“Plis, dont maind de gap”. I giovani, gli adulti e la scuola – Antonello Ronca

Sono un sessantottino, di nascita. Più invecchio, più il gap di età tra me e i miei allievi aumenta: per ora potrei essere anagraficamente il padre di molti di loro. Ho cominciato ad andare a scuola a Torino durante gli anni di piombo, e me ne sono reso conto solo tanti anni dopo, per fortuna. Ricordo l’uccisione di Moro. Eppure rispetto a quegli anni, per i nostri vale l’aforisma di Karl Valentin: una volta il futuro era migliore. C’è ancora un futuro per i miei allievi, per i nostri figli? (io non ne ho). Perché il gap più preoccupante è quello tra il (nostro) passato e il (loro) futuro. Sono sempre meno i ragazzi che frequentano gruppi, fanno formazione al di fuori della scuola, trovano adulti con cui confrontarsi che non siano i genitori (quando va bene entrambi, sempre più spesso uno solo, per lo più la madre). Più di una volta qualche allievo mi ha detto, scherzando: «Passo più tempo a scuola con voi prof che a casa coi genitori!». La scuola, da questo punto di vista, senza che sia stata firmata esplicitamente una delega, è forse oggi il luogo di maggiore incontro tra giovani e adulti.

Un mondo di relazioni

Insegno lettere al liceo, ho quattro classi, 85 allievi. Sesso maschile: ci tengo a precisarlo, visto che mi arrivano pacchi e mail intestati «Alla prof.ssa Antonello Ronca».

«Supponiamo un insegnante che, come me, ha poche classi, solo tre; se le vede tutte e tre in una mattinata, cosa normale, vede dalle sessanta alle ottanta persone, a seconda dei casi; se ha l’abitudine di parlare con gli studenti, oltre a rivolgersi a loro per le sue lezioni, almeno una ventina di loro, tra tutti, si rivolgeranno a lei o lui, con domande, critiche, commenti, battute, ecc. Nella sala insegnanti, in una scuola di circa cento docenti, come niente incontra venti-trenta colleghi, e in condizioni normali gli può capitare di avere a che fare attivamente (discutere alcuni problemi, chiedere qualcosa, essere interpellato, ecc.) almeno con una decina. Questa è una situazione abbastanza ordinaria. Moltiplicatela per cinque giorni alla settimana, per le trentatré settimane di insegnamento all’anno; più i collegi, i consigli, le assemblee, ecc.» (Mauro Piras, Lavorare in perdita nella scuola, in http://www.claudiogiunta.it).

Dunque la scuola è forse l’ambiente di lavoro in cui si incontrano più persone in una giornata. A dire il vero, mia sorella che fa la cartolaia vede più persone di me in un giorno, ma lei non deve educarle. Basta (si fa per dire) che le accontenti in quello che chiedono di comprare. Il maestro, secondo don Milani, è «colui che cerca di contraddire e mutare i gusti dei suoi clienti». E la scuola è rimasto uno dei pochi luoghi, quasi l’unico, dove i rapporti non sono mercificati. Un paio di volte, un allievo mi ha pagato un caffè.

