Come la guerra dei droni è diventata il nuovo stile americano – Tom Engelhardt

Nella mentalità americana, se la Apple facesse armi, sarebbero sicuramente dei droni, quegli aerei radiocomandati tanto famosi alla grande stampa. Vengono accolti come se fossero i più patinati degli iPhone, ma armati di missili.

Quando i primi droni assassini irruppero sulla scena mondiale nei primi anni della scorsa decade, presero tutti di sorpresa perché sembravano arrivati da chi sa quale romanzo di fantascienza. Da allora sono stati propagandati dai media come fossero i regali più scintillanti sotto l’albero di Natale (del conflitto) americano, l’arma perfetta per risolvere i nostri problemi quando ci sono i cattivi in agguato nelle terre dimenticate.

E possiamo forse incolpare gli americani per la loro storia d’amore con i droni? Chi non si sarebbe fatto ammaliare dall’arma più avanzata, futuristica, quella che offre solo vantaggi?

Però, mettete i droni in un contesto più familiare, saltate i commenti impauriti e fate come se fossero qualcosa di stranamente familiare. Se, per esempio, fossero fabbriche di automobili, ci sembrerebbero molto meno esotici.

Pensateci un po’, cosa fa un drone? Proprio come una moderna fabbrica di automobili rimpiazza il pilota, un lavoratore qualificato con una formazione importante, con la robotica e una versione degradata dello stesso lavoro, ma appaltato da qualche parte. In questo caso la locazione “offshore” del lavoro non sarebbe in Cina o in Messico, ma in una base militare negli Stati Uniti, dove un ragazzo con un joystick, formato frettolosamente e seduto davanti ad un monitor “pilota” un aereo. E data la nostra esperienza con l’emorragia dei posti di lavoro, chi si sorprenderà di scoprire che nel 2011 la U.S. Air Force ha addestrato più “piloti” di droni che piloti di caccia?

Da questo punto di vista i droni non sono quelle meraviglie fantascientifiche che ci immaginavamo. Ma c’è un altro aspetto per cui i droni stanno puntando alla “patria” americana da quattro decenni, e questo ha poco a che fare con la tecnologia, lo sviluppo o cose del genere.

In un certo senso la guerra fatta con i droni può essere considerata come la forma di guerra più naturale per i militari volontari. Per capire il perché, dobbiamo tornare indietro, alla decisione cruciale che fu presa quando stava finendo la guerra del Vietnam.

Disarmare i dilettanti, smobilitare la cittadinanza

È vero che, sulla scia delle guerre che hanno portato anche a dei rovesci – la cui versione afghana è entrata nell’undicesimo anno –, l’esercito degli Stati Uniti sia in cattiva forma. Il suo equipaggiamento deve essere rinnovato e le truppe sono sfinite. Le continue operazioni in zone di guerra portano stress, gli ordigni esplosivi improvvisati (IED) che hanno rimpiazzato i nemici visibili sul “campo di battaglia” causano lesioni cerebrali e altre ferite, i tassi di suicidi sono incontenibili, aumentano le violenze sessuali tra i militari così come gli atti criminali nei pressi delle basi, e tutte le altre tensioni e sofferenze di questa guerra infinita hanno riscosso il loro tributo.

Eppure, il nostro esercito rimane intatto, professionale e disciplinato. Se davvero volete vedere un esercito allo sfascio, dobbiamo lasciare gli anni successivi all’11 settembre e tornare ai tempi del Vietnam. Nel 1971, sull’Armed Forces Journal il colonnello Robert D. Heinl Jr., autore di un’autorevole storia del Corpo dei Marines, scrisse di “condizioni generalizzate nelle Forze Armate americane in Vietnam, superate in questo secolo solo dall’ammutinamento dell’Esercito Francese del 1917 e dal collasso delle armate zariste (di Russia) nel 1916 e 1917”.

L’esercito americano in Vietnam e nelle basi di tutto il mondo era quasi al limite della ribellione. Lo scontento per una guerra impopolare nel continente asiatico, rifiutata da sempre più americani che protestavano con forza in patria, aveva infettato l’esercito, che dopo tutto era composto da militari di leva.

Il tasso di diserzioni aumentava, così come il consumo di droghe. Sul campo, operazioni come “search and evade” (una versione derisoria di “search and destroy”) erano diventate comuni. I “fraggings” – gli attacchi verso gli ufficiali e sottufficiali impopolari – raddoppiarono di numero. (“La morte degli ufficiali veniva accolta da applausi nei film per le truppe o nei bivacchi di alcune unità”). E stando al colonnello Heinl, c’erano ben 144 pubblicazioni underground contro la guerra pubblicate o indirizzate ai soldati. Al tempo in cui scriveva, infatti, il movimento contro la guerra negli Stati Uniti era guidato da un numero sempre maggiore di veterani del Vietnam delusi, che denunciavano la guerra e il modo in cui l’avevano combattuta.

