione del significato di tutto ciò per gli arabi e in particolare per i Palestinesi. La scrittrice riporta una similitudine :”è come se coloro che hanno contribuito alla costituzione di Israele fossero un cast di attori… di un dramma messo in scena in un teatro arabo… Le barbarie dell’Europa inflitte alle comunità ebree al suo interno,… appartengono all’Europa… agli arabi, non solo è stato chiesto di ospitare questa comunità ma anche di amarla. Difficile trovare una nazione che avrebbe accettato una simile imposizione …

I capitoli successivi, in cui si esaminano i processi di pace, i numerosissimi trattati, le varie risoluzioni, gli emendamenti, il disegno mai abbandonato dei governi di destra di distruggere i palestinesi, fanno emergere la passione, le emozioni contrapposte dell’autrice. Dal 1948 i molteplici tentativi di accordi hanno visto peggiorare la condizione dei palestinesi, indebolire le resistenze arabe, frantumare la stessa coesione tra la popolazione che sfociò in una guerra civile tra Hamas e Fatah nel 2006. Oggi la forza di Israele soverchia qualsiasi possibilità di un futuro per la soluzione di due stati. La striscia di Gaza è ridotta a quasi un cumulo di macerie, fame e disperazione. Un luogo che ha sofferto centinaia di attacchi israeliani, distruzione delle case e morti. L’autrice si sofferma nella descrizione delle condizioni di vita di uomini donne e bambini, traumatizzati, deprivati della cultura, del lavoro, della salute e del cibo, che pagano le scelte di Israele di considerare quella terra occupata, una discarica di tutti i rifiuti e scorie. Così il governo israeliano dal 1948 al 2006, anno in cui il libro viene scritto, ha saputo, con gli appoggi internazionali, mettere fine alla resistenza palestinese, spogliando i Palestinesi di qualsiasi possibilità in qualsiasi zona, di avere un loro stato e una loro rappresentanza politica. Il rifiuto della loro identità e della loro storia, l’ impossibilità di riconoscere l’altro, hanno negli ultimi 50 anni alimentato la politica di Israele spingendola all’uso della violenza e della repressione come unico strumento di risoluzione del conflitto. L’inarrestabile insediamento di colonie in territorio palestinese e l’espulsione della popolazione non ebraica, e le leggi razziste antiarabe, completano il quadro. Infine il muro la cui costruzione ha un prezzo di dolore altissimo per le comunità palestinesi.

Si giunge quindi agli ultimi due capitoli, quelli che ci fanno sperare finalmente in una possibile soluzione e quindi l’inizio della fine del patimento di un popolo, della stabilità dell’intera area, della possibilità di una vita di convivenza nella pace e nella giustizia per palestinesi, ebrei, arabi e tutte le diverse comunità presenti in quelle terre martoriate. ”Indipendentemente da quanto sia raggiungibile in questa fase storica”. Far trionfare la speranza !

Riprendendo il concetto di ipotesi di stato binazionale, l’autrice fa emergere come esso continui a stabilire la separazione e a legittimare le fondamenta dell’impresa sionista. Mito che i palestinesi hanno combattuto con tutte le loro forze e che è stato la base della guerra e dell’intifada. Creerebbe una società di diseguali.

In uno stato laico e democratico i diritti non derivano dall’appartenenza a un gruppo etnico o religioso, ma dalla legge che ne stabilisce l’uguaglianza e che rifletterebbe la situazione attuale di multiculturalità della popolazione in quell’area a causa anche delle migrazioni di persone ebree da tutto il mondo, che Israele ha favorito.

D’altra parte, sostiene l’autrice, le società arabe hanno avuto storicamente una connotazione di pluralismo e tolleranza religiosa e mostra come quelle terre siano state rifugio degli stessi ebrei dalle persecuzioni nei secoli. Un percorso lungo, un futuro lontano, attivando e ricostruendo una identità che inizi il suo cammino verso un senso reciproco di appartenenza e coesione sociale. Soluzione in prospettiva migliore di quella attuale, in cui il senso di supremazia, di discriminazione, di proprietà esclusiva comincerebbe, anche se molto gradualmente, a modificarsi; lotte difficili, democratiche, un lento processo dello sviluppo della consapevolezza. Col tempo, nuove generazioni si sentiranno di costruire la pace e la convivenza, orientate verso la creazione comune di una nuova società. Una sfida formidabile la definisce, ed è il titolo del capitolo finale in cui si analizzano le posizioni di arroccamento e di privilegio degli ebrei e la chiusura dei palestinesi, ma anche le voci di quelli che fra di loro sentono ormai l’esigenza di una società “aperta, non razzista, che accolga l’altro”. La speranza è supportata dall’esempio del Sud Africa anche nelle forme del pentimento e della riconciliazione con i riconoscimenti delle ingiustizie commesse e le pratiche di riparazione verso le vittime. Una lotta, come dimostra l’autrice, che oltre a rendere desiderabile la soluzione di uno stato unico e democratico, è ora solo quella concretamente fattibile e preferibile in assoluto, salvaguardando le necessità di sicurezza d’Israele, le sue umane paure e i bisogni di giustizia dei palestinesi.

 

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