Sono un dipendente pagato dallo Stato, e quindi libero da altri padroni che non siano i miei allievi, che tutti i giorni ascolta, dice parole, partecipa a discussioni, avvicina persone, si fa fare domande e cerca di dare risposte: questo è l’unico titolo che ho per scrivere quel che leggete. Forse ne ho un secondo: da qualche tempo tengo un diario di scuola sul mensile il foglio (www.ilfoglio.info). L’idea non è mia, ma di un insegnante-scrittore morto precocemente nel 1999, Sandro Onofri, che aveva lasciato i suoi appunti scritti sul computer (poi pubblicati da Einaudi col titolo Registro di classe nel 2000). Lo faccio dopo aver letto quel libro, forse il migliore di un genere oggi di moda, e da quando, entrato in ruolo, ho dovuto compilare una dettagliata relazione annuale. Lo faccio per me. Perché non mi basta insegnare, ci penso continuamente, anche (o soprattutto) con le persone che mi stanno più vicine, amici, parenti. Spesso sono insegnanti, d’accordo, ma a volte solo persone che vogliono sapere che cosa si vede da quell’oblò che è la scuola. Mi è successo perfino in spiaggia, e mi sarei tuffato anche senza saper nuotare, pur di scappare. Non è (solo) ipertrofia dell’io docente, dunque, ma il tentativo di fare un discorso sui giovani che interessi tutti. Solo che quando ti chiedono – anche in spiaggia – come sono i ragazzi di oggi o come fai scuola o che rapporto c’è tra gli insegnanti e gli allievi, tu vorresti consegnargli il pacco col diario, perché come cavolo fai a dirlo in una battuta? Ci vuole tempo, se no rischi di far scambiare il particulare con l’universale. E ciò che osservo è molto influenzato dall’osservatore, cioè me medesimo, quindi dovrei anche raccontare di me. I ragazzi di oggi non lo so chi sono, conosco un po’ quelli con cui ho a che fare quotidianamente, cinque giorni la settimana. E poi, insegnando italiano, per un motivo apparentemente misterioso, ma in realtà facile da intuire, vengo a sapere molte storie che li riguardano, quello che è successo in classe, e anche fuori. Leggo in un anno almeno 1200 pagine di «temi» (3 classi di italiano, per circa 20 allievi, per 5 prove, per 4 facciate). Ogni tanto dentro i temi i ragazzi ci mettono qualcosa di se stessi. E in ogni caso, da un tema si capiscono molte cose. Senza contare le chiacchierate informali, nei corridoi.

Ma la scuola non basta: tante storie le vengo a sapere anche grazie a Facebook (da qui in poi FB), che da almeno tre o quattro anni è il social network con maggiore presa sui ragazzi della fascia di età dei miei allievi. Ma «i professori non possono dare l’amicizia su Facebook ai loro studenti», ha deciso un preside delle medie di un borgo ligure, Albisola superiore («la Repubblica» 6 dicembre 2011). Un provvedimento che ha riaperto il dibattito sull’opportunità di condividere bacheche, foto private, conversazioni virtuali tra chi sta in cattedra e chi dall’altra parte, dopo che l’estate precedente una legge analoga era stata approvata in Missouri. Io tre anni fa ci ho pensato un po’, poi ho deciso di iscrivermi, e in seguito anche di accettare le richieste di amicizia dei miei allievi. Esplorare in prima persona il funzionamento di FB lo trovo utile, anche se non indispensabile, per uno che insegna italiano: è un modo di comunicare che devo conoscere per poter fare bene il mio lavoro. Certo, il profilo che tengo è pubblico: poche foto personali, qualche citazione… So che gli occhi degli allievi sono puntati, e mi regolo di conseguenza. Ma intervengo anche scherzosamente quando trovo post curiosi, o discutibili, a volte utilizzo perfino la mail di FB per comunicazioni urgenti, sapendo che certi allievi la leggono più facilmente della posta elettronica normale. Non so se faccio bene, ma non ci vedo nulla di male.

E voglio cominciare proprio da una storia che nasce su FB, anche se non è mia. Un giorno Eros ha condiviso un post su FB che diceva: «Se l’alunno fallisce è sempre colpa dell’insegnante». Il prof ha risposto: «Non penso che sia il tuo caso… sì, è vero che noi seminiamo, ma l’unico frutto che intendo raccogliere è mio figlio: voi siete solo di passaggio e non credo che se uno di voi va male la colpa sia in parte nostra». A Eros quella frase ha mandato il sangue al cervello: «Nessuno si sente alla pari della vostra famiglia, ci basta la nostra, bella o brutta che sia. Noi non cerchiamo un genitore in un prof, anche se può capitare e ben venga se accadono cose del genere, ma penso che cerchiamo semplicemente un prof serio che crede in noi. Se poi quel prof diventa un amico, perché no? Basta essere obiettivi, nella vita non si fanno figli e figliastri» (Allora che ci faccio nel mare? Lettera agli insegnanti a cura del Gruppo Asai, Ananke 2012, pp. 52-541).

