Le rivoluzioni arabe e il potere dell’azione nonviolenta

Stephen Zunes

Seduto recentemente a un caffè del Cairo ad appena due isolati da piazza Tahrir, non ho potuto fare a meno di notare la televisione nell’angolo che trasmetteva le notizie serali. Tradizionalmente, il telegiornale in Egitto e altri paesi arabi è consistito in un discorso del presidente (o del re), nella sua accoglienza a un visitatore straniero, nella sua visita a una fabbrica, o in qualche altra sua funzione ufficiale. Ma quella sera le notizie riguardavano uno sciopero ad Alessandria, i parenti degli uccisi durante la rivoluzione di febbraio che protestavano davanti al Ministero dell’Interno, e i continui sviluppi nelle lotte pro-democrazia in Yemen e Siria.

Nulla potrebbe illustrare meglio il profondo cambiamento nel mondo arabo durante l’anno in corso: non sono più solo i capi oggetto delle notizie, ma la gente stessa. Si è appannato l’ottimismo iniziale per cui insurrezioni civili disarmate, come quelle che estromisero i dittatori tunisino ed egiziano a inizio d’anno, avrebbero presto spazzato il mondo arabo nel modo in cui fecero cadere i regimi comunisti in Europa orientale nel 1989. La repressione perdurante da parte della giunta militare sostenuta dagli USA in Egitto serve da monito che rovesciare un dittatore è solo un primo passo di una transizione alla democrazia. E la rivoluzione armata sostenuta dalla NATO in Libia e le conseguenti uccisioni extra-giudiziarie di Muammar al-Gheddafi e dei suoi sostenitori hanno gettato un fosco velo su quello che era stato un fenomeno regionale per lo più nonviolento.

Ci sono tuttavia ancora ragioni per sperare che la cosiddetta “Primavera araba” trasformi in meglio il Medio Oriente.

Un cambiamento politico importante richiede tempo. C’è voluto quasi un decennio fra i primi scioperi al cantiere navale di Danzica e la caduta del comunismo in Polonia. Alla lotta democratica in Cile contro il regime di Pinochet ci vollero tre anni fra le prime proteste importanti e il referendum che costrinse il dittatore a mollare il potere. Il movimento People Power del 1986 che rovesciò Ferdinand Marcos nelle Filippine fu il culmine di parecchi anni di lotta popolare contro il regime che si reggeva con la la legge marziale. Anche movimenti di riforma nelle democrazie industrializzate possono aver bisogno di anni di lotta, come quello per i diritti civili nel Sud degli USA.

In effetti, avere ragione e avere dalla propria parte la maggioranza della popolazione non basta. Dev’esserci una pianificazione strategica a vasto raggio, la definizione di una sequenza tattica logica, e la capacità di approfittare dei propri elementi di forza per colpire le debolezze dell’avversario. In paesi dove la società civile è stata tradizionalmente debole e l’apparato repressivo statale forte, sono rare le vittorie rapide.

Però i drammatici avvenimenti di quest’anno sono serviti da monito su dove s’annida in definitiva il potere: anche se un governo ha un monopolio di forza militare e il sostegno dell’unica superpotenza mondiale superstite, è in definitiva impotente se la gente rifiuta di riconoscerne l’ autorità. Con scioperi generali che riempiono le strade, il rifiuto di massa di obbedire a ordini ufficiali e altre forme di resistenza nonviolenta, anche il più autocratico regime non può sopravvivere.

Freedom House, nel suo studio del 2005 How Freedom Is Won: From Civic Resistance to Durable Democracy (Come si ottiene la libertà: dalla resistenza civica alla democrazia duratura), osservava che, dei quasi 70 paesi che sono passati dalla dittatura a vari gradi di democrazia nei 30 anni precedenti, solo una piccola minoranza l’ha fatto con una lotta armata dal basso o mediante riforme promosse dall’alto. Quasi nessuna nuova democrazia è sorta da un’invasione straniera. In quasi tre quarti delle transizioni, il cambiamento era radicato in organizzazioni democratiche della società civile che impiegavano metodi nonviolenti.

Analogamente, nel libro di recente pubblicazione Why Civil Resistance Works: The Strategic Logic of Nonviolent Conflict (Perché funziona la resistenza civile: la logica strategica del conflitto nonviolento), le autrici Erica Chenoweth e Maria Stephan usano un vasto data-base che analizza 323 principali insurrezioni a sostegno dell’auto-determinazione e di un governo democratico a partire dal 1900. Hanno constatato che la resistenza violenta ebbe successo solo nel 26% dei casi, mentre invece le campagne nonviolente sono arrivate al 53%.

Dalle nazioni più povere dell’Africa ai paesi relativamente benestanti dell’Europa orientale; dai regimi comunisti alle dittature militari di destra; da tutto lo spettro culturale, geografico e ideologico, le forze democratiche e progressiste hanno riconosciuto il potere dell’azione nonviolenta per liberarsi dall’oppressione. Ciò è avvenuto per lo più non per un impegno morale o spirituale alla nonviolenza di per sé, ma semplicemente perché funziona.

C’è una lunga storia di resistenza nonviolenta in Medio Oriente, dalla lotta per l’indipendenza in Egitto del 1919 contro i britannici alla Rivoluzione dei Cedri in Libano del 2006 che pose fine ad anni di dominazione siriana del paese. L’Iran ha una lunga storia di tali insurrezioni, fra cui lo Sciopero del Tabacco degli anni 1890, la Rivoluzione Costituzionale del 1906, il rovesciamento dello scià nel 1979, e la Rivoluzione Verde abortita del 2009. La Palestina ha avuto lo sciopero generale degli anni 1930, la prima intifada verso la fine degli anni 1980, e altre recenti campagne contro il muro di separazione e l’espansione degli insediamenti di Israele in Cisgiordania. In Sudan, insurrezioni disarmate hanno estromesso dittature militari sia nel 1964 che nel 1985 (benché i governi democratici che seguirono fossero infine rovesciati da colpi di stato militari). C’è inoltre da tempo una persistente campagna di resistenza nonviolenta nella nazione sah’rawi (del Sahara Occidentale,ndt) contro l’occupazione illegale marocchina.

I drammatici avvenimenti di quest’anno segnano una nuova ed emozionante escalation di un fenomeno che è andato crescendo negli ultimi anni nella regione e in tutto il mondo. È un monito che, affinché nasca la democrazia nel mondo arabo, non sarà mediante la lotta armata, l’intervento straniero o dichiarazioni ipocrite di Washington, ma da parte dei popoli arabi che utilizzino il potere dell’azione strategica nonviolenta.


2.12.11
Traduzione di Miky Lanza per il Centro Sereno Regis
Titolo originale: Arab Revolutions And The Power Of Nonviolent Action
[Stephen Zunes è professore di politica e coordinatore del programma di studi mediorientali all’Università di San Francisco]
Copyright © The National Catholic Reporter Publishing Company?115 E. Armour Blvd., Kansas City, MO 64111


 

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