La fede nel piatto. Saperi e sapori del cibo dei poveri – Recensione di Cinzia Picchioni

Paola Bizzarri-Davide Pelanda, La fede nel piatto. Saperi e sapori del cibo dei poveri, Paoline, Milano 2008, pp. 152, € 11,00

Il libro parte dal presupposto che tutti mangiano, e che tutti hanno bisogno di mangiare; e sostiene che proprio a partire da quel bisogno primario, che è di tutti, «è possibile promuovere un dialogo interreligioso proficuo» (p. 15).
Scopriremo antichi nutrimenti dai nomi bizzarri, realizzeremo che a mangiare «poveramente» sono proprio quelle popolazioni che coltivano, allevano, raccolgono faticando i cibi per noi dei Paesi «ricchi» (non certo di cultura alimentare, che si sta «fastfooddizzando» e McDonald impazza qui da noi, uniformando anche il nostro gusto). Sfogliando le pagine del libro potremo riflettere sul fatto che «il cibo dei poveri può diventare veicolo di un rinnovato dialogo tra Nord e Sud del mondo. Schiudendo le ante delle cucine più dimesse, si può far luce sulle prossime sfide da superare e comprendere che al cibo povero si legano questioni di scottante attualità quali l’emergenza idrica, l’accesso alle riserve terrestri e marine, le riforme grarie, i brevetti sulle sementi ed eque politiche commerciali» (p. 76, dove si parla anche di Terra Madre e delle iniziative partite proprio da Torino).
«Con il presente saggio si cercherà di fornire dati e curiosità […]`su determinati alimenti ritenuti più rappresentativi del cibo povero. Il lettore entrerà in contatto con una pluralità dui cucine: etiope, sudanese, indiana, peruvina, boliviana, messicana e… italiana (per) ricostruirne alcuni tratti comuni» (p. 89).

Cibo povero, che vuol dire?
«Mutuando l’espressione del Nobel per l’economia, il bengalese Amartya Sen, per cibo povero intendiamo il risultato alimentare del non avere abbastanza da mangiare, non il risultato del non
esserci abbastanza da mangiare» (p. 79). Sostenere che esista un «cibo povero» vuol dire anche capire profondamente che «per un banchiere di Wall Street o Zurigo, un sacco di riso è una merce come un’altra, per l’affamato, al contrario, costituisce una questione di vita o di morte» (p. 80).
Di certo la lettura di questo libro, la conoscenza di curiosità divertenti sui cibi di tutto il mondo, i nomi bellissimi e bizzarri di piante, pietanze, frutti che incontriamo fra le sue pagine rimettono il cibo al suo posto, quello che gli spetta, il primo e assoluto. Non c’è niente di più importante del cibo, ma ce lo siamo dimenticato. Così come ci siamo dimenticati che il mestiere più importante è quello del contadino, e tutti gli altri ne derivano, pensiamoci, quando compiamo le nostre scelte quotidiane (perché siamo disposti a pagare tantissimo per un nuovo telefono cellulare e ci lamentiamo del costo dell’insalata? Quello è superfluo, questa è essenziale, dovrebbe essere il contrario, dovremmo essere disposti a pagare di più per il cibo che mangiamo e non accettare di pagare tanto per un pezzo di plastica a batterie! Che ci è successo? Come dice Carlin Petrini: «Non mangeremo mica computer».
Eh sì! Altri valori… per esempio il tempo:
molto carina la riflessione su questo, e anche sul fatto che non è il caso di farsi venire una crisi isterica se gli spaghetti non sono «al dente»: «La cucina povera è lenta, rispettosa dei percorsi naturali dei prodotti, umile di fronte alle lunghe attese per la crescita di un frutto […] Altri fattori determinano la lentezza della cucina povera. Qui la precisa cottura dei cibi non svolge un ruolo determinante. Non succede nulla se l’eccessiva lessatura del riso lo avrà reso poltiglia […]» (pp. 90-1)

Semi e «seeds savers»
«Seme per seme, pianta per pianta, contadino per contadino, comunità per comunità, paese per paese, riacquisteremo la nostra libertà alimentare»; queste parole di Vadana Shiva introducono il paragrafo sui semi e i distruttivi brevetti imposti dalle multinazionali (p. 84); è bene citare anche Navdanya, l’iniziativa nata sempre grazie a Vandana Shiva: il nome rimanda a «nove semi», e ne abbiamo scritto anche in una «newsletter», se volete saperne di più (p. 110).
Fa ben sperare la costituzione, durante Terra Madre del 2006 del «Manifesto sul futuro dei semi» e mi sembra carino citare che qui, da noi in Italia, Giannozzo Pucci fece nascere, molti anni fa, con lungimirante intuizone, la «Fierucola dei semi», durante la quale i contadini potevano barattare, vendere e comprare le sementi più rare (o anche quelle più comuni), scambiandosi i saperi sul comportamento dei semi e delle diverse terre… una delle più belle cose che io abbia visto: a irenze, si andava all’origine di tutto ed era disponibile per tutti; per chi voglia approfondire: www.civiltacontadina.it

