Gandhi e lo sviluppo: un’alternativa radicale all’occidente

Massimiliano Fortuna

Gandhi e lo sviluppo: una presentazione di Hind Swaraj

Gandhi ha scritto moltissimo, è sorprendente pensare che la sua opera omnia consta di ben cento volumi,i considerato che la vita di Gandhi non è stata certo dedicata alla sola scrittura o alla sola elaborazione intellettuale.

Numerosi sono gli scritti occasionali (lettere, articoli per giornali o riviste, ecc.) e non molti i lavori organici; sulla questione centrale della nonviolenza, ad esempio, non esiste un testo che possa essere paragonato a un manuale capillare come quello di Gene Sharpii o ad altri volumi dello stesso genere.

Forse se si vuole avere un quadro complessivo del pensiero di Gandhi bisogna innanzitutto rivolgersi a un piccolo libro pubblicato per la prima volta in gujarati nel 1909: Hind Swaraj.iii Si tratta di una sorta di manifesto ideologico-programmatico, come è stato appropriatamente definito, che contiene in nuce gran parte dei temi che negli anni successivi saranno oggetto dell’insegnamento e dell’approfondimento del Mahatma.

Nel presentarlo cominciamo innanzitutto a precisare che swaraj significa “autogoverno”. Hind Swaraj è dunque l’autogoverno dell’India. Questa questione costituisce, si potrebbe dire, il punto di partenza teorico e l’obiettivo pratico di conquista finale in cui convergono la riflessione filosofica e l’impegno sociale e politico di Gandhi.

Mi pare si possa dire che la struttura portante del libro si articola attorno a tre punti che costituiscono una sorta di progressiva specificazione del suo contenuto:

– in primo luogo c’è una contestazione del dominio coloniale inglese e la rivendicazione della necessità di liberarsene, accompagnata da una precisa comprensione delle sue origini e delle sue cause;

– poi è indicato il modo attraverso cui ottenere questa liberazione e la conseguente indipendenza, vale a dire il metodo nonviolento, l’azione del satyagraha – qui occorre precisare che il senso di swaraj è duplice, swaraj significa, in prima istanza, autogoverno individuale, capacità di autocontrollo e di dominio di sé, caratteristiche che devono essere proprie di ogni resistente nonviolento; in secondo luogo lo swaraj è conquista collettiva, libertà politica nazionale: secondo Gandhi lo swaraj individuale è premessa e condizione di quello collettivo, perché “la libertà esterna è proporzionale alla libertà interiore”;

– non si tratta però di liberare semplicemente l’India dal giogo inglese, la liberazione potrà infatti considerarsi autentica solo se corrisponderà a una liberazione dal modello di sviluppo e dal tipo di civiltà che gli inglesi hanno portato in India, se gli indiani continueranno a adottare questo modello si avrà semplicemente un “governo inglese senza gli inglesi”, e non un autentico swaraj (così il Giappone è, a detta di Gandhi, subordinato all’Occidente perché ne ha sposato il modello di sviluppo, anche se il suo territorio non è controllato direttamente da una potenza occupante).

Dunque gli inglesi, per Gandhi, rappresentano in India qualcosa che nel libro viene definito a volte “civiltà moderna”, altre volte “civiltà occidentale”, altre ancora “civiltà europea”. La critica a questa civiltà è il cuore di questo libretto e il filo rosso che guida attraverso le sue pagine.

Proviamo quindi a mettere brevemente in fila le principali fra queste critiche.

1. Secondo Gandhi la nostra civiltà è basata sull’avidità e la ricerca esasperata del profitto, “passioni” che finiscono per dare origine a disuguaglianze troppo marcate.

2. Dunque “le persone che vivono in questa civiltà fanno del benessere materiale lo scopo della loro vita”iv e si assiste a una moltiplicazione artificiale dei bisogni e dei “marchingegni escogitati a soddisfarli”.v

3. Gli occidentali inoltre concepiscono “il mondo intero come un enorme mercato per le loro merci”.vi

4. C’è poi una critica dell’eccessiva urbanizzazione, città che diventano metropoli, hanno un carattere dispersivo e favoriscono l’aumento della criminalità. Inoltre nel rapporto città/campagna la seconda è stata subordinata alle esigenze della prima, dando luogo a una condizione di esagerata dipendenza.

