L’arte della guerra e della pace: teorie della creatività e della risoluzione dei conflitti – Rebecca Blocksome

Benché tecnicamente non entro i confini dell’Europa Centrale, la Bosnia-Herzegovina condivide molte caratteristiche con i suoi vicini del nord e dell’ovest – non ultima quella, purtroppo, di una storia di tensione fra varie nazionalità in tentativa spartizione dello stesso spazio. Tale tensione eruttò recentemente in un conflitto a pieno campo durante la guerra d’indipendenza bosniaca dalla Jugoslavia nel 1992-1995. Un paese che si vantava del proprio carattere multinazionale fu sbrindellato in un combattimento fra i più selvaggi in Europa dalla II guerra mondiale.

Distruzione e dissoluzione

Come si procede a ricomporre i pezzi di un paese spezzato? Non è facile rispondere, ma si sono fatti e si stanno tuttora facendo davvero molti sforzi. Io raggiunsi Mostar, città principale dell’Herzegovina, nell’autunno 2002 con lo scopo di collaborare appunto a uno di tali sforzi: una ONG nota come “Mladi Most” (Ponte giovane – MM), che si definisce uno ”spazio aperto per la cultura e la riconciliazione” e mira a radunare giovani di tutte le nazionalità in uno spazio neutrale dove partecipare insieme ad attività creative – teatro, cinema, fotografia, scrittura, musica e varie altre. Metodologia in certa misura non tradizionale per la costruzione della pace, entusiasticamente accolta dalla popolazione giovane di Mostar e di modesto successo fin dall’inizio.

Anch’io mi lanciai in tale approccio artistico-culturale senza mai soffermarmi a riflettere su perché e come funzionasse. Non fu che quando divenne dolorosamente evidente che la riuscita stava svanendo in fretta, che mi capitò di meditare sull’esatta natura del rapporto fra arte e riconciliazione o anzi se addirittura esista un tale rapporto. Il nesso non è immediatamente ovvio, in effetti, a uno scrutinio iniziale la creazione artistica sembra perfino contro-producente in un ambito post-bellico: non è un atto di mostruosa frivolezza spender quel tempo e quelle energie nelle arti di fronte a tanti altri bisogni urgenti e reali – suonare mentre Roma brucia? Come, concretamente, produrre arte contribuisce a guarire una comunità divisa?

Per me un momento significativo nel rispondere a queste domande giunse durante un laboratorio creativo che tenevo a un gruppo di giovani donne. Prima, questi laboratori erano stati fra le attività più apprezzate di MM, attirando donne da tutta l’Herzegovina, che lì trovavano un forum per esprimere la loro rabbia e paura e disperazione nell’ambiente post-bellico – un modo per volgere quelle emozioni in qualcosa di costruttivo, piuttosto di farle montare fino alla violenza.

Ma quel particolare laboratorio che stavo conducendo quella sera aveva una sola partecipante, una giovane di nome Almira, venuta per giunta più per abitudine che per interesse; sicché dopo un po’ lasciammo perdere il progetto creativo e cominciammo a discorrere della situazione della gioventù a Mostar. Le chiesi che cosa fosse cambiato, perché la gente non fosse più interessata a quel tipo di attività. La sua risposta fu semplice, e devastante: “È solo che i giovani qui non sono più creativi”. Ero davvero sbalordita.

La creatività è qualcosa che avevo sempre considerato innata negli esseri umani, un elemento fondamentale dell’essere vivi. Benché ammetta che non tutti creino in senso propriamente artistico, ero convinta che in qualunque momento e luogo si senta il bisogno di creare qualcosa. Quindi non riuscivo a rendermi conto come tutta una generazione possa perdere la volontà di creare. Era forse questa un’altra vittima della guerra?

La creatività nel conflitto

Johan Galtung, il noto professore norvegese di studi sulla pace, commenta lo stesso fenomeno nei suoi studi sulle situazioni post-conflitto violento. Scrive: “Una vittima importante della violenza in generale e della guerra in particolare è la capacità di trasformazione del conflitto; più specificamente, le tre capacità basilari, in quanto la nonviolenza, la creatività e l’empatia, sono state erose”.