Questo piccolo episodio mette in luce almeno due aspetti, tra di loro contraddittori. Intanto il professore accetta un dialogo ravvicinato, rischioso, a tu per tu (anche se forse mosso dall’esasperazione, o dalla stanchezza). Sembra che l’allievo lo dia per scontato, ma non lo è: chi glielo fa fare al prof nel suo tempo libero, non scolastico, di rispondere alla provocazione dell’allievo? Ma nello stesso tempo il prof sembra sostenere che il destino degli allievi a lui affidati gli interessa molto di meno di quello del proprio figlio. L’argomento della paternità è ricorrente nelle discussioni tra colleghe e colleghi. Alcuni escludono tassativamente che si possa parlare anche solo metaforicamente di paternità a scuola. Eraldo Affinati ha scritto un libro, La città dei ragazzi (Mondadori 2009), tutto giocato sul ruolo della paternità nell’educazione: l’autore riaccompagna due suoi allievi marocchini della Città dei ragazzi, dove insegna, a casa, in Marocco. E spesso si scopre «padre» degli allievi e riflette sul proprio padre e sui padri degli allievi. Distinguere nettamente figli e figliastri non funziona. Se vale solo la biologia, è difficile prendere sul serio un’educazione che si svolga fuori delle mura di casa. Una forma di paternità, che non saprei definire in astratto, ma solo raccontando storie, sta alla base dell’insegnamento. E dico appositamente paternità e non maternità.

Un allievo di orientamento politico opposto al mio, dopo anni che non lo vedevo mi ha cercato – ovviamente tramite FB. La prima volta che l’ho rivisto, non lo riconoscevo. Ora ci si vede ogni tanto e si bisticcia di politica. Una volta gli ho chiesto perché, pur avendomi avuto solo per un paio di mesi in seconda, ci tenesse così tanto a rivederci ancora. Mi ha risposto: «Perché lei si era preso cura di me». Quando l’avevo conosciuto in seconda, per lui era un momento particolare, preceduto da una bocciatura e seguito dal trasferimento in un’altra scuola. Ecco: fare scuola è un modo concreto, certo non il solo, di prendersi cura delle nuove generazioni, in ultima analisi del mondo. Un modo per esercitare una forma di paternità che si potrebbe forse esprimere con la frase di Che Guevara: «Bisogna essere duri senza mai perdere la tenerezza». Come i padri, appunto.

Imparare a fare scuola fuori della scuola

Prima di entrare in ruolo (sei anni fa), ho girato quindici scuole, facendo supplenze più o meno lunghe, da un minimo di un paio di settimane a qualche mese, e da allora ne ho girate già tre. Questo vagabondaggio mi è stato utile per farmi un’idea dell’insegnamento (e rafforzare la mia «vocazione»): da tutto si impara, spesso, perfino dalle ripetizioni. Partendo da questo vissuto, mi sono diventati chiari in testa due paradossi: che a scuola la variabile tempo è importante, ma non fondamentale, e poi che anche se la scuola sembra (ed è) uno dei lavori più individualistici che ci siano, in realtà è un lavoro da fare insieme.