5. Poi una netta presa di posizione contro quello che è forse il maggior simbolo della civiltà moderna: l’accresciuto potere delle macchine. In Hind Swaraj Gandhi sembra riservare alle macchine solo note negative. In seguito preciserà di opporsi a loro non nelle forme di un luddismo radicale ma nella misura in cui esse sottraggono lavoro all’uomo: “ciò che contesto è la mania delle macchine, non le macchine in se stesse. La mania per le cosiddette ‘macchine risparmia-fatica’. Gli uomini continueranno a ‘risparmiare fatica’, finché migliaia di loro non resteranno senza lavoro e non si abbandoneranno sulle pubbliche strade a morire di fame”.vii

6. Complessivamente Gandhi si oppone all’industrializzazione dell’Occidente che tende a rendere l’uomo un automa, e in modo più specifico all’apparato militare-industriale occidentale e alla sua facilità di creare manu militari quegli spazi di commercio di cui s’è detto al punto 3. Gandhi sostiene che “non è irragionevole presumere, giudicando dalla condizione dell’Europa, che le sue città, le sue mostruose fabbriche e gli imponenti armamenti siano così intimamente connessi fra di loro da non poter sopravvivere l’uno senza l’altro”.viii

J. Charles Koilpillai ha sintetizzato l’insieme di queste critiche al capitalismo e all’industrialismo in due, come lui stesso li ha chiamati, “teoremi di impossibilità di Gandhi”:

  1. un continuo incremento di benessere materiale non assicura la felicità a causa della tendenza dei bisogni a moltiplicarsi ancora più velocemente;
  2. sarà impossibile per l’industrializzazione fornire una soluzione soddisfacente ai problemi economici dell’umanità.

Su di un terreno di ordine più generale, e più esplicitamente filosofico, si potrebbe forse sostenere che Gandhi critica della civiltà moderna innanzitutto la connessione tra ragione e violenza, tra la razionalità – o meglio un modo d’essere della razionalità, e soprattutto della razionalità scientifica – e i suoi esiti oppressivi. Sono indubbiamente molti i pensatori occidentali che possono venire in mente a questo proposito e che, ciascuno con lo stile e con l’apparato concettuale che gli sono stati propri, hanno sviluppato e approfondito considerazioni analoghe (Adorno e Horkheimer e la loro “Dialettica dell’Illuminismo”, Heidegger e il Gestell, Günther Anders, e altri).

Di conseguenza Gandhi sembra anche mettere in luce la discrepanza tra accrescimento tecnologico e potenzialità morali dell’uomo, nasce cioè un problema oggetto della riflessione etica nel momento in cui gli uomini si trovano a maneggiare macchine sempre più potenti mentre le loro qualità morali non si sono evolute in modo proporzionale (anche qui, svariati autori occidentali si sono mossi su piani similari: Hans Jonas, Henri Bergson, Stanley Milgram, ancora Anders).

Ripercorse, in estrema sintesi, le critiche che Gandhi rivolge alla modernità cerchiamo di enumerare, in modo altrettanto essenziale, i principali punti attorno ai quali si condensa l’alternativa che prova a delineare.