È importante notare che qui si parla di casi di conflitto violento, ossia giunto al punto d’essere nocivo o distruttivo per i coinvolti. Sicché l’elemento distintivo fra conflitto e conflitto violento è la componente distruttiva del secondo. Non solo essa è presente, si badi, ma è la distruttività che definisce un conflitto violento, essendone condizione necessaria e sufficiente.

La guerra è la modalità più evidente, sebbene non la sola, di un tale conflitto, ed è perciò della distruzione e di tutte le conseguenze connesse che devono occuparsi in primo luogo gli sforzi di guarigione delle comunità post-belliche.

In questi termini, diventa più chiaro che la creazione, quale antitesi alla distruzione, ha un ruolo speciale nel processo di costruzione della pace. Come abbiamo visto, Galtung considera la creatività, insieme alla nonviolenza e all’empatia, fra i costituenti cruciali di una “cultura di pace” – una cultura che promuova fondamentalmente l’armonia anziché il conflitto.

Le culture ricche di tali qualità sono in grado di affrontare il conflitto prima che degeneri in violenza; e, ancor più importante, dopo un conflitto violento sono più capaci di raggiungere una risoluzione e riconciliazione. Purtroppo però, l’effetto dannoso della violenza su tali capacità comporta che le società post-conflitto che ne hanno più bisogno, ne sono spesso prive.

“Guerre e violenza sono parodie di tali virtù”, scrive Galtung. “Il punto riguardo alla nonviolenza sta nel reagire alla violenza e alla distruzione con qualcosa di costruttivo; ma le guerre escludono proprio ciò come tradimento, restando lo scopo ultimo la distruzione, di vite e di beni”.

In questo contesto, la semplice asserzione di Almira non è più così difficile da comprendere, la difficoltà sta effettivamente nell’affrontare la sfida colossale di costruire – o ricostruire – la capacità di creazione in un mondo pervaso dalla distruzione in ogni suo aspetto, non solo fisico, ma altresì psicologico e sociale.

“Il modo migliore di accrescere la creatività è praticarla”, dice ancora Galtung, “il che è possibile solo se quante più persone sono incoraggiate ad assumere la sfida di scoprire modi per uscire da conflitti profondamente radicati, e di fare ricostruzione e riconciliazione”.

Chiaramente la produzione artistica è un’attività che può promuovere la creatività, per cui è più facile concepirne un ruolo in comunità che si stiano riprendendo da un conflitto violento. Tuttavia tale nesso è tenue, nel migliore dei casi; la creatività si manifesta in vari modi di cui l’arte è solo uno.

Qui ci sono in realtà due problematiche in gioco; non solo Perché creare?, ma anche Perché creare arte? Dato che le due spesso si sovrappongono nella prassi, distinguerle può essere arduo; perciò prima affronteremo la natura dell’arte mettendo da parte la creatività, poi la natura della creatività trascurando l’arte.

L’arte come innovazione

La questione del Perché creare arte? non è oziosa in questo contesto: risultando le metodologie tradizionali di peace building inadeguate a risolvere efficacemente conflitti complessi, gli operatori di pace si rivolgono sempre più ad approcci innovativi, compreso quello basato sulle arti. Questo è tanto più vero in aree dove il conflitto è evidentemente radicato nella cultura, per esempio nei paesi ex-jugoslavi e in Irlanda del Nord. Però generalmente questi approcci trattano l’arte a livello superficiale, badando al prodotto della creazione, piuttosto che al processo. L’arte è semplicemente uno strumento di produzione di nuovi artefatti culturali intesi come sostitutivi di quelli vecchi, che si sono caricati ideologicamente nel corso del conflitto.