Se questo mestiere si basa anzitutto sulle relazioni, da precario non è agevole costruire qualcosa di duraturo: ci vuole tempo per conoscere e per farsi conoscere. C’è chi in sala prof neanche ti considera, figuriamoci gli allievi. Eppure, ora che sono di ruolo e di tempo ne ho di più, penso che si può fare scuola bene anche avendo poco tempo. Del resto non ho mai portato a termine un ciclo prima di quest’anno: al massimo ero riuscito ad avere una classe per due anni di seguito in un triennio. L’odissea del precariato è durata anni, e io non potevo aspettare condizioni più favorevoli per cominciare sul serio a insegnare… La dignità del mio lavoro e il mio sistema nervoso non me lo permettevano. Perciò ho adottato una soluzione drastica: ho sempre fatto finta, entrando in classe, di essere il loro insegnante, non un supplente che quando entra nessuno calcola. Ricordo che una volta una collega in sala prof mi ha detto, per farmi un complimento: «Non sembra che tu sia un supplente!». È difficile entrare in classe e buttarsi subito nell’avventura. Ma sono stato avvantaggiato da quel che avevo imparato fuori dalla scuola.

Nessuno all’università mi ha insegnato a insegnare. O meglio: ho frequentato per anni un seminario di didattica delle lingue classiche con un professore dell’Università, Germano Proverbio, e colleghi di molte scuole. Un’esperienza più unica, che rara. Non ho frequentato, invece, la Scuola di specializzazione, al contrario di colleghi più giovani. Ma soprattutto ho partecipato per anni alle attività (soprattutto) estive di una associazione che fa animazione interculturale con minori stranieri, e non solo: l’Asai di Torino. Qui ho imparato molto. Non un sapere teorico, disciplinare, ma a cavarmela con tutti i tipi di ragazzi in un contatto quotidiano informale (compresa la notte in camerata!), facendo un’attività che non voleva essere solo di divertimento, ma anche di formazione. A volte sono “cattivo” e mi dico: togli quel/quella collega dalla classe, con il suo registro e i suoi appunti, portalo/a in montagna con 60 ragazzi, qualcuno uscito dal carcere giovanile o che vive per strada, senza genitori, mettilo/a a condividere la conduzione del campo estivo con altri che non hanno la sua preparazione né la sua età, fallo/a vivere 24 ore su 24 con loro per 6 giorni, e dormire con loro senza avere un bagno proprio né un armadio per mettere le proprie cose, mettilo/a ad aiutare in cucina il giorno che la cuoca non sta bene, fagli/falle inventare una serata o un gioco. Quanti sopravvivrebbero? Oggi, forse, non sopravvivrei neanche io. C’è un tempo per ogni cosa. Ma lì ho imparato i “trucchi” per lavorare con gli adolescenti, a essere autorevoli, ad affinare il fiuto, e soprattutto a prendere subito in carico i volti di quei “disgraziati” che ti sono affidati. Tutti con il loro nome, e tu con il tuo semplice nome non preceduto da «prof»: con tutti immediatamente in una relazione non protetta da un ruolo istituzionale, che non sia quello generico di animatore. Con questa esperienza alle spalle, mutatis mutandis, fare scuola per due settimane quando ero precario non era difficile, e se avevo tre mesi era un lusso. Morale: secondo me tutti gli insegnanti dovrebbero formarsi nei gruppi giovanili, nei campi estivi, in oratorio, ecc.

Ancora oggi, per es., sono in contatto con Emanuele, Riccardo e Simone: a tutti e tre ho fatto scuola 3 mesi. A volte sono loro a ricordarmelo. Oggi li considero più che allievi, amici: il primo ha più di 30 anni, l’ultimo 24. Non nego che già in classe questi allievi erano tra i miei preferiti. Ogni prof li ha. Chi dice il contrario, mente. Il problema sta nell’essere imparziali e nel dare, scolasticamente, a tutti le stesse opportunità.