In questo modo, l’esercito dei cittadini americani, militari di leva, raggiunse il limite e si oppose alla guerra imperialista. Si trattò di democrazia attiva, trasferita sul campo di battaglia e nelle basi militari. Era davvero fastidioso per gli alti comandi statunitensi, che ormai avevano perso la fiducia nelle possibilità future di un esercito di leva. Infatti, di fronte a truppe sempre più indisciplinate, gli alti comandi militari conclusero in modo lapidario: mai più!

Così il giorno stesso degli Accordi di Pace di Parigi firmati nel gennaio del 1973 – che segnarono ufficialmente la fine del coinvolgimento americano in Vietnam (anche se non la fine effettiva) -, il Presidente Richard Nixon approvò anche un decreto che pose fine al servizio di leva. Fu prendere coscienza dell’ovvio: la guerra per gli americani, così come era stata praticata dalla Seconda Guerra Mondiale, aveva perso la sua presa sulle menti dei giovani.

Non ci furono dubbi sul fatto che i dirigenti militari e civili intendevano separare il settore militare e l’ambito delle operazioni da una popolazione infervorata. In quel senso avevano intravisto qualcosa del futuro che volevano plasmare, ma neanche loro potevano immaginare dove la guerra americana li avrebbe portati. Il Capo di Stato Maggiore Creighton Abrams, ad esempio, in realtà pensò di poter arginare la temerarietà dei leader dei movimenti civili – come ha spiegato Andrew Bacevich nel suo libro The New American Militarism – “rendendo gli effettivi dell’esercito operativamente dipendenti dalle riserve”. In questo modo nessun futuro presidente avrebbe potuto portare il paese in una guerra importante “senza prima prendere in considerazione la sensibilità politica e i costi economici di richiamare ‘i guerrieri del fine settimana’ americani”.

Abrams si sbagliò, certo, anche se aveva presentito che nel giro di qualche decennio anche i riservisti avrebbero sofferto per le guerre disastrose combattute sul continente eurasiatico. Eppure, anche se i generali e i leader civili non conoscevano gli effetti delle loro azioni, la fondazione del All-Volunteer Force (AVF) può essere considerata la decisione più importante mai presa da Washington nell’era post-Vietnam.

Oggi, in pochi ricordano quel momento e sono ancora meno quelli che hanno valutato la sua importanza. Eppure, storicamente parlando, con la rottura del 1973 fra cittadinanza e guerra si può dire concluso l’esperimento democratico che durava da quasi due secoli, la fusione tra la mobilitazione del cittadino e la mobilitazione dello stato nei tempi di guerra. Si cominciò durante la Rivoluzione Francese con la levèe en masse, sollecitando l’invio dei cittadini al fronte per salvare la repubblica e diffondere il loro fervore democratico all’estero. Dietro di loro c’era una popolazione mobilitata pronta a sacrificare tutto per la repubblica (e, prematuramente, l’impero).

Tuttavia, è dimostrato che il cittadino chiamato alle armi ha i suoi limiti, e così, dopo duecento anni, un’altro popolo e i suoi soldati, fomentati sul fronte interno e in guerra, sono stati pacificati e messi a riposo, mentre le guerre dell’impero venivano lasciate in mano ai professionisti. Un’era è terminata, anche se nessuno se n’è accorto. (Di conseguenza, se siete in vena d’ironia, le guerre della cittadinanza sarebbero state affidate alle guerriglie, e nella nostra epoca sono in gran parte destinate alle sette dei fondamentalisti religiosi).

Ma prendere la decisione di arruolare i professionisti e evitare i dilettanti non era sufficiente. Doveva essere fatta anche un’altra scelta. La disfatta del Vietnam – o, come veniva chiamata nei seguenti anni ’70, “la Sindrome del Vietnam” (come se gli americani fossero stati colpiti da una qualche malattia psichica invalidante) – avrebbe potuto portare Washington, e tutto il paese, a seguire un altro corso.

Gli Stati Uniti poterono così ritirarsi dal mondo, solo parzialmente, per leccarsi le ferite. Al contrario, la posizione di “guida del mondo libero” e il suo ruolo di sedicente poliziotto globale non sono mai stati in discussione, e nemmeno la sua politica delle basi militari che serve da supporto. Nel mezzo della Guerra Fredda, dall’Indonesia al Sud America, dal Giappone al Medio Oriente, non fu mai preso in seria considerazione un freno ai sogni imperialisti degli Stati Uniti.