  1. Pare innanzitutto chiaro che una delle radici della nonviolenza gandhiana e la ragione di una lotta non armata si possa ritrovare, perlomeno in qualche misura, nel tentativo di sottrarsi alla colonizzazione culturale occidentale, cioè di non farsi contagiare dal substrato militare che, a detta di Gandhi, caratterizza l’Occidente e il suo modo di intendere i rapporti politici.
  2. Quindi, su un piano più direttamente economico, si pone l’esigenza che anche l’economia risponda il più possibile a criteri nonviolenti. L’economia per Gandhi non può che essere considerata una branca dell’etica, al suo centro deve stare il rispetto della dignità umana e la ricerca del sarvodaya, del benessere di tutti, infatti: “tra economia ed etica non traccio una linea divisoria né rigida né di alcun tipo. E l’economia che danneggia il benessere morale di un individuo o di una nazione è immorale e, perciò, peccaminosa. L’economia che permette a un paese di depredarne un altro è immorale. È peccaminoso comprare e usare articoli fatti da ‘mano d’opera sfruttata’”. ix Qui si trova un nodo teorico essenziale del pensiero di Gandhi, una visione monistica in forza della quale sia l’economia che la politica devono essere riassorbite entro l’ambito etico, possono valere solo se rispondono interamente a criteri morali.
  3. Una parola chiave dell’economia gandhiana è swadeshi, che si può tradurre come “autosufficienza”. Gandhi insiste sulla necessità di fare largo uso dei beni prodotti nel proprio territorio, specialmente di quelli lavorati a mano, anche se non nega certamente lo spazio del commercio e dello scambio. L’espressione Km 0, oggi in uso, può forse tradurre, almeno in parte, questo termine gandhiano, che ha però sfumature più complesse, perché designa anche una generale esigenza di riappropriazione della propria cultura e della propria tradizione.
  4. Qui si può inserire il discorso dei villaggi, e cioè il tentativo, seguendo la filosofia dello swadeshi e dello swaraj, di dare corpo a delle entità il più possibile autonome e indipendenti economicamente, entità di stampo prevalentemente rurale capaci altresì di riequilibrare quel rapporto città/campagna che secondo Gandhi, abbiamo visto, si è sbilanciato a favore della prima. L’arcolaio diviene simbolo dell’indipendenza economica (e conseguentemente anche politica) dell’India e dell’affrancamento rispetto all’acquisto dei prodotti tessili inglesi, oltre che mezzo economico che può permettere di raggiungere la piena occupazione.
  5. Relativamente alle macchine già si è accennato al fatto che Gandhi si esprime non per una loro abolizione totale ma per una limitazione che possa garantire l’occupazione dell’uomo e anche favorire un recupero delle sue capacità di lavoro manuale e, di conseguenza, della sua unità psicofisica, perché l’esasperazione tecnologica, secondo Gandhi, rischia anche di sfociare in una sorta di “atrofizzazione delle membra umane”.

Questi temi e altri costituiscono dunque il contenuto di quella che si è soliti, per l’appunto, definire “economia gandhiana” e che ha, ovviamente, in Gandhi il suo fondatore e l’autore delle intuizioni di partenza e in J.C. Kumarappa, un suo sodale e collaboratore, colui che può forse ritenersi non semplicemente il sistematizzatore e l’ordinatore di questa prospettiva economica, ma anche l’economista che ha contribuito in modo decisivo a svilupparla e approfondirla. Limitiamoci poi a ricordare che anche Romesh Diwan è stato un rappresentante di primo piano di questa scuola economica e che qui a Torino il professor Roberto Burlando si occupa da tempo di tale corrente di pensiero.

Rocco Altieri nell’edizione da lui recentemente curata di Hind Swaraj ha individuato, al termine del suo saggio introduttivo,x una serie di temi già presenti o accennati in questo testo che, nei decenni successivi sino all’epoca attuale, sono divenuti oggetto di approfondimento e di discussione, e si sono rivelati contributi “essenziali e anticipatori” di molte tendenze di pensiero e di studio.

Limitiamoci a riportare qui soltanto quelli più attinenti alla dimensione economica: la centralità del conflitto città/campagna; la critica ai modelli di sviluppo; la critica alle professionalità istituzionalizzate; la critica al monopolio tecnologico e di conseguenza la ricerca di tecnologie “dolci” e sostenibili; l’economia della parsimonia e della decrescita (un’altra espressione oggi molto usata è “semplicità volontaria”); la questione della protezione della natura. Un altro tema, che Altieri non ricorda, potrebbe essere quello dei beni comuni, presente certamente in Gandhi, ma forse non esplicitamente in Hind Swaraj.

