La rivoluzione liberale di Piero Gobetti (e quella del Sultano) – Pietro Polito

Altri tempi, indubbiamente. Ma cosa c’entra la «Rivoluzione liberale» con Berlusconi? Assolutamente nulla. Gobetti, infatti, era convinto che non si potesse formare uno Stato moderno senza il contributo delle masse operaie che si stavano (allora) affacciando sul proscenio della storia, ma queste masse (e Gobetti non disprezzava comunisti e socialisti) andavano fatte incontrare con le energie migliori della società liberale e degli imprenditori «illuminati». Questa per Gobetti era la Rivoluzione liberale, concetto, in verità, non molto diverso da quello di «blocco storico» elaborato da Antonio Gramsci. Purtroppo la «Rivoluzione liberale» rimase solo un libro, per di più messo all’indice dal fascismo che ne distrusse le copie. Berlusconi non è il fascismo, ma non è neppure quella rivoluzione liberale che più volte ha dichiarato di voler fare” (Galapagos, Il «traditore della rivoluzione liberale», in “il manifesto”, martedì 8 novembre 2011, p. 3).

Lo stesso quotidiano è tornato sulla “rivoluzione liberale” fallita del Sultano con un vero e proprio saggio di Alberto Ferrigolo, Così l’imprenditore Berlusconi ha fallito (16 novembre 2011). La tesi di Ferrigolo è umiliante per il Sultano che non ha fallito su un terreno che non era il suo, la politica, ma è crollato dove avrebbe dovuto (potuto?) dare il meglio di sé, l’economia. Il motivo del suo fallimento è semplice: il Sultano non è un imprenditore vero. “o meglio – afferma Ferrigolo – imprenditore lo è, ma lo è sempre stato in modo assistito, protetto, garantito”.

La parabola del Sultano è durata 17 anni dal primo governo Berlusconi, in carica dal maggio al dicembre 1994, fino alla caduta annunciata e a rallentatore “promessa al Presidente della Repubblica” dopo la dissoluzione della maggioranza e del governo in Parlamento, avvenuta sui conti dello stato mercoledì 9 novembre 2011. Questa parabola, nefasta per il Paese e per le Italiane e gli Italiani, nonché per l’Europa, si inscrive tra la promessa da marinaio di una rivoluzione liberale “berlusconiana” e la realtà di una catastrofe liberista.

Giunti alla fine della parabola, che sarebbe stata auspicabile dopo un voto in Parlamento venisse sancita dal voto del Principe, può giovare tornare sull’idea di rivoluzione liberale che, per chi scrive, è un’idea tanto feconda quanto poco “digerita” a destra come a sinistra.

Galapagos ha ragione politicamente quando dice che il Sultano con la rivoluzione liberale non c’entra nulla, ha torto storicamente quando assimila o sembra assimilare l’idea di Piero Gobetti al concetto di blocco storico di Gramsci. Tutt’altro! La rivoluzione liberale nella mente di Gobetti si delinea da un lato come un’antitesi irriducibile al fascismo e dall’altro come una via diversa e non convergente rispetto al comunismo. Il Gobetti padre della via italiana al comunismo è una delle mistificazioni storiografiche più riuscite. Solo che la tesi non ha alcun fondamento.

Il messaggio di Gobetti può essere riassunto e riferito in modo nitido e inequivoco:

1. l’Italia non ha avuto né la Riforma né la rivoluzione; la storia d’Italia è stata sinora una storia di servi e il fascismo ne è l’estrema conseguenza (il giudizio gobettiano può essere esteso al regime democristiano e al “regime del Sultano”?);

2. il rinnovamento del Paese non può avvenire attraverso un mutamento di nomi e di sigle, ma solo attraverso una rivoluzione;

3. una rivoluzione autentica non può non essere liberale;

4. una rivoluzione si può dire liberale quando parte dal basso;

5. la partecipazione dal basso del Principe impedisce (può impedire) il tralignamento della rivoluzione in un mero cambiar di padrone da parte degli schiavi;

6. gli attori della rivoluzione liberale sono il movimento popolare, ai tempi di Gobetti il movimento operaio, e una elite di intellettuali liberali formatisi nel vivo della lotta politica;

7. il principale segno che la rivoluzione liberale è riuscita è la formazione di una nuova classe dirigente espressione dei nuovi movimenti popolari in ascesa;

8. gli scopi della rivoluzione liberale sono fondamentalmente tre: a) la formazione di un’economia della fabbrica che renda più mite, tagliandogli le unghie, la logica mercantile del capitalismo; b) la creazione di uno stato delle autonomie; c) la maturazione negli Italiani di una coscienza dello stato e della responsabilità.