L’idea che mi sono fatto è, dunque, che il tempo conta e non conta: importa la qualità del tempo, l’intensità con cui lo vivi, l’entrare subito in relazione con gli allievi, senza aspettare tempi migliori. Questo non significa che non sia bello lavorare proprio sul tempo. Anzi: la cosa più bella in questa professione è conoscere un ragazzo quando è poco più di un bambino, in prima superiore, e poi vederlo crescere, attraversare le grandi scelte della vita e magari sistemarsi. Un prof non perde mai quello sguardo che aveva all’inizio e considero una fortuna poter osservare da vicino con qualche exallievo come lavora il tempo. Da questo punto di vista, l’icona evangelica dell’educatore è il Battista, che dice di Gesù: «Bisogna che egli cresca e che io diminuisca» (Giovanni 3,30). La logica è quella, solo apparentemente banale, dell’allievo che supera il maestro, ma da intendersi in senso letterale. Tu invecchi, sei meno addentro agli sviluppi più recenti delle stesse discipline e men che meno ai ritrovati tecnici. E quando conversi con certi exallievi cresciuti bene, sembra davvero di riempire i polmoni di ossigeno, e ti viene voglia di dire, con soddisfazione: adesso potrei anche mettermi da parte (ma la riforma delle pensioni porta molto in avanti quel giorno!).

Ma c’è l’altro dogma: una volta che chiudo la porta, dentro la classe faccio quel che voglio, e nessuno mi può dire niente. Sì, è vero, c’è la programmazione comune, ma sono indicazioni che lasciano poi molto liberi, in classe. Anche qui non sono stati i libri che mi hanno insegnato che cosa dovevo fare, ma la vita. Mi è capitato, anche se non di frequente, di trovare a scuola colleghi che non erano solo colleghi ma amici. Uso per loro la parola «amicizia» non nel senso di uscire insieme a vedere un film o mangiare una pizza, ma nel senso di condividere l’idea di fondo di che cosa significa fare scuola. A chi non insegna può sembrare scontato ma non lo è: a scuola il tempo dedicato a discutere tra colleghi dei principi di fondo, del metodo, dei valori non è molto, per non dire che è nullo. Riunioni ce ne sono molte, ma mirate, con un contenuto “tecnico”. Per fortuna per capire se c’è sintonia metodologica, educativa, e oserei dire spirituale, non c’è bisogno di moduli né di riunioni ufficiali. Dopo qualche settimana che sei in un posto nuovo, lo capisci. C’è la collega che davanti alla fotocopiatrice nasconde il tema per non farti vedere che cosa sta facendo, forse ha paura che tu copi… Con quella è difficile condividere. Ma ci sono anche colleghi-amici, al contrario, con cui alla lunga non riesci a fare a meno di condividere tutto quello che fai – e non parlo solo di temi o verifiche. Non è solo un vantaggio materiale, infatti, ma la possibilità di uno sguardo dal di fuori. Bisognerebbe sempre, o più spesso, lavorare insieme. Nessuno di noi adulti perde la propria identità lavorando con gli altri: non siamo bambini e siamo sufficientemente formati da rimanere noi stessi. Il lavoro dell’insegnante non andrebbe coniugato alla prima persona singolare: essere gruppo, piccolo gruppo (tre, quattro persone), non solo potenzia ciò che facciamo e ci porta a farlo meglio, perfino con più soddisfazione, ma cambia la qualità di ciò che facciamo. Se non avessi lavorato insieme a Tiziana, Luca e Enrico, per esempio, io non farei scuola come la faccio. E forse non sarei come sono.

