Sul giornalismo di guerra

Robert Fisk

“Ha richiesto molto coraggio entrare a Homs. Prima Sky News, poi la BBC, infine un manipolo di uomini e donne coraggiosi che hanno raccontato al mondo l’angoscia della città e, in almeno due casi, hanno sofferto loro stessi. Questa settimana ho avuto modo di riflettere parecchio su quanto abbiamo potuto conoscere su l’indomito e ferito fotografo inglese Paul Conroy, e su quanto invece non sappiamo dei 13 volontari siriani che, a quanto pare, sono stati uccisi dai cecchini e dai bombardamenti mentre cercavano di salvarlo. Per carità, nessuna colpa a Conroy. Ma mi domando se sappiamo i nomi di questi martiri- o se ci interessa conoscerli.

In tutto ciò c’è qualcosa dal sapore vagamente colonialista. Siamo cresciuti così abituati all’idea del corrispondente di guerra eroico e strafottente che in qualche modo questi ultimi sono diventati più importanti delle persone di cui loro raccontano. Apparentemente Hemingway liberò Parigi- o almeno l’Harry’s bar- ma qualcuno dei lettori ricorda il nome di almeno uno dei francesi che morì liberando Parigi? Ricordo perfettamente il mio intrepido collega Terry Lloyd, ucciso dagli americani in Iraq nel 2003, ma chi ricorda anche solo un nome tra quelli del mezzo milione di persone uccise durante l’invasione (ovviamente escludendo quello di Saddam Hussein)? Un corrispondente di Al Jazeera fu ucciso a Baghdad durante un bombardamento americano lo stesso anno, chi si ricorda il suo nome? Risposta: si chiamava Tareq Ayoub. Era palestinese. Ero con lui il giorno prima che venisse ucciso.

Il giubbotto antiproiettile è ora diventato il simbolo di quasi tutti i reporter di guerra. Non ho niente contro i giubbotti antiproiettili. Io stesso ne ho indossato uno in Bosnia. Ma la mia frustrazione cresce quando guardo tutti questi reporter avvolti nella loro tuta spaziale che se ne stanno tra le vittime di guerra, intervistandole, senza che nessuna di loro abbia nessuna di queste protezioni. So bene che sono gli assicuratori a insistere affinchè i corrispondenti e gli operatori indossino questa roba. Ma in strada si ha un’impressione diversa: sembra quasi che le vite dei reporter occidentali valgano di più, meritino di più e abbiano un maggior valore intrinseco rispetto ai civili “stranieri” che soffrono intorno a loro. Moltissimi anni fa, durante una battaglia a Beirut, mi fu chiesto di indossare uno di questi giubbotti antiproiettili in occasione di un’intervista. A intervistarmi era un giornalista che indossava uno di questi pacchetti d’acciaio da 12 libbre. Mi rifiutai. E così, niente intervista.

Un fenomeno simile e altrettanto scomodo si sviluppò 15 anni fa. Come fanno i reporter a superare l’esperienza della guerra? Devono ricevere sostegno per le loro terribili esperienze? La Press Gazette mi chiamò per avere un commento. Rifiutai l’invito. Il susseguente articolo proseguiva trattando i traumi subiti dai giornalisti – e in conclusione suggeriva che chi rifiutava il sostegno psicologico era un “alcolista”. Quindi si trattava o di psicolabili o di beoni. La verità, ovviamente, è che i giornalisti – e per l’amor di dio smettiamola di sminuire la nostra professione facendoci chiamare “scribacchini”- possono volarsene a casa nel momento in cui la situazione diventa troppo dura, e lo fanno in business class con un bel bicchiere di champagne tra le mani.