La decisione di non ridimensionare la presenza militare dopo il Vietnam si fuse alla volontà di creare un esercito che avrebbe liberato Washington dal doversi preoccupare dell’umore delle truppe. Ben presto, come scritto da Bacevich, la nuova AVF sarebbe stata composta da “professionisti altamente qualificati, ben pagati che (supponendo che i generali concordino con la leadership politica) andranno ovunque senza mettere in dubbio gli ordini del comandante in capo”. Di fatto avrebbe aperto una nuova via per una nuova militarizzazione, sia in patria che fuori.

L’arrivo delle multinazionali guerriere

Dopo il Vietnam i conflitti cessarono e, per pochi anni, la guerra scomparve dalla cultura popolare americana. Quando tornò, le battaglie si sarebbero combattute nello spazio. (Pensate a Star Wars.) Nel frattempo, una specie di silenzio attonito e una sensazione di sconfitta scesero sulla politica americana, anche se non per molto. Negli anni ’80, quelli della presidenza di Ronald Reagan, il modo americano di fare la guerra fu ricostruito con cura, e questa volta con nuove specifiche.

Lo stesso Reagan dichiarò che il Vietnam fu una “causa nobile” e un nuovo esercito di professionisti, epurato dagli insoddisfatti e dai ribelli, cominciò nuovamente a invadere piccoli paesi (Grenada, Panama). Allo stesso tempo, il Pentagono progettò e riservò fondi per poter instradare i media (incolpati per la sconfitta in Vietnam) sulla retta via, per dare così al pubblico le notizie di guerra che meritava. In questo processo, i giornalisti furono prima contrastati, poi “riuniti” e infine “incorporati” nello sforzo bellico, mentre i vecchi generali in pensione venivano inviati nelle redazioni televisive, come fossero i commentatori in diretta delle partite di football, per raccontarci come si svolgono le nostre guerre. Nel frattempo, il pubblico veniva semplicemente messo da parte.

Col passare degli anni, la guerra diventò sempre più un affare americano, anche se sempre più lontana dalla maggior parte degli americani. Il cittadino democratico con una mente libera e la capacità di ribellarsi è stato rimandato a casa, e poi smobilitato sul fronte interno. Di conseguenza, nonostante le infinite chiacchiere post 11 settembre sull’onorare e supportare le truppe, il “fronte interno” mobilitato – che si sacrifica per coloro che combattono per loro – sarebbe diventato una reliquia della storia in un paese i cui dirigenti avevano cominciato a vantarsi di avere il più grande esercito che il mondo avesse mai visto.

Tuttavia, non era che nessuno si stesse mobilitando. Nello spazio lasciato libero dai cittadini, la mobilitazione continuava, solo in modo diverso. Ad esempio, i potenti della grande scienza e le accademie, i costruttori di armi, e le grandi aziende si mobilitarono attivamente a favore del Pentagono.

Così nel corso degli anni, questo esercito “professionista”, questa forza di “soli volontari”, subì una mutazione. Dagli anni ’90, in una maniera inconcepibile per un esercito con leva obbligatoria, cominciò a essere privatizzato, e si fuse con lo spirito delle corporation, guerra e profitti.

La guerra ora sarebbe stata combattuta non più per e da i cittadini, ma nel vero senso della parola da Lockheed Martin, Halliburton, KBR, DynCorp, Triple Canopy e Blackwater (poi Xe, e dopo ancora Academi). Nel frattempo, il cittadino, che rabbrividisce al pensiero dei nemici terroristi, tira avanti come se non stesse succedesse niente. (“Venite a Disney World in Florida. Porta la tua famiglia e divertiti nel modo giusto”, fu la risposta suggerita da George W. Bush due settimane dopo gli attacchi dell’11 settembre, con la “guerra al terrorismo” già sui blocchi di partenza).

Nonostante la penuria di nemici, in qualsiasi forma, i dollari delle tasse degli americani si sono riversati nelle casse del Pentagono e del complesso militare-industriale, ma anche in un mini complesso per la sicurezza nazionale e in un fiorente complesso industriale di intelligence, a livelli sconosciuti durante gli anni della Guerra Fredda. I lobbisti sono diventati onnipresenti in una loro epoca d’oro, anche quando nelle zone di guerra le cose andavano davvero male.

