Perché siamo così ipocriti sulla guerra? – Recensione di Nanni Salio

Fabio Mini, Perché siamo così ipocriti sulla guerra?, Chiarelettere, Milano 2012, pp. 84

Ahimé, ci voleva un generale per dire alcune parole chiare sulle guerre in corso. Tra il pamphlet e il saggio breve, incisivo, che si legge di corsa, in poco più di un’ora, questo è un libro che dovrebbero leggere in molti: i politici innanzi tutto, ma anche gli attivisti dei movimenti per la pace e dei movimenti nonviolenti.

Nella prima parte, Fabio Mini pone la domanda cruciale: “Perché siamo così ipocriti sulla guerra?”, descrivendo come “inganni e pretesti” abbiano sempre caratterizzato le decisioni di fare le guerre: dagli antichi Egizi sino ai tempi nostri, con la guerra nei Balcani, e in particolare nel Kossovo, e quella in Iraq che fa seguito, aggiungiamo noi, all’Afghanistan.

Nella seconda parte, cinque risposte. Si comincia con la menzogna che, come noto, fa la prima vittima: la verità. Seguono i falsi pretesti, come quello clamoroso del falso massacro di Racak del 1999, per fornire il pretesto per la guerra in Kossovo, con buona pace delle menzogne “umanitarie”. Di ipocrisie ce n’è per tutti: su quelle delle “operazioni umanitarie” già altri le hanno denunciate, ma è bene che sia un generale a sottolinearle con argomentazioni rigorose.

Stimolante, sebbene discutibile, “l’ipocrisia della non violenza” (scritta così, staccando il non da violenza, diversamente da come ci ha proposto Aldo Capitini, il che forse ci permette di essere parzialmente d’accordo). E’ un punto che meriterebbe di essere discusso di persona con l’autore, se un giorno sarà possibile. Fabio Mini chiama in causa anche Gandhi ricordando una sua frase “Più pratico la non violenza più mi rendo conto di essere distante dalla vera Ahimsa”. E conclude che “La sua grande anima lo rendeva consapevole di essere lui stesso vicino all’ipocrisia”. A mio parere, più che ipocrisia è “onestà intellettuale”. Per Gandhi la nonviolenza era qualcosa di ben più ampio che non solo l’alternativa alla guerra: mezzi e fini, satyagraha e sarvodaya.

Seconda risposta: gli affari. Qui non si può che essere pienamente d’accordo. Sono in molti i soggetti implicati e oggi più che mai le guerre si fanno “per il petrolio”.

Terza risposta: l’arte dell’ipocrisia, dei potenti e dei mediocri, con una serrata denuncia dell’ipocrisia dell’Italia nella guerra alla Libia e a Gheddafi.

Quarta risposta: il gusto della guerra. Tema complesso, appena sfiorato, che tuttavia non deve condurre alla conclusione che ci sia una sorta di DNA violento e guerresco nella natura umana che condanna l’umanità alla guerra perpetua. Piuttosto, c’è molto da chiarire a proposito della “cultura profonda” di cui parla Galtung nei suoi lavori e degli aspetti psicologici e neurologici, che cominciano a essere indagati dai neuroscienziati (vedi: Baron Cohen Simon, La scienza del male, Cortina, Milano 2012).

Quinta risposta: l’ipocrisia della normalità “forse la più sconcertante… perché riesce a far considerare ‘normale’” tutti i crimini: da Abu Ghraib a Falluja, dalla Somalia a Guantanamo, alla lunga serie di eccidi impuniti da una giustizia internazionale complice e inefficace.

L’amara conclusione sembra essere che non si salva nessuno. Eppure, durante la stagione degli euromissili in Europa sorse il “movimento dei generali per la pace”, che diede un valido aiuto per smascherare almeno alcune delle principali ipocrisie dei vertici militari di entrambe le parti.

Forse oggi occorre rinnovare l’appello: “generali per la pace di tutto il mondo unitevi” per aiutare l’umanità a porre la “guerra fuori dalla storia”.

 

18 ottobre 2012

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