Il cerchio di Panikkar – Recensione di Nanni Salio
Francesco Comina, Il cerchio di Panikkar, Prefazione di Serge Latouche, Il Margine, Trento 2011, pp. 167
Per conoscere bene alcuni autori ci vuole tempo. Uno di questi è sicuramente Raimon Panikkar. La sua produzione è vastissima e tocca molteplici temi in una visione olistica. Diciamo subito, allora, che il pregio del lavoro di Francesco Comina è di aver saputo condensare in un testo relativamente conciso e di grande chiarezza gli aspetti essenziali del pensiero di Panikkar, mettendo a disposizione di chi voglia accostarsi a questo autore una guida di grande utilità. Aiuta in questo compito anche l’artificio editoriale di scrivere a fondo pagina le parole chiave lungo le quali si articola il libro e il pensiero di Panikkar, anche con alcune di carattere al tempo stesso aneddotico e conoscitivo. Lascio al lettore scoprire perché tra le altre è stata scelta la parola chiave “caramelle”.
Questo lavoro non nasce solo da un interesse intellettuale, ma da una frequentazione e amicizia che hanno permesso all’autore di trasmettere anche sul piano empatico il messaggio e le profonde invenzioni concettuali elaborate da Panikkar, come nel dialogo conclusivo.
Se l’idea di “cerchio”, dalla quale prende il titolo il libro, è comune a molte tradizioni culturali che vedono il tempo, la vita e la morte non in una prospettiva lineare, ma appunto circolare, uno dei concetti che può maggiormente colpire per la sua rilevanza, ma anche per l’innovazione linguistica, è quello della visione cosmoteandrica della realtà. Con un solo vocabolo, che a prima vista può sembrare oscuro, Panikkar esprime la visione unitaria olistica di cosmo-dio-uomo.
Nei vari capitoli, Francesco Comina ci conduce a scoprire le numerose riflessioni di Panikkar sui temi più disparati: pace e guerra, ecosofia, scienza, religioni, ecumenismo, dialogo.
Sono stato piacevolmente colpito dai riferimenti al pellegrinaggio al Kailsah, la montagna sacra in terra tibetana, che Panikkar compie già settantenne. La sua descrizione mi ricorda l’emozione che provai anch’io nel compiere quel pellegrinaggio anni orsono. Dice Panikkar:
“Il pellegrinaggio al Kailasa apre un terzo occhio… l’esperienza di un’altra dimensione della realtà. Paradossalmente la materia è in correlazione con lo spirito dell’esperienza cosmoteandrica. Il Kailasa appare come una gigantesca roccia soffusa di Spirito, così come è rivestita di neve. Qui ho udito di nuovo il “sermone della montagna”. Era più del sermone sulla montagna e più anche del sermone lungo il cammino. Più di ciò che disse il poeta: ‘Grandi cose, non inferiori, sono fatte quando gli uomini e le montagne si incontrano’ dice A.K.Coomaraswamy. Queste grandi cose non si fanno urtandosi per strada”. (p. 153)
E l’alpinista che è in me si ritrova nella frase del grande scalatore francese Gaston Rebuffat, citata da Panikkar:
“L’alpinista è un uomo che conduce il proprio corpo là dove un giorno i suoi occhi hanno guardato. E che ritorna.”
Come Martin Luther King, anche Panikkar è “salito sulla montagna”, ha visto oltre, se ne è andato, ma è ancora con noi, nella compresenza capitiniana e nella sua straordinaria eredità e fecondità intellettuale.
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