Eros paedagogicus

Ma allora, che cos’è una lezione? come si deve stare a scuola? che cosa succede in concreto in aula tra l’adulto e i giovani che gli stanno davanti? Il maestro ha anzitutto una cattedra. Quando ho cominciato a insegnare in una scuola non statale, la cattedra stava sopra una pedana. A me questo dava istintivamente fastidio. Col tempo però ho in parte modificato questa percezione. A parte che in cattedra sto ben poco, dato che di solito giro tra i banchi o comunque sto in piedi davanti alla cattedra (ma se ci sto è bene che tutti mi vedano). Oggi penso che è importante segnare anche simbolicamente il lavoro che si sta facendo. È da molti anni, perciò, che quando entro faccio alzare tutti in piedi, specialmente in biennio. Come i prof di una volta… (ma ci sono tanti colleghi che lo fanno ancora). E poi dopo qualche settimana in genere spiego anche il perché, non subito. Mi interessa sì e no il rispetto. C’è un rispetto sostanziale che va oltre i gesti formali. Scrive don Milani, e sottoscrivo: «Mi sono preoccupato di farli sinceri, e invece mi sono venuti maleducati» (Lettere di don Lorenzo Milani, priore di Barbiana, Mondadori 1993, p. 102). Mi interessa che comprendano attraverso un gesto anche rituale, una specie di cerimonia, che da quel momento si comincia a lavorare insieme. Mi piace immaginare che tale lavoro sia come quello del direttore d’orchestra che quando entra fa alzare tutti e poi li fa sedere e, nella massima concentrazione, dà il segno (in-segna) con cui comincia una sin-fonia che ti incanta. Certo, senza prof è difficile fare scuola. Ma anche senza allievi. Non basta che stiano seduti, non basta che stiano al loro posto, presumibilmente seduti. Bisogna che facciano mente locale: da questo momento si lavora insieme. Non sopporto i colleghi che fanno lezione ai primi sei studenti seduti ai primi banchi, né quelli che puntano l’angolino in alto a destra per fare il loro monologo. Hanno tirato i remi in barca, non hanno più voglia di combattere. Ma quella non è scuola, senza la voglia, nostra e loro (se non ce l’hanno devo far di tutto per fargliela sperimentare) di fare qualcosa di bello e buono insieme. Il prof è un attore, anche, ma la quarta parete è aperta e quel che succede tra il pubblico non è indifferente. Perciò quel che ne viene fuori è qualcosa di più, e di diverso, da quello che il prof sapeva già partendo la mattina da casa. Qualcosa di atteso e di imprevisto allo stesso tempo.

Perfino un filologo serio, e insospettabile, come Gianfranco Contini a proposito di quel che succede in classe parla di eros paedagogicus: «Non so quanto ho imparato dai miei allievi direttamente. Ma dall’insegnamento tutto. Non sapevo niente prima di insegnare, ma avevo un furore pedagogico … E veramente feci le lezioni a quel liceo con entusiasmo; con un entusiasmo che trovava una corrispondenza negli ascoltatori» (Diligenza e voluttà. Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini, Mondadori 1999, p. 141).

Sul sito di Alessandro D’Avenia (www.profduepuntozero.it), un insegnante-scrittore che riflette in pubblico sul suo modo di fare scuola, ma soprattutto di essere insegnante, ho trovato questa citazione:

«Non sarebbe fuori luogo definire la lezione ideale una sorta di colloquio, di conversazione tra persone spiritualmente prossime. La lezione non è un tragitto su un tram che ti trascina avanti inesorabilmente su binari fissi e ti porta alla meta per la via più breve, ma è una passeggiata a piedi, una gita, sia pure con un punto finale ben preciso, o meglio, su un cammino che ha una direzione generale ben precisa, senza avere l’unica esigenza dichiarata di arrivare fin lì, e di farlo per una strada precisa. Per chi passeggia è importante camminare e non solo arrivare; chi passeggia procede tranquillo senza affrettare il passo. Se gli interessa una pietra, un albero o una farfalla, si ferma per guardarli più da vicino, con più attenzione. A volte si guarda indietro ammirando il paesaggio oppure (capita anche questo!) ritorna sui suoi passi, ricordando di non aver osservato per bene qualcosa di istruttivo» (Pavel Aleksandrovi? Florenskij, Lezione e lectio, 1917).

E si sa: non bisogna parlare col guidatore! Il problema potrebbe essere: e se le persone che ci troviamo in classe non sono «prossime», come dice Florenskij? e se fermandomi a raccogliere tutti i sassolini per la strada, non arrivo alla meta? Non ho risposte soddisfacenti per «insegnare a chi non vuole imparare» (come dice il titolo di un libro di Giuseppe Bagni e Rosalba Conserva, Ega 2005), e ho incontrato molte persone poco «prossime». Ma tra passeggiate e binari del tram scelgo comunque le prime, anche perché camminare in montagna mi è sempre piaciuto.

