L’occasione storica – Pietro Polito

Napoli, 1° dicembre 1945.

Su “L’Azione” di Napoli, compare un articolo intitolato “Responsabilità storica”. La firma è di Guido Dorso, il più radicale degli allievi di Giustino Fortunato, il grande meridionalista.

Dorso, che ha pensato, elaborato, proposto, sognato una rivoluzione italiana che nascesse da una rivoluzione meridionale fatta in primo luogo dai contadini del Sud, denuncia “l’incomprensione storica” del problema del Mezzogiorno da parte dei partiti italiani.

Dopo avere osservato che “siamo ancora lontani dall’impostazione razionale del problema italiano, di cui la Questione meridionale è il punto più vitale”, Dorso scrive con amarezza, rimpianto, lucido realismo:

“Non c’è speranza di una rapida ripresa, sia perché le direzioni centrali dei partiti politici si dimostrano insensibili a tutte le lezioni che la realtà somministra alla loro sciagurata politica di assenteismo, sia perché il momento storico favorevole è quasi interamente trascorso, ed è fin troppo noto che le grandi questioni strutturali politiche possano essere affrontate e risolte soltanto in quelle occasioni storiche, che hanno il torto di verificarsi ogni mezzo secolo”.

Più di mezzo secolo dopo, la Questione meridionale (ma oggi è più adeguato alla realtà dire: le Questioni meridionali), come diceva Manlio Rossi Doria, rimane il “nostro tormento”.

Torino, 5 gennaio 2012

Se si fosse trovato a vivere il nostro tempo, Guido Dorso forse avrebbe scritto un articolo intitolato: “L’occasione storica”. E avrebbe spiegato che, alla fine del 2011, la storia si è “misteriosamente” aperta, dando un’altra occasione a un’altra sinistra di contribuire al miglioramento del nostro Paese.

La storia d’Italia sembrava chiusa, destinata a proseguire lungo i tempi forse eterni della lunga agonia del Sultano, per poi precipitare in un duello finale dagli esiti imprevedibili sulle macerie di un paese devastato.

Non è male ricordare qual è la sostanza del problema italiano. Esso non consiste nel conflitto, nelle divisioni, quando queste sono espressione di un contrasto di idee e valori, ma sta nelle devastazioni subite da una classe politica autoreferenziale, il cui principale (se non unico) scopo è di auto conservarsi; da una classe industriale, che è “liberista” a parole, ma “protezionista” e protetta nei fatti; da una opinione pubblica che forma i propri giudizi con i dispacci di Canale 5 e del Tg1.

Se siamo alla fine di un regime, la sinistra è chiamata a non perdere, a non lasciar cadere nel vuoto una occasione storica, reagendo al disarmo della politica. I segnali non sono incoraggianti: da un lato la sinistra cosiddetta radicale continua ad essere troppo sensibile alla tentazione di stare fuori dal recinto, dall’altro la sinistra cosiddetta di governo si sente troppo a suo agio entro i confini del recinto.

Mentre una sinistra – liberale, socialista, aperta alla nonviolenza – che non abdicasse alla sua funzione storica dovrebbe proporre un’idea d’Italia, un programma di governo, una alleanza di forze politiche e sociali, dovrebbe rivolgersi ai suoi elettori, parlare alle persone che crescono, lavorano, vivono in questo Paese.

 

Postilla L’Italia è una democrazia?

Lo storico e il Presidente

 

Il 12 dicembre 2011 sul “Corriere della Sera” lo storico Ernesto Galli della Loggia, in un articolo intitolato Stato d’eccezione ma non se ne parla, ha sostenuto che il Presidente della Repubblica con il varo del governo Monti ha svolto “un ruolo eccezionale”, diventando “una sorta di reggitore sussidiario del sistema”, “una sorta di motore di riserva” (queste espressioni sono di Marco Olivetti, “Avvenire”, 4 dicembre), operando così – osserva Galli – per lo stato d’eccezione e per consentire che il sistema riprendesse a funzionare. Lo storico considera l’azione del Presidente conforme alle regole formali della Carta. Tuttavia l’innovazione gli sembra così radicale da richiedere una grande discussione, che veda coinvolti in modo particolare gli studiosi di diritto costituzionale, intorno a due questioni:

1. “quali sono le condizioni – non previste dalla Costituzione, è bene ricordarlo – che rendono necessario un «motore di riserva»?”;

2. “chi è che decide quando esse si verificano?”.

