Il mito diseducatore – Pietro Polito

Posso immaginare (non è così difficile) quale sarebbe il giudizio di Piero Gobetti sulla classe dirigente (?) di questo Paese. Quale sarebbe la sua reazione nel leggere le cronache politiche (?), in realtà mondane e prevalentemente giudiziarie della caduta del Sultano prima, del Capo padano poi.

Lo storico delle idee sa che l’idea centrale della rivoluzione liberale di Gobetti, di cui inopportunamente quanto arbitrariamente si sono appropriati tanto (il tragico) D’Alema quanto (il comico) Berlusconi, è la creazione di una nuova classe dirigente che sia espressione di un movimento di popolo e del lavoro critico di un gruppo di intellettuali radicali.

Del falso mito del Sultano non voglio più parlare. È stato un mito luccicante quanto deleterio a cui molti hanno creduto (abboccato) anche a sinistra. Un mito franato per la sua impotenza e impudenza, in cui Gobetti non avrebbe esitato a denunciare i tratti fondamentali dell’autobiografia della nazione.

Merita, invece, un ulteriore svolgimento il discorso sul mito padano agitato dalla Lega, a suo tempo definita una costola della sinistra dal dirigente che si crede il più acuto della sinistra.

Un quarto di secolo è un tempo sufficiente per “emettere” una sentenza storica in attesa di quella giudiziaria.

I campioni della classe dirigente leghista giganteggiano nelle prime pagine dei giornali nazionali e internazionali: il segretario – raggirato, il tesoriere – faccendiere, Rosy Mauro, il trota. Sbaglia chi pensa che gli ultimi tre siano una mela marcia, la merce avariata del loro creatore, ne sono invece la faccia reale, concreta, ne rappresentano la più perfetta incarnazione.

Pensiamoci su un momento. Che cosa è il partito – famiglia se non una delle affermazioni più conseguenti dell’ideologia di un partito territorialista? Lo slogan che è il motore dell’ideologia leghista è: “padroni a casa nostra”.

Nelle mani di Bossi e dei suoi, il federalismo (che era stato di Carlo Cattaneo, di Gaetano Salvemini, di Piero Gobetti, di Carlo Rosselli, di Silvio Trentin e così via) diventa un territorialismo padronale, predatore e predatorio, autarchico, aggressivo, ostile se non combattente verso ogni voce esterna, sordo a ogni solidarietà verso gli altri, i diversi, lo straniero. Sinceramente, non riesco a capire come si sia potuto vedere e si continui a vedere nei luogotenenti padani una nuova classe dirigente.

Come insegna Gobetti (come egli augurava al Paese una volta liberatosi dalla tirannide), una classe dirigente è tale se: 1) è, come si è detto, espressione di un movimento di popolo; 2) è portatrice di una cultura radicale, aperta, moderna, europea; 3) di una cultura che si esprime, si definisce e si autodefinisce attraverso una formula sintetica evocativa e capace di animare una passione libertaria e liberatrice (la rivoluzione liberale di Gobetti, la rivoluzione meridionale di Dorso, il potere di tutti di Capitini); 4) infine una classe dirigente è tale se è in grado di tradurre la propria formula in un programma minimo e in un programma massimo, vale a dire in un programma di provvedimenti concreti per risolvere i problemi concreti (organizzazione del lavoro, scuola, legislazione sociale, rapporto tra lo stato e i contribuenti ecc.) e in un programma di riforme per il rinnovamento politico, economico, etico della società italiana.

I tratti peculiari di una classe dirigente, dunque, sono: 1) il legame con il popolo; 2) l’elaborazione di una cultura nuova; 3) la proposta di una formula, di un mito fondativo; 4) la costruzione di un programma di provvedimenti e di riforme.

Nella trasfigurazione leghista le peculiarità della classe dirigente si presentano in questa forma: 1) il leghismo è l’ideologia del popolo padano; 2) la sua cultura è un “federalismo” autoctono e autosufficiente; 3) un federalismo che si riassume, l’ho già detto, nello slogan: “padroni a casa nostra” che tradotto volgarmente significa: “fuori dalle balle”; 4) il programma massimo è l’indipendenza della Padania, il programma minimo coincide con gli interessi dei Padani (e/o con quelli della famiglia del Capo e/o del cosiddetto “cerchio magico”).

Se questo è il leghismo (e questo è il leghismo), non vedo perché stracciarsi le vesti per il mito infranto.

In realtà, ora appare chiaro, i falsi barbari hanno alimentato per anni e fin troppo a lungo un falso mito, con la complicità di una classe politica e intellettuale compiacente e infingarda.

L’immagine del tesoriere – faccendiere che restituisce il bottino riportando nella sede del partito il tesoro della Lega (lingotti d’oro e diamanti) evoca il disfacimento di una banda non di una classe dirigente.

Postilla gobettiana

Volete sapere come Gobetti avrebbe giudicato il mito leghista?

Come uno dei tanti “miti diseducatori” creati dalla asfittica lotta politica in Italia dal Risorgimento in poi.

La presunta classe dirigente leghista (e non solo essa) è priva dei quattro requisiti fondamentali di “una classe politica autentica” che Gobetti scorgeva nella classe dirigente piemontese risorgimentale

1. la consapevolezza dei limiti;

2. l’aderenza alla realtà;

3. la competenza nei problemi dell’amministrazione dello Stato;

4. “l’istinto della probità civile”, una dote che secondo Gobetti, si ha “per natura”.

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