Riflessioni su “Dio è violent…”

Angela Dogliotti

Ho letto quest’estate il pamphlet di Luisa Muraro, Dio è violent, pubblicato a maggio per i tipi di nottetempo, ma già precedentemente uscito come articolo sul centesimo numero di via Dogana, storica rivista della Libreria delle donne di Milano.

La presentazione era accattivante ed il testo aveva suscitato già un ampio dibattito e stimolato riflessioni e prese di posizione diverse.

La questione che in questa sede mi interessa prendere in considerazione è quella che costituisce il cuore centrale delle argomentazioni della Muraro: il problema della violenza e in particolare il dilemma tra uso della violenza e rinuncia alla propria forza, fino all’apertura all’uso di una “forza”che sia adeguata alla violenza presente nelle cose e nei rapporti tra le persone nel contesto odierno.

Ho trovato profonde alcune intuizioni, come quella che vede nella violenza non tanto un mezzo quanto piuttosto “il manifestarsi di una potenza che gli umani non governano”

Pensare la violenza come semplice mezzo a nostra disposizione, che possiamo decidere razionalmente di usare o meno, mi sembra infatti una presunzione troppo semplicistica e, purtroppo, poco rispettosa della realtà

Gandhi stesso, a questo proposito scrive:

“A rigor di termini, nessuna attività e nessuna occupazione umana è possibile senza un certo grado, per quanto limitato, di violenza. La stessa vita è impossibile senza un certo grado di violenza. Ciò che dobbiamo fare è limitare questa violenza quanto più è possibile1

La violenza, dunque, è una potenza che ci sovrasta, non un mezzo che possiamo agevolmente controllare. Nessuna illusione da anime belle, perciò, ma la consapevolezza della presenza a volte pervasiva, oscura e complessa della violenza nella nostra realtà di esseri umani limitati e finiti.

Se così è, ne deriva però una conseguenza che va in una direzione diversa da quella prospettata da Muraro: ciò che difficilmente riesco a controllare, ciò che ha forme e dinamiche proprie è una potenza dalla quale guardarsi attentamente, alla quale cercare di sottrarsi, proprio perché rischia di travolgerci, di de-umanizzarci, di farci simili ai modelli che vogliamo combattere.

Ecco, una riflessione sulle dinamiche della violenza non mi pare ci sia nel testo, se non forse per qualche fugace cenno. E’, invece, una questione cruciale, se si vuole davvero interrompere la catena della violenza, separare combattività da distruttività e non, viceversa, aggiungere violenza a violenza. E’ esperienza di tutti, infatti, quanto sia difficile separare la violenza dai sentimenti negativi, difficile distruggere senza odiare; e purtroppo, come scrive Etty Hillesum,

ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancor più inospitale”…2

Quando Muraro contesta la “predicazione antiviolenza” mi chiedo allora a quale cultura si riferisce.

Se è quella prevalente nei mass-media mainstream che spesso bollano come “violento” ogni atto di opposizione che non rispecchi strettamente le modalità codificate e previste all’interno dell’ordine costituito, siamo d’accordo.

Ma se si riferisce anche alla cultura della nonviolenza (e il riferimento a M.L.King lo farebbe supporre) mi pare che ci sia un fraintendimento evidente, dal momento che non si può certo sostenere che, in questo ambito, la rinuncia alla violenza si traduca in rinuncia alla propria forza.

La cultura della nonviolenza, infatti, da un lato punta a contenere la violenza (a-himsa), perché ne riconosce natura, forme e dinamiche distruttive, dall’altro è volta a mobilitare proprio quelle energie positive e vitali che alimentano la combattività (satyagraha, forza dell’amore, fermezza nella verità…)

Se è vero che il confine tra violenza e forza è talvolta labile, mi pare tuttavia indispensabile tenere distinti questi due concetti, proprio per evitare il rischio di chiamare “violenza” tutto ciò che non rientra nei comportamenti e nelle prassi abituali.