Intanto nelle aree di conflitto, le corporation avrebbero rilevato i più umili trai compiti del soldato: sbucciare le patate, preparare i pasti, costruire basi e avamposti, consegnare la posta, e si sarebbe inoltre occupato delle armi (e delle bombe). Ben presto, anche i morti sarebbero stati affidati a compagnie in appalto. L’Iraq e l’Afghanistan occupati sarebbero poi stati inondati da decine di migliaia di contractor privati e da armi a noleggio, mentre i militari addestrati per le operazioni speciali avrebbero riscosso una lauta mancia, partecipando ai lavori delle compagnie dei mercenari, spesso nelle stesse zone di guerra.

È stato un bel racket. In qualche modo guerra e profitto sono uniti già da molto tempo, ma mai con questa franchezza. Ora, che si vinca o si perda sul campo di battaglia, ci saranno sempre dei vincitori nella crescente classe delle warrior corporation.

La All-Volunteer Force, malleabile come deve essere un esercito, e sostenuta da Madison Avenue con centinaia di milioni di dollari per assicurare che i suoi ranghi siano al completo, sarebbe diventata sempre più distaccata dalla società americana. Infatti sarebbe diventata sempre più straniero (come la “legione straniera”) e sempre più mercenaria (si pensi agli Hessian). Il servizio di intelligence della sicurezza nazionale avrebbe appaltato significative porzioni delle sue attività al settore privato. Secondo Dana Priest e William Arkin del Washington Post, nel 2010 circa 265.000 delle 854.000 persone con accesso alle informazioni più riservate erano contractor privati e “quasi il 30% della forza lavoro nelle agenzie di intelligence era composta da contractor”.

Nessuno sembra accorgersene, ma era stata realizzata una “versione 1%” delle guerre americane, non controllata da un esercito di leva, da un Congresso scettico o da una cittadinanza democratica. Infatti gli americani, poco preoccupati per una guerra dove la propria vita non è minacciata, prestano poca attenzione.

Guerre Telecomandate

Anche se una prima tecnologia dei droni fu utilizzata contro il Vietnam del Nord, è per un altro motivo che dal 1973 i droni stanno guidando il futuro dell’America. C’è stata una logica inquietante: prima è venuta la guerra professionale, poi la guerra privatizzata, poi i mercenari e la guerra in appalto, e tutto questo ha portato la guerra sempre più lontano dalla maggior parte degli americani. Infine, sia letteralmente che metaforicamente, è arrivata la guerra telecomandata a distanza.

Non potrebbe essere più appropriato, ma la Air Force preferisce che le sue ultime armi non vengano chiamate “veicoli aerei senza equipaggio”, o UAV. Preferirebbero che venisse usato invece il nominativo “veicolo pilotato a distanza” (RPA). E deve essere pilotato sempre da più lontano fino a che – affermano i credenti e gli appassionati – si piloterà da solo, atterrerà da solo, si manovrerà da solo e mentre sarà in aria si sceglierà i propri bersagli.

In questo modo, pensiamo a noi come se stessimo passando da un esercito di cittadini a uno robotizzato, fino ad arrivare a un esercito che è una vera e propria legione straniera. In altre parole, ci stiamo muovendo verso un’esternalizzazione della guerra sempre più diffusa, verso cose che non possono protestare, che non si possono votare e per le quali non c’è nessun “fronte interno” e neppure un suo spazio. In un certo senso, siamo, come avviene dal 1973, diretti verso un modo di far guerra che non ha bisogno di nessuno, di cittadini o altro, a parte quelli sul campo di battaglia, nemici o civili, che moriranno come sempre.

Certo, non sarebbe potuto mai accadere proprio così, visto che i droni sono tutto tranne che armi meravigliose o perfette, e in parte perché le guerre delle corporation combattute da un esercito professionista sono incredibilmente costose per la cittadinanza smobilitata, sono prodighe di sprechi e, in base alle testimonianze della storia recente, hanno uno scarso successo. Inoltre non potrebbero essere più distanti dall’idea di democrazia o di repubblica.

In un certo senso, la moderna era imperialista cominciò centinaia di anni fa con la guerra delle multinazionali, quando la Compagnia delle Indie Orientali Olandese, quella Britannica e altre salparono, armate fino ai denti, per sottomettere il mondo al proprio profitto. Forse la guerra delle corporation testimonierà la fine di un’era, la formula perfetta per l’ultimo impero globale sul viale del tramonto.

Tom Engelhardt, co-fondatore di American Empire Project ed autore di The American Way of War; How Bush’s Wars Became Obama’s e di The End of Victory Culture, dirige TomDispatch.com del Nation Institute. Il suo ultimo libro, The United States of Fear, (Haymarket Books) è appena stato pubblicato.

23.2.2012, fonte: Tom Dispatch, Remotely Piloted War How Drone War Became The American Way of Life

13.3.2012, traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di REIO
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=print&sid=10025

 

 

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