Gli antichi dicevano che la bontà di una vita si giudica dalla fine. Anche quella di un prof. Il direttore de «La Stampa», Mario Calabresi, ha pubblicato nella sua rubrica di lettere quella di una sua compagna di liceo, Carla, per ricordare un suo professore «non immune da vizi e abbastanza irascibile» appena mancato («La Stampa» 10/1/2012):

 

«Lo ricordo con affetto come un professore forse imperfetto e poco ligio alle regole (quante libere uscite e ritardi sull’inizio delle lezioni per colpa di un cicchetto al bar, o una sigaretta fumata nei corridoi!) e per questo ancora più caro ai suoi allievi ed ex allievi, ma anche come un valido insegnante, che possedeva il gran pregio di trasmettere la sua stessa passione per la materia. Con lui studiavi volentieri perché sapeva farti divertire; potevi dottamente chiacchierare sulla questione omerica e il trimetro trocaico catalettico e cinque minuti dopo ti ritrovavi a discutere animatamente di calcio; era serio, competente e giustamente puntiglioso durante compiti in classe e interrogazioni, ma non infieriva mai, e quando, ahimè, capitava il votaccio offriva sempre un’occasione per redimersi. Sapeva farsi ben volere per la sua umanità e per la sua schiettezza: mi chiamava “Lauretta”, e mi affidava le chiavi del cassetto dove il mercoledì prima della versione nascondeva la fotocopia del brano scelto… incarico e fiducia, devo ammetterlo, abbastanza mal riposti, perché più di una volta siamo andati a sbirciare per poterci preparare per tempo, temendo un Seneca o un Demostene. Credo, però, che lui sospettasse qualcosa, e lasciasse un po’ correre (anche se di rado il voto di una versione, per quanto perfetta, superava il sette) perché in fondo si sentiva ancora un giovanotto di 18 anni: mentre gli altri professori erano spesso vittime inconsapevoli, e forse un po’ immeritate, dei nostri scherzi e delle nostre prese in giro, il Falco non veniva mai preso di mira perché era uno di noi, complice e amico».

Un prof imperfetto che lascia il segno, in-segna. (Anche se sul far copiare la traduzione non sono d’accordo!) Calabresi aggiunge che il sogno del suo professore sarebbe stato di comprarsi un appartamento a Parigi dove ritirarsi per la pensione, ma avrebbe dovuto fare un altro lavoro per permetterselo. Dato il numero di ex allievi che c’era al suo funerale, non se ne deve essere pentito.

L’acqua e la sete

I maestri che mi hanno affascinato quando ero allievo, mi affascinano ancora adesso: la maestra che ci portava piccini a sentire i concerti all’Auditorium col tram in terza elementare, il mio professore delle medie che scriveva libri e con cui sono in contatto ancora oggi, come se fosse un secondo “padre”, il professore con cui mi sono laureato che mi ha controllato e riscritto ogni frase della tesi. Ma anche don Milani, che è stato il primo amore, ora tacciato di essere uno dei «cattivi maestri» che hanno rovinato la scuola (cfr. Paola Mastrocola, Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, Guanda 2011). Sono stati loro a indurmi a fare un lavoro bello ma scarsamente prestigioso, specie per un uomo. Non a parole, ma col loro modo di essere. Il mio modo di essere insegnante ed educatore resta quello che ho trovato in queste parole di Danilo Dolci:

C’è chi insegna

guidando gli altri come cavalli

passo per passo:

forse c’è chi si sente soddisfatto

così guidato.

C’è chi insegna lodando

quanto trova di buono e divertendo:

c’è pure chi si sente soddisfatto

essendo incoraggiato.