E così l’arte è valutata solo per la sua qualità innovativa: la creazione diviene sinonimo di novità, freschezza, originalità. L’unico attributo che importi è un obiettivo in avanti anziché indietro, al futuro piuttosto che al passato. Se la storia è contaminata, potrebbe essere possibile una risoluzione solo spazzandola via e ricominciando.

Non si deve sottovalutare il valore di quest’approccio: in effetti, in situazioni di conflitto culturale stratificatosi da generazioni, l’evasione dalla prigionia del passato è un prerequisito necessario per qualunque tipo di progresso verso la riconciliazione. Ma sembra tuttavia limitare l’arte a un ruolo definito in termini molto stretti, corrispondente a una definizione di creazione altrettanto angusta.

Se la creazione è concepita come processo oltre che come prodotto, permette all’arte di giocare un ruolo ben più importante nella risoluzione del conflitto. Ma per oltrepassare la nozione semplicistica di fare cose nuove sostitutive di quelle vecchie distrutte, la creazione in quanto processo (ossia la creatività) deve trovare collocazione specifica nell’ambito più spazioso del peace building.

Secondo il modello di Galtung, la citata triade di capacità di peace building corrisponde e reagisce a una triade di tipi di violenza: diretta (fisica), strutturale, e culturale. Le azioni nonviolente si contrappongono per definizione a quelle violente. L’empatia – la capacità di identificarsi con tutte le parti in conflitto – allo stesso modo contrasta la monomania auto-centrata della violenza culturale.

Quella che c’interessa di più qui è la coppia mediana, la creatività fa il paio con la violenza strutturale: cioè la capacità di concezioni creative necessaria per trascendere strutture che promuovono o addirittura incarnano il conflitto. In termini astratti, l’esempio più impressionante di tale struttura è il dualismo ossia la polarizzazione. Se si definisce il conflitto come insieme di obiettivi incompatibili, tale incompatibilità insorge per lo strutturarsi della polarità, paradigma per cui l’est è est e l’ovest è ovest e i due non si devono mai incontrare.

Giacché l’arte opera al di fuori dei dettati della logica, può rigettare tale premessa fondamentale d’opposizione e concepire creativamente soluzioni paradossali alle apparenti antitesi. Come nota la scultrice Celia Gerard:

“Ci sono analogie interessanti fra i processi del produrre arte e risolvere un conflitto: si tratta spesso di congiungere concetti disparati, sia astratti che letterali; risolvere le tensioni per formare un insieme integrato è centrale a entrambi”.

Ciò che interessa qui è nello sviluppare nuovi modi di pensare, di vedere il mondo, sperando che concepire alternative a visioni del mondo dicotomiche intrinsecamente foriere di conflitti faccia spazio allo sviluppo di mentalità nuove e pacifiche. In altri termini, rinnovare il processo rinnova il prodotto; modificando i mezzi si modificano necessariamente i risultati.

Spostare l’accento dal prodotto al processo potrebbe adombrare il fatto che anche in questo nuovo contesto la funzione della creatività va in parallelo a quella sopra descritta – salvo quando a essere create sono nuove idee anziché nuove cose. Però lo spostamento dal tangibile all’intangibile illumina un aspetto dell’arte molto pregnante: la sua molteplicità di essenza.

L’arte come rinnovamento

Siamo arrivati infine a quello che potrebbe essere considerato un aspetto unico della creatività specificamente artistica rispetto a quella generale. Cioè fare arte è attività simultaneamente fisica e mentale; le creazioni artistiche vengono alla luce mediante un’armonia mistica di forma e idea – kalokagathia, l’unità di corpo e mente.

Tuttavia la significatività di questo punto non si può apprezzare appieno nella prospettiva rigorosamente speculare di Gerard e di altri artisti studiosi di pace dello stesso filone. Dorothy Sayers, autrice e critica letteraria britannica nonché apologeta cristiana, ne tratteggiò per prima l’importanza affrontando l’argomento da una prospettiva spirituale in una serie di saggi esplorativi della teologia dell’arte e della creazione.