Post scriptum

Nelle righe precedenti si trova riassunta l’idea gobettiana della “rivoluzione liberale” come progetto politico e come programma d’azione. Personalmente sono sicuro della fecondità dell’idea della rivoluzione liberale come categoria storica per giudicare i fenomeni politici italiani e non solo italiani, del passato ma anche del presente.

Che cosa ne risulta se applichiamo la categoria della “rivoluzione liberale” alla “rivoluzione del Sultano”? Risulta che la rivoluzione del Sultano non è una rivoluzione e non è una rivoluzione liberale perché gobettianamente è stata:

1. un movimento regressivo e non progressivo;

2. un movimento dall’alto e non dal basso;

3. la “rivoluzione” di uno solo al comando e non di una élite espressione di un movimento di popolo;

4. non ha formato una nuova classe dirigente, ma ha sostanzialmente “riciclato” la vecchia classe politica “democristiana” e “socialista” e/o i suoi figli o nipotini (il giudizio vale anche per la sinistra);

5. quanto agli scopi, ha assolutizzato l’homo economicus e i suoi valori: l’egoismo, il successo, la libertà economica, il profitto, il diritto di proprietà, neanche più connesso al lavoro (come suggeriva, si badi, non il comunista Marx ma il liberal-moderato Locke);

6. la “rivoluzione” del Sultano non ha ammodernato l’economia ma ha portato il Paese sull’orlo del disastro;

7. politicamente, la “rivoluzione” non si è ispirata alla vocazione unitaria della rivoluzione liberale di Gobetti che assumeva e non potrebbe non assumere oggi la questione del Mezzogiorno come un grande problema nazionale, ma si è piegata al modello federale imposto dal Capo dei “padani”;

8. quanto al senso etico del Paese e degli Italiani dopo l’uscita di scena (definitiva?) del Sultano, non mi sento di aggiungere nulla.

 

Postilla

Critica liberale”

Il messaggio gobettiano viene proposto dalla combattiva rivista romana «Critica liberale», diretta da Enzo Marzo. La rivista è un mensile di “sinistra liberale” che non disdegna il dialogo con la migliore tradizione socialista proveniente dalla storia del movimento operaio.

Per esempio il tema centrale del fascicolo di luglio-agosto 2011 è “Il «conflitto di classe» la «bellezza della lotta»”. Come ai tempi di Gobetti, i liberali rivoluzionari assumono il concetto di classe sociale come “la migliore spiegazione sociologica della disuguaglianza e dell’ingiustizia, portatrice di (ri)stratificazione sociale. E la chiave migliore di rivendicazione sociale in grado di ricompattare la frammentazione sociale”.

La rivista si ispira al liberalismo classico che considera il conflitto connaturato alla natura umana, pervasivo, fecondo, innovatore. Richiamandosi a Gobetti, per «Critica liberale» il conflitto è il modo attraverso il quale individui, gruppi, attori politici e sociali concorrono al buon funzionamento della democrazia.

Cito a memoria una pagina del giovanissimo Gobetti dove viene abbozzata un’idea che egli non sviluppa ma che ha trovato largo seguito lungo il corso del Novecento. La storia del progresso appariva a Gobetti come il successivo incivilimento delle forme di lotta che gradualmente avrebbero dovuto (e potuto) perdere le manifestazioni proprie di una società premoderna come la lotta tra gli eserciti e la violenza politica. Per questa via il liberalismo radicale si connette alla nonviolenza.

Un contributo a questo dibattito viene dalle riviste: oltre a «Critica Liberale», «Reset», «Micromega», che dedica alla sinistra il fascicolo attualmente in edicola, «Il Ponte», la storica rivista fondata da Piero Calamandrei, che ha fatto una chiara scelta “all’opposizione” del governo del Presidente Tecnico: “È possibile – si domanda e domanda la rivista – uscire in via definitiva dal populismo, dalla demagogia, dall’antipolitica? E soprattutto: è possibile in prospettiva uscirvi da sinistra, con quella che una volta si sarebbe chiamata una politica di progresso?”. Come sostengono gli amici de «ll Ponte», “si potrebbe parlare di un’uscita dal populismo solo nel caso in cui fosse attivato, su basi paritarie, il gioco tra una destra liberaldemocratica e una sinistra democratica e socialista, come nei sistemi politici europei” («Il Ponte» n. 12 dicembre 2011, p. 26).

L’idea di una sinistra democratica, socialista, tendenzialmente nonviolenta è stata al centro dei grandi dibattiti tra nonviolenza e marxismo con Bobbio, Giuliano Pontara, Nicola Badaloni, promossi negli anni Settanta e nei primissimi Ottanta da Pietro Pinna e da «Azione nonviolenta», la rivista fondata da Aldo Capitini. Una tradizione da riprendere e una ricerca da continuare.

12 gennaio 2012 – Diario italiano. Fatti, persone, idee, valori (a cura di Pietro Polito)

 

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