C’è pure chi educa, senza nascondere

l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni

sviluppo ma cercando

d’essere franco all’altro come a sé,

sognando gli altri come ora non sono:

ciascuno cresce solo se sognato.

(da Poema umano, Einaudi 1974, p. 105)

 

O, più sinteticamente:

Ognuno è acqua

ognuno è sete.

(da Creatura di creature, Corbo 1983, p. 84)

Sognare, essere sete: ho avuto la fortuna di avere insegnanti assetati e sognatori (ma anche altri, che mi hanno fatto fare pensieri che qui ometto…). Come Bruno Cirino, protagonista di Diario di un maestro di Cesare de Seta, il più bel film sulla scuola, in cui interpreta un maestro che porta la sua sete di autenticità ai ragazzi della periferia romana. E acqua e sete non stanno solo dalla parte dell’adulto. Perciò è vero quel che diceva Paulo Freire: «Nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo, gli uomini si educano insieme, con la mediazione del mondo». Anche la sete degli allievi è contagiosa. Difficile a volte decifrarla sotto l’apparenza di una strabiliante sazietà.

Vedo (molti) miei allievi vivere in un presente assoluto. Il loro mondo comincia, e spesso finisce, attorno al loro ombelico. Il mondo di fuori non esiste. Per questo possiamo ancora sperare qualcosa di buono dal fare scuola solo a patto di restituire il futuro ai giovani. Essi infatti «da sempre amano e odiano il tempo che hanno davanti, perché non sanno cosa gli riserva, né cosa potranno fare o essere. Ma ora la perdita di contatto con la rappresentazione dell’avvenire è disperante. Alla faticosa ricerca di una loro verità rispetto alle identificazioni infantili, i ragazzi sentono di avere davanti un ostacolo insormontabile che sbarra la strada della crescita. Si dedicano allora al culto dell’eterno presente, dichiarando in coro che l’adolescenza è la stagione più bella della vita e la cosa migliore da fare è rimanervi il più possibile» (Gustavo Pietropolli Charmet, Il futuro restituito ai nostri ragazzi in «La Repubblica» 24 marzo 2012). Siamo dentro una crisi epocale in cui noi adulti parliamo poco di futuro, e se lo facciamo è in senso negativo. Laudatores temporis acti. Ma venendo al dunque, alla scuola: se le cose stanno così, come posso convincere un allievo a passare il pomeriggio di sole, come questo in cui sto scrivendo, a studiare Petrarca o l’ablativo assoluto? Solo chi sa proiettare in avanti i propri desideri, fare un pro-getto, può rinunciare a una soddisfazione immediata a vantaggio di qualcosa av-venire. «Sapesse a quante cose ho dovuto rinunciare», mi ha detto un allievo che ha preso 100 alla maturità ed è tutt’altro che gobbo e impacciato. E ora fa il Politecnico, con ritmi di studio, in qualche semestre, quasi monastici. Ma perché lui sì, e molti, troppi altri, no?

Gli adulti «competenti» (si fa per dire) ? genitori e insegnanti ? dovrebbero smetterla di fare le Cassandre. Gli scenari catastrofici trasmettono il messaggio intollerabile per gli adolescenti che ormai non c’è più posto per loro… «Tocca proprio ai più giovani assumersi il compito di salvare non solo l’economia disastrata, ma l’intero pianeta, e scoprire quale sia il livello di sviluppo compatibile. Per i ragazzi non ci potrebbe essere un futuro più interessante e avventuroso. Perché in realtà non solo il futuro esiste, ma è proprio il loro tempo» (Pietropolli Charmet). Ci vuole un bel coraggio ad affidare ai giovani il loro (e nostro, di tutti) futuro. Ma non c’è altra via d’uscita che convincere i giovani che si può dar vita a una nuova generazione. Please, don’t mind the gap. E per poterlo fare ? e non ridursi a un comportamento simbolico ? dovremmo essere in tanti.

Già pubblicato in “Itinerari” nel numero di aprile-giugno 2012

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