Le popolazioni povere e senza giubbotto antiproiettile che si lasciano alle spalle sono quelle che hanno bisogno di “aiuto”, con i loro passaporti da pariah, senza visti di paesi stranieri, mentre cercano disperatamente di fermare lo spargimento di sangue delle loro vulnerabili famiglie. Il sapore romantico dei reporter di “guerra” fu completamente evidente nella guerra del Golfo del 1991. Tutti i giornalisti stranieri spuntarono in Arabia Saudita con i loro costumi da militari. Uno di loro, un americano, aveva persino degli stivali mimetici con delle foglie disegnate, sebbene a prima vista un vero deserto suggerisse la completa mancanza di alberi. La cosa stravagante è  che realizzai come, nella solitudine del vero deserto molti soldati, soprattutto i marine americani, stessero scrivendo diari delle loro esperienze. Spesso me li offrivano, in cerca di pubblicazione. Sembrava che i reporter volessero essere soldati, e che i soldati volessero essere i giornalisti.

Questa curiosa simbiosi diventa ancora più evidente quando i reporter di “guerra” raccontano delle loro “esperienze da combattenti”. Tre anni fa, in un’università americana, ho avuto il piacere di vedere tre veterani delle guerre in Iraq e Afghanistan denigrare un giornalista che stava usando l’espressione a sproposito. “Scusi Signore” disse uno di loro gentilmente “Lei non ha avuto nessuna “esperienza da combattente”. Lei ha vissuto “l’esposizione ai combattimenti”. Che non è esattamente la stessa cosa.” Il veterano dimostrò un comprensibile e calmo disprezzo. Non aveva le gambe.

Siamo tutti caduti vittima di espressioni come “ho visto l’orrore”/ “il sibilo dei razzi”/ “ero inchiodato al suolo da bombardamenti, mitragliatrici, il fuoco dei cecchini”. Sospetto di averle usate io stesso in Irlanda del Nord all’inizio degli anni 1970. Sicuramente l’ho fatto nel sud del Libano alla fine degli anni 1970. Mi vergogno. Mentre tolleriamo le “testimonianze personali” di guerra – una frase con cui io stesso mi trovo particolarmente a disagio- questo genere di cose diventano un segno di alta considerazione di sè. James Cameron ha colto al meglio questo durante la Guerra di Corea. Quando stava per atterrare con le forze americane a Inchon, egli annota: “tra tutto, se una cosa poteva essere vagamente notata era la barca marchiata a grandi lettere STAMPA, piena di corrispondenti agitati e competitivi. Tutti che provavamo a dare un’impressione di determinazione mentre atterravamo sull’Onda 1, cercando di riuscire a trovare un metodo per essere nell’Onda 50?.

E chi si dimentica le parole della giornalista israeliana Amira Hass – reporter di Haartez nella Cisgiordania Occupata, parole che cito spesso. Una volta a Gerusalemme mi disse che il lavoro del corrispondente straniero non è quello di “essere il primo testimone della storia”, ma di “monitorare i centri di potere”, specialmente quando vanno in guerra e, specialmente, quando intendono farlo su uno strato di bugie.

Quindi, certo, tutto l’onore a chi ha raccontato quello che è successo a Homs. Ma ecco un altro pensiero: quando gli israeliani hanno lanciato il bombardamento su Gaza nel 2008 a tutti i reporter è stato proibito di raccontare quella guerra, così come i siriani hanno provato a fare a Homs. E gli israeliani hanno avuto molto più successo nell’evitare che il bagno di sangue arrivasse sotto gli occhi degli occidentali. Le forze di Hamas e l’esercito di liberazione siriano a Homs hanno in effetti molte cose in comune – entrambi sempre più islamici, entrambi si sono trovati ad affrontare una potenza di fuoco molto superiore, e entrambi hanno perso la battaglia. Ma ai reporter palestinesi è stato permesso di raccontare la sofferenza della loro stessa gente. E hanno fatto un buon lavoro. Ma è divertente che le sale stampa di Washington e Londra non abbiano avuto la stessa voglia di far entrare i loro reporter a Gaza come invece hanno fatto con Homs. Solo un pensiero. Un pensiero infelice.

«The Indipendent», 3 marzo 2012

Traduzione di Virginia Fiume

http://www.amedeoricucci.it/sul-giornalismo-di-guerra/


 

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