L'uomo che marcia per la pace

La marcia di John. A tasche piene – Linda Chiaramonte

1.600 chilometri a piedi, da Reggio Emilia a Bruxelles. Per denunciare la guerra per l’estrazione del coltan nel suo Paese. Che ha costretto John Mpaliza a rifugiarsi in Italia

«Il Congo sembra lontano, ma lo portiamo nelle tasche» è così che in una battuta John Mpaliza, esule congolese di 43 anni, in Italia da più di venti, sintetizza la drammatica situazione del suo paese, che vede in questi giorni l’inasprirsi di una guerra in atto da anni e che ha già fatto milioni di morti nella quasi totale indifferenza del mondo. Avere il Congo nelle tasche significa che dai telefoni cellulari alle play station, i tablet, i sistemi gps, e per tutta la tecnologia in generale è necessario il coltan, un minerale composto da columbite e tantalite, di cui il Congo è ricchissimo, che viene estratto praticamente a cielo aperto dalle multinazionali creando come grave effetto collaterale una sanguinosa guerra economica che sta mietendo migliaia e migliaia di vittime. Denominato l’oro dell’elettronica, il coltan ha ormai soppiantato il silicio anche nella realizzazione dei prodotti destinati all’industria aerospaziale, militare, chirurgica. La repubblica democratica del congo contribuisce all’80% della produzione mondiale. Il paese sta vivendo un vero e proprio disastro geologico, «non c’è nulla che non ci sia in Congo» aggiunge John, «il petrolio, i gas naturali, i diamanti, di cui siamo primo produttore mondiale, il cobalto, il rame. La popolazione congolese vive questo dramma da circa vent’anni nei quali hanno perso la vita fra i sei e i sette milioni di persone. Le stime, fatte da organizzazioni internazionali fra cui Human rights watch e l’Onu, parlano di circa cinque milioni solo fra il ’93 e il 2003. Dopo la guerra di liberazione contro il dittatore Mobutu, ne è scoppiata una fatta dalle multinazionali per ragioni d’interessi internazionali».

Questo breve quadro è necessario a John per aggiungere: «La tecnologia va avanti ed è impossibile fermarla, ma è necessaria una sensibilizzazione dell’opinione pubblica perché sappia che tutti noi abbiamo a che fare con questo minerale e per trovare il modo di fermare il massacro». Dopo i diamanti insanguinati ora si tratta dei prodotti ottenuti con il coltan. A questa guerra che depaupera il Congo e vede i congolesi cadere a terra come mosche John contrappone ad esempio la tracciabilità delle materie prime «vorrei essere in condizione di comprare un telefono con un certificato che attesti la sua origine pulita ed etica. Che assicuri che dietro quell’oggetto non ci sia una scia di morte».

È per tutte queste ragioni che nei mesi scorsi John ha deciso di intraprendere una lunga marcia da Reggio Emilia fino a Bruxelles, 1600 chilometri a piedi in cinquantacinque giorni attraversando sette paesi europei, per far conoscere questa drammatica situazione a più persone possibili, tutti quelli che lo hanno affiancato in questa avventura e a chi lo ha voluto incontrare lungo il cammino. «Più gente conosce questa realtà, più i giovani, gli adulti di domani, potranno fare scelte diverse. Non si può fermare una guerra di cui non si sa niente». L’idea e la necessità di fare qualcosa per il suo paese a John è venuta almeno quattro anni fa, quando, dopo sedici, vi ha fatto ritorno per la prima volta. Oltre ad aver perso parte della famiglia, non ha più trovato il suo paese «non c’erano infrastrutture, ospedali», ricorda, «fra il ’75 e l’85 si viveva abbastanza bene nonostante la dittatura di Mobutu, c’erano le scuole e le università migliori dell’Africa».

Lui, cresciuto nella capitale Kinshasa, ricorda di quando, studente di ingegneria, all’indomani della caduta del muro di Berlino nell”89, arrivò fin lì un vento di libertà: «Anche noi studenti abbiamo raccolto quel messaggio, cominciammo a chiedere che si avviasse un cambiamento, che Mobutu lasciasse il potere. Si era creato un movimento clandestino, farne parte era molto pericoloso, chi veniva scoperto era arrestato, torturato o ucciso. Nel ’90, dopo un anno di clandestinità, il movimento uscì allo scoperto. Iniziarono le prime manifestazioni, al confronto la recente primavera araba non è nulla. Se solo avessimo avuto internet. Fra il ’90 e il ’91 migliaia di studenti furono uccisi nelle tre città universitarie, fra loro molti miei amici. Le uccisioni erano mirate e gli arresti di dissidenti arbitrari. Finché si giunse alla chiusura degli atenei», racconta.

