Il dubbio e la fiducia. Il carteggio Bobbio-Capitini – Massimiliano Fortuna
La pubblicazione dell’Epistolario di Aldo Capitini presso le Edizioni Carocci è giunta alla sua quinta tappa; dopo i carteggi con Walter Binni, Danilo Dolci, Guido Calogero e Edmondo Marcucci tocca ora all’atteso scambio di lettere con Norberto Bobbio.
Pietro Polito, a cui la cura di questo libro è stata affidata, può vantare una lunga e appassionata frequentazione di entrambi gli autori, su Capitini ha scritto un libro: L’eresia di Aldo Capitini; con Bobbio, oltre a uno studio sistematico dell’opera, s’è aggiunta anche una frequentazione personale nel ruolo di maestro e allievo. Il frutto di tutto questo è oggi una conoscenza capillare delle carte che riguardano Bobbio e Capitini, che nel carteggio in oggetto si è tradotta in un’introduzione e in un apparato di note che ci aiutano a comprendere con precisione l’intreccio storico-biografico e la cornice culturale e intellettuale entro la quale questo scambio di lettere è collocato.
Sia Bobbio che Capitini sono stati assidui scrittori di lettere e possiamo probabilmente dire che esse, costituiscono una sorta di “aggiunta”, per usare una parola capitiniana, non marginale ai loro saggi maggiori: note che integrano il loro pensiero e ne illuminano alcune sfumature. Ne danno testimonianza per Capitini i cinque volumi citati sopra, per Bobbio questo carteggio e quelli, apparsi di recente, con Enrico Peyretti (Dialoghi con Norberto Bobbio, Claudiana 2011) e Eugenio Garin (Della stessa leva, Aragno 2011).
Lo stile di scrittura di Bobbio e Capitini non è identico, quello del primo è più analitico, procede per distinzioni, per precisazioni terminologiche, l’altro lo si potrebbe definire più poetico, più accalorato. È bene tuttavia non estremizzare troppo questa polarità, nel senso che Capitini non è esente dal rigore e dalla precisione e la parola di Bobbio non pecca certamente per freddezza, tutt’altro, anzi brucia, al suo fondo, di passione politica e civile. Per quanto riguarda Capitini – che va senza dubbio ritenuto il pensatore italiano per antonomasia della nonviolenza – si può forse dire che in lui la nonviolenza prima che un contenuto, o dei contenuti, va considerata proprio una pratica linguistica, vale a dire un modo di parlare e di confrontarsi. La parola di Capitini appare intrinsecamente dialogica, i suoi libri danno spesso la sensazione di essere concepiti come un confronto aperto con il lettore: la nonviolenza comincia dal modo di esprimersi e la forma è già contenuto, il mezzo è gia il messaggio, o almeno una parte di esso. Leggere Capitini può già considerarsi, in un certo senso, un’esperienza di nonviolenza.
Queste lettere offrono diversi stimoli e possibili percorsi di lettura, in questo scritto ne vogliamo ripercorrere uno che prende spunto da alcune prese di distanze che Bobbio, ogni tanto, attua nei confronti di Capitini e del suo pensiero. Nel segnalare alcune differenze e divergenze Bobbio enuncia alcune parole chiave che vanno a costituire una sorta di ritratto minimale di Capitini e, per contrapposizione, di lui stesso.
Nella lettera del 23 novembre 1946 Bobbio scrive: “Io mi muovo su una linea diversa, tanto per intenderci, razionalistica e critica. Ma capisco – e ne ho avuto sempre gran beneficio – la tua posizione religiosa-umanistica”. In quella del 28 maggio 1948: “Questa della società aperta è una delle suggestioni più vive che mi provengono dal tuo pensiero […], mi piacerebbe approfondirlo su un piano diremo così sociologico (per dire non-metafisico)”. Il 14 agosto 1951: “Vedo che le nostre strade sono divergenti, tu sempre più verso l’ideale del filosofo-profeta, io sempre più verso l’ideale del filosofo positivo. […] Non credere che non ami più stare a colloquio coi profeti. Ma preferisco normalmente cose più terra terra, più solide […]. Mi pare d’altra parte che voi – religiosi – abbiate troncato troppo presto il vostro tirocinio nel mondo, e vi siate messi troppo presto a predicare”.