Perché dunque, per arrivare a un punto e avviarci alla conclusione, una relazione su Hind Swaraj all’interno di questo seminario sul lavoro? Certamente se ci si intende occupare di lavoro e della crisi economico-finanziaria che stiamo attraversando può avere senso porsi, sin dalla partenza, la domanda se questa crisi possa trovare una soluzione operando all’interno del paradigma economico nel quale siamo collocati, o se invece la via d’uscita non consista nel porre in questione il paradigma stesso, nel prospettare una mutazione radicale del nostro modello di sviluppo, o perlomeno nel ripensarlo in alcune delle sue fondamenta, guardando e traendo ispirazione da modelli di sviluppo alternativi come appunto quello gandhiano.

Lasciamo questa domanda in sospeso e accenniamo ancora al fatto che Gandhi non deve in ogni caso essere visto come un critico dell’Occidente che guarda ad esso dall’esterno, giudicandolo senza possederne una conoscenza diretta e approfondita, bensì come un possibile punto di congiunzione fra Oriente e Occidente (categorie per certi aspetti forse generiche ma plausibili e solitamente usate dagli studiosi di Gandhi).

Le sue radici culturali sono state infatti tanto orientali quanto occidentali, il suo pensiero si è formato da un lato sui grandi testi della tradizione indiana (Bhagavadgita, Veda, Upanishad), dall’altro sullo studio di molti autori occidentali, quali ad esempio quelli citati nella breve bibliografia che conclude Hind Swaraj, Tolstoj in primo luogo, ma anche John Ruskin, Thoreau, Mazzini e numerosi altri; senza dimenticare che i Vangeli, e il sermone della montagna in particolare, sono stati una delle letture preferite di Gandhi e una fonte di ispirazione per la nascita della sua concezione della nonviolenza.

Per concludere questo intervento vorrei servirmi di una storia chassidica raccontata da Martin Buber. L’ho trovata riportata in un piccolo libro di Roberto Calasso, La follia che viene dalle Ninfe,xi una raccolta di brevi scritti di vario genere; uno di questi s’intitola Il teatro di posa della mente ed è una affascinante, e forse un po’ spericolata, interpretazione de La finestra sul cortile di Hitchcock riletta attraverso categorie vedantiche.

Nelle righe conclusive Calasso ricorda dunque questa storia nella quale a Cracovia il rabbino Eisik figlio di Jekel sogna più di una volta che a Praga sotto il ponte che conduce al castello reale si trova un tesoro. Il rabbino decide di mettersi in viaggio, giunge a Praga ma scopre che il ponte è sorvegliato giorno e notte da alcune guardie. Non ha il coraggio di avvicinarsi ma resta nei paraggi continuando a vagare nei dintorni. Il capitano delle guardie, notato il suo andirivieni, gli si avvicina domandando il motivo della sua presenza in quel posto, il rabbino racconta allora il sogno fatto. Il capitano, ascoltatolo, si mette a ridere, lo prende in giro per essere venuto sino a lì per un semplice sogno e gli racconta a sua volta una storia:

“Pensa – dice – che se i sogni corrispondessero a verità io in questo momento dovrei fare un viaggio esattamente inverso al tuo, infatti ho sognato che a Cracovia nella casa di un rabbino di nome Eisik figlio di Jekel, dietro la stufa, si trova un tesoro. Figurati, andare a Cracovia dove metà degli ebrei si chiamano Eisik e l’altra metà Jekel”. Il rabbino, ascoltato il racconto del capitano, torna a casa, guarda dietro la stufa di casa propria e lì trova un tesoro.

Calasso ricorda che un grande indologo, Heinrich Zimmer, sosteneva che il “succo” di questa storia non è che il tesoro che cerchiamo può rivelarsi più vicino di quel che sembra, questo sarebbe infatti un esito piuttosto banale, il punto decisivo è invece che, a volte, per scoprire un tesoro che si trova accanto a noi occorre che a indicarcelo sia uno straniero. Calasso conclude dicendo: “L’India (e non solo l’India) potrebbe essere per noi quello che il capitano delle guardie fu per Rabbi Eisik”.xii

Appropriandoci di questa parole e restringendo il campo, potremmo forse dire che Gandhi potrebbe assolvere per noi la funzione del capitano delle guardie. Gandhi può rivelarsi infatti uno stimolo prezioso per mettere in piena luce quello che, in fondo, già si trova all’interno dell’Occidente. La tradizione occidentale possiede già in sé, se li si vuole cercare, gli anticorpi culturali necessari a una continua critica e discussione delle proprie idee dominanti.