Alla fine del ’91 John è costretto a lasciare il Congo, dopo alcuni mesi si ferma a Orano, in Algeria, dove riprende gli studi. Nell’estate del ’92 trascorre le vacanze in Italia, per fatalità scampa ad un terribile attentato all’aeroporto di Algeri, da allora decide di non andar più via. Fa richiesta di asilo politico, ma la trafila è molto lunga, così rinuncia e nel ’95, grazie alla sanatoria, riesce a restare. Trasferitosi in Emilia quattordici anni fa, s’iscrive a ingegneria informatica e riesce finalmente a portare a termine gli studi. Da anni John lavora al comune di Reggio Emilia. Per capire ciò che accade oggi nella repubblica democratica del Congo non si può non fare un passo indietro, a quando Laurent Desiré Kabila viene portato al potere entrando in Congo attraverso il Rwanda accompagnato dalle forze armate del paese. Già dopo il ’94 molti hutu erano scappati in Congo dopo il genocidio.

«Kabila», spiega John, «ha messo nelle mani delle forze militari ruandesi il destino del Congo. Fra loro anche alcuni ricercati dalla corte internazionale per i crimini di guerra. Fra il ’97 e il ’99 i congolesi obbediscono ai ruandesi. In questi anni ci sono stati più di quattrocentomila casi di stupro, usato come un’arma anche più potente di quelle a fuoco. Anche per il Congo si parla di genocidio, le violenze efferate delle milizie sono soprattutto contro le donne. Non appena nei villaggi si ventila l’arrivo di militari ruandesi le popolazioni fuggono abbandonando i territori. Molti del vicino Rwanda si organizzano in milizie ed entrano nel paese, soprattutto ad est, nella regione del Kivu ricco di coltan. Nel 2009 si è creato il movimento M23, inserito nelle forze congolesi. Un accordo dell’Onu, stipulato lo scorso giugno, sostiene che l’M23 sia stato creato in Rwanda e finanziato dai ruandesi. C’è stata per questo una richiesta di sanzioni contro il paese perché smetta di destabilizzare il Congo. Questa guerra è tenuta volutamente ad una bassa intensità, si preferisce non parlarne. Per questo ho pensato di usare il mio corpo fino all’estremo, perché il Congo si risollevi e si smuovano le coscienze dei congolesi. Nel nostro paese non si tratta di guerra etnica, ci sono ben quattrocentocinquanta etnie e si parlano quattro lingue, ma economica. Dopo aver percorso 900 chilometri nel 2010 per raggiungere Santiago de Compostela, e settecento lo scorso anno per arrivare a Roma, ho pensato di puntare a Bruxelles per portare le mie istanze al Parlamento europeo, dove si prendono le decisioni».

L’obiettivo è far nascere un movimento dal basso, incontrare persone ed enti locali per far conoscere la situazione. Nella sua lunga marcia John ha fatto tappa a Ginevra, alla sede dell’alto commissariato per i rifugiati, Strasburgo, Maastricht, ecc. Il viaggio, iniziato il 29 luglio e terminato il 22 settembre, è stato un’avventura umana e al tempo stesso teatrale, un progetto culturale a cui si è unita la compagnia del teatro dell’argine, che lavora alle porte di Bologna. Pietro Floridia, attore e regista che da molti anni affronta questi temi con un gruppo teatrale composto da rifugiati politici e richiedenti asilo, ha seguito questa impresa, contrassegnata da spettacoli lungo alcune tappe. «Il teatro è stato usato come un cavallo di Troia», spiega Floridia, «ci si riuniva intorno a John per sentir parlare del Congo e poi renderlo anche un lavoro artistico. L’uso del suo corpo in una prova estrema è stata quasi una forma di performance». Alla fine di questa faticosa avventura è stata scritta un’interrogazione indirizzata a Catherine Ashton, alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione europea, in cui John, con l’aiuto di connazionali, ha suggerito alcune soluzioni: un cambio di atteggiamento dell’Ue verso il Rwanda e la richiesta di far rispettare le sanzioni se non ottempera il documento dell’Onu. Che le Nazioni Unite lascino la repubblica democratica del Congo oppure cambi il mandato da peacekeeping a peacemaker, e infine che si lavori alla tracciabilità delle materie prime, soprattutto il coltan, e che i prodotti realizzati in Congo non vengano etichettati come fatti in Rwanda.

In attesa di ricevere una risposta da Bruxelles, intanto la Ue ha preso la decisione di sospendere gli aiuti finanziari al governo ruandese finché non si verificherà la sua responsabilità sulla situazione nel Congo. Finora uno dei primi frutti della marcia è stato l’invito di John ad incontrare migliaia di giovani nelle scuole. «È stato uno sforzo fisico e psicologico molto duro», confida John, «per le prime tre settimane non riuscivo a togliere quelle scarpe, non era facile tornare nella vita quotidiana».

 

il manifesto 2013.01.03

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