A proposito di “predicare”, Polito riporta nell’introduzione un documento davvero interessante, una scheda di lettura stilata da Bobbio per Einaudi relativa a un libro, Nuova società e riforma religiosa, che poi verrà pubblicato dalla casa editrice nel 1950. Il parere è complessivamente favorevole alla pubblicazione, ma rivela un giudizio (che poi Bobbio almeno in parte rivedrà) per certi aspetti severo nei confronti dei libri di Capitini, qui si dice infatti che: “gli altri libri di C. sono più o meno delle prediche (nobilissime, del resto), questo, oltre ad una predica, è anche un documento”.
Dunque in queste lettere e in questo parere editoriale Bobbio inquadra Capitini con il filtro di alcune utili parole chiave: predicatore, religioso, profeta, metafisico. La prima si può leggere in contrapposizione a uno “sfogo” di Bobbio datato 6 ottobre 1963, qui, lamentandosi dei molti inviti che da varie parti d’Italia gli provengono per tenere conferenze, scrive che non bisogna costringere “dei sedentari per vocazione come i professori a girare l’Italia come delle trottole”. Se questo – “sedentario per vocazione” – è il modo in cui Bobbio sceglie di descrivere se stesso, verrebbe da dire che la vocazione di Capitini era, al contrario, quella del non sedentario: la sua inclinazione si volgeva al movimento, percorrere strade per diffondere la parola della nonviolenza era la sua stella polare. In alcuni scritti autobiografici, come Antifascismo tra i giovani o Attraverso due terzi di secolo, si sofferma, con una sorta di soddisfazione, a ricordare la quantità di persone incontrate, soprattutto giovani, in giro per l’Italia.
Si potrebbe forse dire che, in un certo senso, Capitini vede se stesso nel ruolo dell’apostolo che si sente inviato a “convertire” gli altri alla cultura della pace, mentre Bobbio si concepisce soprattutto nelle vesti del professore che ha come compito primario quello di fornire gli strumenti intellettuali per la comprensione della società e della politica. Naturalmente anche questa distinzione non va estremizzata, dal momento che in Capitini certo non manca l’elaborazione intellettuale e il lavoro di concetto, e anche in Bobbio la conoscenza è finalizzata a rendere la società migliore, meno diseguale e più attenta alle esigenze degli “ultimi”. Forse, dovendo sintetizzare con una battuta, potremmo dire che Capitini mira ad “aprire i cuori” e Bobbio ad “aprire le menti”.
In ogni caso, sintesi estreme a parte, è ben percepibile un modo diverso di guardare alla realtà e al significato della pace. Nel senso che per Capitini la pace si direbbe passare anzitutto attraverso un’affermazione, vale a dire l’affermazione delle forze migliori e costruttive che sono nell’uomo, che si trovano già lì e che, in un certo senso, si tratta semplicemente di portare alla luce, appunto con la forza della predicazione, dell’esortazione e dell’esempio; mentre per Bobbio la pace passa innanzitutto attraverso una negazione, ovverosia un contenimento, un freno, al contrario, delle potenzialità umane più distruttive, e questo contenimento è frutto in primo luogo di una costruzione, di un’architettura istituzionale e costituzionale, che comporta un equilibrio di pesi e contrappesi, che bisogna saper creare e continuamente riaffermare e rafforzare. Di questa costruzione sembra a volte che Bobbio percepisca una sorta di fragilità intrinseca, sempre pericolosamente esposta a quell’istinto di distruzione che in qualsiasi momento può risvegliarsi nell’uomo come un fiume in piena e sovvertire l’ordine democratico e repubblicano, distruggendo tutto. Gli ultimi anni di Bobbio si direbbero attraversati dalla preoccupazione di vedere venire meno in Italia, sottoposta a progressiva erosione, questa rete di protezione culturale e sociale fondata su una determinata cultura costituzionale e giuridica.
Potrebbe essere lecito riferirsi a questi autori nei termini accademici di antropologia positiva o negativa, di pessimismo e ottimismo antropologico. Ma forse sarebbe bene cercare altre parole, quella che probabilmente più di altre si adatta a Capitini è “fiducia”, Bobbio stesso in queste lettere lo definisce uomo di “fiducia illuminata”. Fiducia, ma non meno speranza e entusiasmo; anche se tutto questo non va confuso con una sorta di ottimismo ingenuo e superficiale, dal momento che Capitini certamente non banalizza la presenza del male e della sofferenza nella storia e nella natura, anzi ne avverte per intero il peso e il tormento. Le parole che meglio si attagliano a inquadrare Bobbio potrebbero invece essere: cautela, dubbio, malinconia.