Verrebbe quasi da concludere perciò che di Gandhi, volendo, se ne può fare persino a meno, perché le linee di molte alternative possibili stanno già nascoste dietro la nostra “stufa”. Basti, per fornire un piccolo indizio in tal senso, ricordare la figura di Robert Owen. Owen nell’Inghilterra di inizio Ottocento sosteneva già non poche delle idee che Gandhi enuncerà circa un secolo dopo, e le sosteneva, peraltro, non da intellettuale autonomo e libero da vincoli, bensì da proprietario di fabbriche.

Riteneva che non si potesse valutare qualsiasi elemento economico in base al semplice profitto, che al centro dell’economia dovesse trovarsi la dignità dell’uomo, sottolineava l’urgenza di interventi sociali, affermava che la macchina non deve entrare in competizione con l’uomo e pensava anche a delle comunità rurali, che possono ricordare i villaggi gandhiani, nelle quali all’uomo fosse consentito di non perdere il contatto con la terra e con il lavoro manuale.

Si è poi fatto paladino di proposte che oggi ci appaiono del tutto ovvie – quali ad esempio il divieto di assumere bambini di età inferiore ai dieci anni, o la formulazione di un orario di lavoro non superiore alle dieci ore e mezzo al giorno – ma che nell’Inghilterra dell’epoca evidentemente non lo erano. A riprova del fatto che l’Occidente è stato capace di individuare e correggere alcune delle proprie aberrazioni. Naturalmente molti sono ancora i miglioramenti auspicabili e possibili, anche perché di continuo si aprono nuovi problemi e scenari almeno parzialmente inediti, le risorse morali e intellettuali però non sembrano mancare nella nostra civiltà, magari talvolta per trovarle occorre l’indicazione di qualcuno che, come Gandhi, proviene da un po’ più lontano.

*Relazione presentata al Centro Gobetti di Torino il 3 dicembre 2011, nell’ambito di un seminario sul lavoro ideato e condotto da Pietro Polito.

Note

i M. Gandhi, The Collected Works of Mahatma Gandhi, The Publications Division, Ministry of Information and Broadcasting, Government of India, New Delhi 1979, 2001².

ii G. Sharp, The Politics of Nonviolent Action, Porter Sargent Publishers, Boston 1973 (tr. it. Politica dell’azione nonviolenta, 3 v., Gruppo Abele, Torino 1985-1997).

iii Nel 1910 è uscita una traduzione inglese curata dallo stesso Gandhi, del 1938 è un’edizione riveduta.

iv M. Gandhi, Hind Swaraj. Vi spiego i mali della civiltà moderna, a cura di R. Altieri, Gandhi Edizioni, Pisa 2009, pp. 51-52. Questa edizione di Hind Swaraj (d’ora in poi HS), uscita nell’anno del centenario della prima pubblicazione, è la terza traduzione italiana di quest’opera e certamente quella più accurata filologicamente; le due traduzioni precedenti sono: M. Gandhi, Civiltà occidentale e rinascita dell’India, Movimento Nonviolento, Verona 1984, e quella compresa in M. Gandhi, La forza della verità, Sonda, Torino 1991.

v M. Gandhi, “Young India”, 17 marzo 1927, cit. in M. Gandhi, La voce della verità, Newton Compton, Roma 1993², p. 203 (d’ora in poi VV).

vi HS, p. 57

vii M. Gandhi, “Young India”, 13 novembre 1924, cit. in VV, p. 234.

viii M. Gandhi, “Harijan”, 13 gennaio 1940, cit. in VV, p. 213.

ix M. Gandhi, “Young India”, 13 ottobre 1921; ancora più esplicitamente: “l’estensione della legge della nonviolenza all’ambito dell’economia non significa nulla di meno che l’introduzione dei valori morali, da prendere in considerazione nel regolare il commercio internazionale”, “Young India”, 26 dicembre 1924 (cit. in VV, p. 200).

x HS, p. 27.

xi R. Calasso, La follia che viene dalle Ninfe, Adelphi, Milano 2005

xii Ivi, p. 64.


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