Per questo è utile anche l’analisi delle diverse forme di violenza, diretta, strutturale , culturale, e dei soggetti che la agiscono (violenza di chi opprime, violenza di chi si ribella, violenza della repressione), che la ricerca per la pace ha messo in luce nel tentativo di districare un po’ questa matassa ingarbugliata.

Anche l’esempio di Srebrenica, che certamente viene subito in mente quando si analizzano questi problemi, non mi pare pertinente. E’ vero che lì si è perpetrato un vergognoso massacro sotto gli occhi imbelli di chi avrebbe dovuto proteggere quelle popolazioni, ma ciò è avvenuto proprio perché il sistema creato a livello internazionale per questo scopo non funziona. Perché si chiamano “polizia internazionale” operazioni di guerra e non si creano veri corpi di pace, sia disarmati, sia armati (come lo è la polizia di una stato, che dovrebbe usare le armi per proteggere gli inermi dai soprusi dei violenti), che possano intervenire con le competenze necessarie nei conflitti, per contenere le violenze, proteggere i civili, ricostruire il tessuto umano e sociale lacerato dalle distruzioni.

Illuminanti queste parole, ancora di Gandhi:

La pratica della nonviolenza richiede molto più coraggio della pratica delle armi. La codardia è assolutamente incompatibile con la nonviolenza. Il passaggio dalla pratica delle armi alla nonviolenza è possibile, e a volte perfino facile.3La nonviolenza dunque presuppone la capacità di colpire. Essa è un cosciente e volontario freno imposto alla propria volontà di vendetta. Ma la vendetta è sempre superiore alla passiva, imbelle e impotente sottomissione. Il perdono però è ancora superiore. Anche la vendetta è sintomo di debolezza. Il desiderio di vendetta deriva dalla paura dell’offesa, immaginaria o reale. Un cane abbaia e morde quando ha paura. Un uomo che non teme nessuno al mondo giudica inutile perfino adirarsi contro chi cerca invano di arrecargli offesa. Il sole non si vendica dei bambini che gli gettano contro la polvere. Essi in realtà non fanno che arrecar danni a se stessi”.4

Combattere senza odiare forse dunque si può, e vale anche oggi, in tante parti del mondo, come emerge dalle ricerche sulle rivoluzioni nonviolente e dagli studi sulle forme di resistenza civile che da alcuni anni sono entrati anche nella nostra storiografia grazie ai lavori di studiosi come Anna Bravo, che così contesta la posizione di Muraro in una intervista di Simonetta Fiori:

“…Spostarsi su questo livello di scontro, questo sì mi sembra un passo in sintonia con lo stato di cose esistente: voi usate la vostra forza? Noi siamo in grado di tenervi testa con la nostra. Mentre la potenza dell’oppositore nonviolento sta proprio nel sottrarsi a questo meccanismo, che ha portato tanti movimenti alla sconfitta. Tra le lotte violente e nonviolente, finora sono state le seconde a aver avuto il maggior numero di successi…”5

E che in queste lotte ci siano molte donne, che in esse le donne siano spesso protagoniste anche di primo piano dice che forse anche nell’ordine simbolico qualcosa sta cambiando….

Stiamo recuperando, faticosamente e tra mille contraddizioni, le radici della vecchia Europa scoperte da Marija Gimbutas, radici che, fecondate dall’incontro con altre culture ci ripropongono in termini nuovi un immaginario fondato sul linguaggio della dea anziché su quello del guerriero?


Note

1 M.K.Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1973, pag.77

2 Etty Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, pag.212

3 Un esempio: i “Combattenti per la pace”, gruppo misto di Palestinesi e Israeliani che hanno un passato di azioni armate e che oggi aderiscono convintamente ad una prassi nonviolenta

4 Gandhi, op.cit., pag.23-24

5 Dall’intervista di Simonetta Fiori ad Anna Bravo, pubblicata a stralci su La Repubblica, nell’articolo La femminista e la violenza. Muraro: quando possiamo dire sì all’uso della forza, 3 marzo 2012


Luisa Muraro, Dio è violent, nottetempo, Roma 2012

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