L’ebraismo
Per gli ebrei le severe regole alimentari sono un mezzo per portare il sacro nel quotidiano, e la tavola è considerata un altare. Per gli ebrei «Dio creò l’uomo vegetariano. La carne entra nella dieta umana solo dopo il diluvio universale, con la figura di Noè» (p. 17). Gli brei dimostrano anche di conoscere le regole delle buone combinazioni alimentari (per esempio di non mescolare proteine diverse nello stesso pasto) e difatti «Per tre volte la Torah ripete il versetto: “Non cucinarel’agnello nel latte della madre». Una volta l’esortyazione è per non cucinare, una volta per non mangare, una volta per non mischiare. Per l’ebreo osservante vi è dunque l’assoluto diveito di mescolare carne e latticini nello stesso pasto e nello stesso piatto» (p. 20) ma «Amche i latticini e i formaggi devono essere (…) idonei al consumo» e l’ebreo osservante deve accertarsi che «siano prodotti da caglio vegetale o proveniente da animale macellato secndo le regole (…)» (p. 21).

Il cristianesimo. Carne o non carne?
«”Il cristanesimo, come si sa, considera tutti i cibi come dono di Dio”, sottolineando che esso “non proibisce la carne”. Questo però non vuol dire “trarre la legittimazione della batteria e del mattatoio.
All’attuale consumo della carne si muovono fondate obiezioni che evidenziano l’uso isensato degli anmali e il danno ambientale. Se tutti mangiassero carne quanto noi occidentali – è stato detto da pù parti – non basterebbe questo pianeta per allevare il bestiame» (Lorenzetti, p. 25).

Altri spunti di riflessione sulla scelta vegetariana si trovano poche pagine più in là, come se il dibattito fosse ancora aperto (e lo è) sulle prescrizioni della Bibbia riguardo la scelta di cibarsi o meno di animali. «Sembrerebbe che la concessione del mangire carne sia un fatto negativo, un allontanamento da quel paradiso terrestre dove Adamo ed Eva vivevano in una condizione privilegiata (…)» (p. 27).
Per una riflessione su «cristianesimo e vegetarianesimo» non perdetevi la «Conclusione», a p. 143, in cui è citato San Francesco, Gesù «il liberatore di tutte le creature», un episodio in cui un non-vegetariano fu invitato a una cena vegetariana e fu servito con una colomba viva e un coltello (divenne vegetariano…), e in cui c’è una nota bibliografica interessante: E. Drewermann, Sulla immortalità degli animali, Neri Pozza, Venezia 1997.
L’intera «Appendice» (pp. 131-47) è dedicata al tema «Il cristianesimo e il vegetarianesimo», segno che il dibattito è aperto e scottante: che cosa dicevano i Padri, che cosa si è detto ai Concili, che cosa diceva Francesco d’Assisi e che si dice nella Chiesa odierna

L’Islam
Alcol no
Maometto rifiutò la coppa di vino che un angelo gli offrì, preferendo quella di latte: «I risultati dell’uso del vino dimostrarono la parte debole dei popoli e ciò spiega il motivo della sua proibizione» (p. 38)
Sobrietà sì
«”Il cibo di due è sufficiente per tre e il cbo per tre è sufficiente per quattro”; questo detto del profeta Maometto fa ben capire il profondo senso di ospitalità delle popolazioni musulmane» (p. 38).
Ho scoperto il profondo significato della bellissima tradizione del «partire dai bordi»: l’abitudine di mangiare tutti da un unico grande piatto, portando il cibo alla bocca con la mano destra e partendo dal bordo convergendo tutti insieme verso il centro, per un «avvicinamento ordinato e progressivo all’unità, da ciò che ci è più prossimo a ciò che ci appare più lontano, muovendoci verso la centralità della grazia, verso l’influenza spirituale, verso la baraka, che discende dall’alto (…)» (p. 40).