Per comprendere meglio dove poggino in Capitini questa fiducia e questa speranza può essere utile riprendere un’altra delle parole adoperate da Bobbio: “metafisico”. Anzi, forse per Capitini si potrebbe usare un termine ancora più specifico, vale a dire “escatologico”, che riguarda dunque le cose ultime, ta éskata, i destini estremi dell’uomo. Centrale, a questo riguardo, nel pensiero di Capitini è la dimensione della compresenza dei morti e dei viventi. Una trattazione dettagliata della compresenza richiederebbe ampio spazio, in questo luogo non è possibile che limitarsi a poche note, a partire dalla constatazione che le interpretazioni su cosa essa sia e come la si debba intendere sono molteplici e non sempre concordanti.
Alla base della compresenza sembra innanzitutto esserci un’idea sul significato della morte, su questa soprattutto vogliamo soffermarci. Partiamo ancora una volta da Bobbio, per dire che il suo modo di intendere la morte è trasparente e chiaramente espresso. Nel carteggio con Enrico Peyretti, ad esempio, sono presenti un paio di lettere nelle quali si dice senza ambiguità che la morte di un individuo coincide con la sua totale scomparsa, nessuna possibilità di “ritorno” o di sopravvivenza personale è data; se esiste in Bobbio un sopravvivere alla morte, questo si configura semplicemente come un essere vivi nel ricordo degli altri e nell’opera che si lascia. In queste lettere a Capitini, toccando il tema dello storicismo, esprime considerazioni analoghe: “lo storicismo, con la sua idea della storia come fiumana cui tutti i viventi hanno contribuito, è un modo per salvare e ricuperare il mondo dei morti: la storia presente, cioè la storia dei viventi, è il prodotto di tutta la storia precedente, ininterrottamente e globalmente; noi siamo quello che siamo perché dietro a noi ci sono tutti coloro che sono morti prima di noi” (lettera del 19 settembre 1966).
L’idea di Capitini invece, ma forse sarebbe appropriato adoperare il termine “fede”, è che la morte non sia l’annientamento totale di un individuo e la sopravvivenza non possa considerarsi unicamente un essere vivo nel ricordo altrui o nell’eredità della propria opera. Rispondendo a questa lettera di Bobbio lo sottolinea: “il punto di partenza è il rifiuto di accettare che il morto sia morto, e quindi la netta differenza con lo storicismo il quale mi dice: il morto è ben morto, anzi egli moriva ogni volta che ti dava la sua opera, la realizzazione di un valore che ti ha costituito come sei.” (lettera del 28 settembre 1966). Per Capitini gli uomini sembrerebbero invece attesi da una sorta di resurrezione, una resurrezione che peraltro non riguarderebbe solo gli esseri umani né, più in generale, solo gli esseri viventi, ma l’intero complesso della realtà e della natura in ogni loro, pur minima, manifestazione. La realtà liberata su cui Capitini insiste ripetutamente, e di cui si fa annunciatore e profeta (un’altra delle parole usate da Bobbio) si direbbe essere una realtà liberata non soltanto dalle ingiustizie sociali e dalla violenza politica, ma una realtà totalmente redenta e trasfigurata, affrancata anche dai vincoli della morte. Nella lettera appena citata Capitini sembra sostenerlo in modo quasi perentorio: “sorge l’apertura ad una realtà nuova o liberata in cui la natura come forza, come violenza, come durezza sia del tutto trasfigurata e resa perfettamente suddita della compresenza. Per esempio che l’acqua non copra indifferentemente il volto di un bambino e un sasso. Si tratta di non concepire il realizzarsi della natura così come è, compresa la morte, come una categoria immodificabile”.
Qualcuno si è domandato se per essere nonviolenti, e anche nonviolenti al modo di Capitini, sia indispensabile credere nella compresenza e in questa concezione escatologica della realtà, e se la sue idee nonviolente possano perdere di efficacia senza l’adesione a questa visione religiosa. La sensazione è che così non sia, che cioè la nonviolenza capitiniana mantenga per intero la sua validità e la sua forza anche se scissa dalla filosofia della compresenza, salvo non dimenticare che questa dimensione ha un ruolo di primo piano nel pensiero di Capitini e nella sua visione del mondo.
A. Capitini, N. Bobbio, Lettere 1937-1968, a cura di P. Polito, Carocci, Roma 2012, p. 139
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