Sayers nota l’esistenza di due diversi tipi di creazione all’opera ai due rispettivi livelli. A livello fisico la creazione richiede una contestuale distruzione: per fare un tavolo bisogna distruggere un albero; invece a livello delle idee è agglutinativa: non è necessario distruggere un Amleto per creare un Falstaff.

“I componenti del mondo materiale sono fissi; quelli del mondo dell’immaginazione si accrescono con un processo continuo e irreversibile, senza distruzione o risistemazione di quanto precedeva. Questo rappresenta l’approccio più prossimo alla creazione dal nulla, e si concepisce l’atto della creazione assoluta come analogo a quello dell’artista creativo”.

Purtroppo gli scritti di Sayers non esplorano a fondo la conseguenza della propria intuizione sulla natura duale, mentale-fisica, dell’arte, e mantengono l’accento sull’atto creativo mentale che s’accosta di più alla Creazione Divina. L’atto creativo fisico, macchiato dalla distruzione che vi è implicita, viene riconosciuto come male necessario in un mondo degradato ma non certo come qualcosa da esaltare.

Fortunatamente l’idea è però stata estesa da un altro autore britannico (e ammiratore di Sayers), Michael Edwards, che si è reso conto che questa pecca apparente nella creazione artistica – la sua appartenenza a questo mondo piuttosto che all’Altro mondo – è di fatto la sua forza.

La sua teologia dell’arte si basa sul rigetto della dicotomia fra i due mondi, tenendo invece conto appieno simultaneamente di entrambi: unendo la creazione-distruzione di questo mondo e la Creazione del successivo. “Mettendola in termini dialettici, la letteratura comincia con la percezione di un conflitto fra grandeur e misère, e di una disparità fra le cose come sono in un mondo decaduto e come potrebbero essere. È la modulazione del passato, presente e futuro, il tentativo di sfornare un mondo nuovo dal venir meno di uno vecchio”.

Questa dialettica tripla che fonde passato-presente-futuro con Eden-esilio-Paradiso, è centrata sull’idea dell’arte come opera redentrice, che modula la creazione come ri-Creazione: non ingenua ed evasiva, né stanca del mondo e cinica, ma piuttosto radicata nella realtà mentre la trascende. Prefigura l’ultimo atto di riconciliazione: quello fra un’umanità decaduta con un Dio affidabile.

Creazione-Distruzione-Redenzione

Intessendo queste due teorie cristiane con quella di Galtung, si arriva a un’ipotesi plausibile sul ruolo e l’importanza dell’arte nella risoluzione dei conflitti. A questo scopo, dobbiamo tornare all’origine sia della Creazione sia del Conflitto, che appaiono significativamente prossimi l’una all’altro nella narrativa cristiana.

Genesi 1 inizia con la storia di Dio che Crea: i cieli. la terra, tutte le creature viventi, il genere umano; al cui proposito Dio nota esplicitamente che è stato disegnato a Sua immagine e somiglianza: “Allora Dio creò gli umani a Propria immagine; a immagine di Dio Egli li creò: maschio e femmina Dio li creò” (1,27).

Usando questo passo, Sayers sostiene che la creazione è la caratteristica fondamentale del genere umano, dato che la natura Creativa di Dio è l’unico aspetto di Dio asserito nel testo che espone l’istituzione del genere umano a somiglianza di Dio.

Così, la capacità degli umani di creare costituisce la loro analogia primaria con il Creatore. Questa prospettiva attribuisce alla creazione non solo una sanzione divina, ma anche un mandato divino. Essere umani è creare, poiché Dio Crea. Quest’idea, se estesa, accenna a una spiegazione metafisica delle osservazioni di Galtung sul conflitto violento e il suo pesante tributo sulla psiche umana. Se la creazione non è un puro atto esterno proprio del genere umano, ma piuttosto qualcosa d’intrinseco al suo essere umano, la perdita di creatività che accompagna la violenza – l’interiorizzazione della distruzione – significa un conflitto integrale: una perdita fondamentale di sé.