Mercoledì 21 dicembre 2011, il Presidente è sembrato rispondere allo storico, ma anche a quanti a sproposito, sia nella destra più estrema sia nella sinistra più radicale, hanno affermato che in Italia il governo Monti equivale a un “golpe”. Nel giorno del tradizionale scambio degli auguri natalizi, rivolgendosi al governo, alla maggioranza (una delle più ampie della storia repubblicana) e alla minoranza padana, agli industriali e ai sindacati, egli ha pronunciato una frase importante: “Solo con grave leggerezza si può parlare di sospensione della democrazia in un Paese in cui nulla è stato scalfito”.

Lo storico dà ragione al Presidente all’inizio dell’articolo intitolato La debolezza dei partiti (Corriere della Sera 28 dicembre 2011): “il presidente della Repubblica non ha certo commesso alcun atto contro la Costituzione, men che meno ha «sospeso la democrazia»”. Tuttavia egli ribadisce il punto, vale a dire che il Presidente ha svolto e svolge un ruolo “assolutamente determinante, avendo egli costituito – scrive Galli – “un governo destinato ad assommare in sé, in modo singolarissimo, la duplice natura di «governo dei tecnici» e insieme di «governo di unità nazionale» (cioè del governo più politico che ci sia, quello per esempio tipico dei periodi di guerra)”.

Fin qui la discussione tra lo storico e il Presidente.

Aggiungo io che, in effetti, le regole formali della Costituzione non sono state scalfite. Ma, senza alcun commento, faccio sommessamente osservare allo storico e al Presidente che l’Italia attualmente è rappresentata da un Parlamento che è composto da nominati dai segretari di cinque partiti e che ha dato una larga fiducia a un nominato dal Capo dello Stato.

Mentre “il governo dei professori”, viene dispiegando la sua natura politica, i politici nominati praticano un “opportunistico attendismo”. Questo significa che in una delle fasi più delicate della storia italiana recente la politica si autosospende, cessando di svolgere la sua funzione.

Concordo con l’analisi dello storico. Chi vuol vedere vede che “il Parlamento – il quale, è bene ricordarlo, resta pur sempre il solo organo del potere legittimato in via diretta dalla sovranità popolare – non solo non è più al centro del processo politico reale, ma non è più al centro di nulla: neppure del processo di formazione delle leggi, essendo per lo più divenuto ormai, solo una sede passiva di convalida e ratifica di decisioni prese comunque altrove”. Un altro elemento di debolezza della nostra democrazia parlamentare – continua Galli – sta nel fatto che il governo è “alla completa mercè delle maggioranze partitiche” e che “l’intero potere politico è nelle mani dei partiti, di fatto padroni assoluti del Parlamento”.

Penso che il rimedio; “l’adozione di sistemi di democrazia presidenziale o semipresidenziale”, sia peggiore del male, essendo un fautore della democrazia parlamentare nella forma spiegataci e rispiegataci dal maestro Norberto Bobbio.

Bobbio pensava che la politica avesse il compito di: “aprirsi il cammino tra il rifiuto delle «costruzioni chimeriche, non realizzabili che nel regno dell’utopia o in quella età dell’oro nella quale non erano affatto necessarie» (Spinoza) e l’apologia dell’esistente”.

“La democrazia è una via. Ma verso dove?”. La domanda ci viene posta ancora da Bobbio. Uno dei suoi allievi ideali, Paolo Bagnoli, giustamente sostiene che la democrazia italiana è una “democrazia senza progetto”, per “il vuoto della sinistra e la persistente mancanza di un soggetto socialista, ossia di un soggetto capace di interpretare da sinistra le sfide della contemporaneità”. È questa “un’assenza resa ancor più drammatica dall’incapacità di innestare un movimento di idee e di presenze che si pongono il problema storico della sinistra e, in questa, del socialismo”.

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