Il buddhismo
Anche nel mangiare, guidati da «metta» (dall’indi, letteralmente «amiciza»), i buddhisti si comportano secondo precisi codici, recitati come preghiere: «Osservo il precetto di non uccidere nessun essre vivente» o «Osservo il precetto di non mangiare cibi fuori stagione» o il più generale precetto di non essere mai causa di dolore per nessun essere vivente. Ed ecco quindi le cinque gravi colpe segnalate dal Buddha in chi toglie la vita agli animali; chi sia in cerca di motivazioni per la propria scelta vegetariana legga attentamente a pagina 42.

L’hinduismo
Anche il cibo è un mezzo per elevarsi spiritualmente, perciò ci sono cibi classificati utili allo scopo e altri dannosi, e i divieti si estendono anche all’uccisione di animali per meri scopi alimentari. Generalmente le caste più nobili non consumano carne né pesce, la carne – ad eccezione dei bovini – è consumata dalle caste basse (proprio il contrario che da noi quando, nel dopoguerra, solo i ricchi potevano permettersi di mangiare carne). Chi intraprende un cammino spirituale incontra alcune regole, quali la nonviolenza e la castità; gli studenti di testi classici che vogliono mantenere la castità sono vegetariani «perché si pensa che la carne e i dolci (come il miele) siano degli eccitanti e quindi non giovino alla continenza» (p. 49).

Il digiuno
Non poteva mancare un intero capitolo sulla pratica del digiuno (il titolo del libro è eloquente. Si parla di «fede nel piatto», cioè degli aspetti anche religiosi dell’alimentazione). Ecco allora le spiegazioni di alcuni studiosi: «L’io, in assenza delle sensazioni legate al cibo, (…) si indebolisce, attenua il suo controllo psichico e permette l’affiorare più intenso di realtà profonde; (…) si può volgere il conflitto verso l’evoluzione psichica e spirituale (…)» (p. 55). Anche l’Islam attribuisce al digiuno un significato spirituale, spiegato in 12 precise ed efficaci spiegazioni sugli effetti che il digiuno può avere sul comportamento dell’uomo; per esempio il digiuno «è un’efficace lezione di moderazione e di volontà. La persona che osserva dovutamente il digiuno è certamente un essere che può disciplinare i propri desideri irrazionali e mettere il proprio sé al di sopra delle tentazioni fisiche. Un uomo siffatto è uomo di personalità e di carattere, uomo di vollontà e determiinazione» (pp. 61-2)

Una ragione in più per non mangiare i gamberetti…
è spiegata alle pp. 126-9, con storie di pesci, mangrovie e minacce all’alimentazione povera.

Ranonapango?
È uno dei divertenti nomi di cibi e preparazioni che incontrerete e conoscerete leggendo le pagine (e provando le ricette) di questo libro. Fra i molti nomi: draniki, garam masala (quasi ogni famiglia ha il suo, segretissimo!), niébé (fagiolo del Sahel, arma contro la desertificazione. Studi olandesi rilevano che il fagiolo è un utile strumento anche per fornire proteine senza inquinare e impoverire tutto il pianeta: per produrre un chilo di manzo occorrono 15m3 d’acqua, contro i circa 2 per la stessa quantità di fagioli. «Nell’opulento mondo occidentale cibarsi di legumi al posto della carne si traduce in un vantaggio per l’intero ecosistema» (p. 117).

Cibo per la pace
«Food for Peace», oltre che la traduzione del titolo qui sopra, è il nome di un’inizitiva nata con Slow Food nell’àmbito di Torino Spiritualità, l’ormai famosa rassegna che si svolge a Torino in settembre. Perché la risposta alla domanda: «la difficile ricerca della pace può passare attraverso il cibo?» è «sì: costruire un “menù per la pace” oggi si può. Anzi, impegnarsi in questa direzione è un dovere» (p. 67, dove comincia un intero capitolo, fino a p. 72, dedicato all’argomento); ci sono anche i «cuochi per la pace», 25 grandi chefs di diverse nazionalità che cucinano insieme creando anche nuovi piatti multietnici (p. 69). E poi ancora è citata «Terra Madre», altra famosa rassegna torinese (ma che? Succede tutto a Torino?), e «Make food not war», per spiegare come «L’impatto dei conflitti sulla produzione alimentare è nefasto. Le popolazioni migrano, le mine uccidono e rendono incoltivabile il terreno» (p. 71), e poi citazioni di articoli de «La Stampa», da cercare in biblioteca.

In fondo
E come non notare che in fondo, prima della piccola Biblio-sitografia, si ringraziano, fra gli altri, due amiche del Sereno Regis – Elsa Bianco e Pinuccia Caracchi – che hanno evidentemente aiutato gli autori nella stesura del libro?

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