In effetti, seguendo il filo di Edwards, questo testimonia della verità del mito cristiano, che presenta proprio un tale conflitto interiore nella narrazione, due capitoli dopo, della caduta dell’umanità dallo stato divinamente Creato in un atto di aperta ribellione a Dio, il cui risultato è una creatura assillata dal ricordo di ciò che fu, “in ogni momento se stesso e il contrario di se stesso”.

Ogni conflitto attraverso la lunga storia del genere umano è insorto da questo Conflitto primordiale – sia la natura duale conflittuale dell’umanità, sia i conflitti esterni che lacerano le nazioni e le comunità oggidì.

Scoppi di violenza e di acerba discordia, nei Balcani e altrove, sono manifestazioni esagerate della Caduta, la prima crepa in una Creazione integrata. Per conseguenza, qualunque tentativo di risoluzione pratica dei conflitti deve in pari tempo affrontare tale conflitto integrale, altrimenti si tratterebbero solo i sintomi anziché la malattia.

Perciò possiamo inferire che l’atto di creazione, in quanto funzioni per risolvere il Conflitto pervasivo di un universo in guerra con le proprie origini, funziona anche verso la risoluzione dei conflitti nel qui e ora.

La correlazione empirica fra conflitto e (carenza di) creatività, come pure i tanti paralleli fra produzione artistica e peace building, ne forniscono una prova corroborante. Il peace building, secondo Galtung, richiede un approccio tripartito: ricostruzione del danno fisico, riconciliazione delle parti in conflitto; e risoluzione del conflitto soggiacente. Egli fa esplicitamente notare il “ri-“ iniziale di ciascun termine: implica la nozione che tali processi sono accaduti prima e devono accadere di nuovo. Singolarmente la particella “ri-“ incorpora di per sé il modello di Edwards di arte radicata nei tre stati temporali.

Per definizione, il suo argomento riflette ciò che era un tempo lo status quo, e pur patendo inversione al presente, cerca tuttavia una futura inversione di quell’inversione. Ecco come riecheggia nella descrizione dell’arte di Edwards:

“La funzione [dell’arte] qui, in prospettiva cristiana, è esplorare non un Eden perduto o una passata Età dell’Oro, né un ambito di Idee altrove, ma una ri-creazione per il futuro del qui e ora”.

È qui implicato un quarto termine nella dialettica cristiana, corrispondente alla e sussumente la triade di Galtung: la redenzione, tema sottostante di tutto il cristianesimo. La redenzione è qui rinnovamento (non proprio un ossimoro) – il potere per cui le cose passate vengono ri-fatte, non com’erano (il che diffamerebbe la realtà contemporanea negandola), ma come potrebbero essere in un’evoluzione perfezionata. È una capacità sovrannaturale, non accessibile in termini umani; ma per il potere di Dio confuta la nostra naturale inclinazione – o anzi condanna – verso l’entropia.

Come redenzione in senso cristiano suscita lo schiudersi della storia dell’umanità, la redenzione nel suo significato terrestre genera la speranza in un mondo disperato. Essa effettua la trasmutazione della distruzione in creatività; della bruttezza nella bellezza; della frammentazione in totalità. L’arte stessa si staglia come segno tangibile di questa trasfigurazione, un curioso amalgama di questo mondo e di quello ancora da venire.

Letture suggerite

Edwards Michael, Towards a Christian Poetics, London 1984
Galtung Johan, AFTER VIOLENCE: 3R, RECONSTRUCTION, RECONCILIATION, RESOLUTION. Coping With Visible and Invisible Effects of War and Violence, 1998
Gerard Celia, Addressing Otherness: The Role of the Arts in Peace Education 2003
Sayers Dorothy L., Christian Letters to a Post-Christian World, Grand Rapids, 1969

 

Traduzione di Miky Lanza per il Centro Sereno Regis
Titolo originale: The Art of War and Peace: Theories of Creativity and Conflict Resolutio
http://kansas.academia.edu

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