Dire l’indicibile aiuta i processi di pace? – Recensione di Dario Cambiano

Andrea Minuz, La shoah e la cultura visuale, Bulzoni Editore, Roma 2010

Mi sono a lungo interrogato prima di trovare una linea di recensione di questo complesso libro firmato da Minuz. Recensire per il nostro Centro Studi vuol dire provare a trovare cosa, nella infinità della letteratura, può, con la propria visione, con l’analisi di frammenti di realtà, contribuire a rischiarare l’orizzonte dei processi di pace, dire una parola in più che permetta di rendere l’evoluzione umana verso la pace e l’uso della nonviolenza più completa e consapevole.

Il libro di Minuz affronta l’indicibilità della Shoah e i suoi riflessi sul mondo visuale: per decenni il mondo moderno si è trincerato dietro la inesprimibilità dell’orrore rappresentato dalla Shoah per mettere tra sé e l’evento più tragico del Novecento il baratro del silenzio. Indicibile, la Shoah, perché lontana, mostro che rende attoniti perché innaturale, non insito nella natura umana, da rigettare, evento tragico ma irripetibile in quanto “non umano”.

Questo per anni. Poi, gradualmente, il “mostro” è stato descritto grazie al cinema, documentario prima e di fiction poi: un media che diventa parallelo esistenziale, transfer emotivo delle genti. E così il visibile si accolla l’onere di descrivere l’indicibile, e col tempo questo indicibile, mediato da mille diverse narrazioni, discende dall’empireo della mitologia tragica e diviene realtà, evento su cui diviene lecito confrontarsi, dire, dibattere, polemizzare. Trattato come un evento che pian piano si comprende nell’ambito dell’esperienza umana, la Shoah diviene narrazione ma anche business, spettacolo, perfino attrazione erotica.

Di tutta questa analisi, approfondita e competente, ricca di spunti per approfondire la riflessione sul pensiero occidentale del Novecento e le sue aberrazioni, resta a chi si occupi di nonviolenza e processi di pace la convinzione che l’orrore provato di fronte alla Shoah, il tentativo di allontanare da noi quell’evento per convincerci che non fosse anche, in qualche oscura e recondita misura, “nostro”, è stato forse inevitabile data l’immensità dell’abisso di fronte cui il nazismo ci ha posti, ma in ogni caso un errore: il confronto con la violenza, che ci sia estranea o ci appartenga, e a maggior ragione se in qualche oscura maniera la sentiamo vivere dentro la nostra “ombra”, è l’unica via per superarla. Con la coscienza che il veto posto dagli intellettuali del Novecento, culminato con l’imperativo categorico di Adorno (“scrivere poesie dopo Auschwittz è un atto di barbarie”) è stato il tentativo, umanissimo, di rifiutare che i semi di tale aberrante evento fossero umani.

Il libro firmato da Minuz si occupa di tutta la cultura visuale, dalle polemiche nate dal confronto di “Shoah” di Lantzmann e “Schindler’s list” di Spielberg, alla scelta di quale impostazione museale dare al Memorial di Washington e al Museo ebraico di Berlino; analizza il pensiero che in pittura e scultura ha portato alle opere “post-sterminio” e a quel tema dedicate; si sofferma sulla questione dello “sguardo”, dando atto che una parte del dibattito sull’indicibilità si è concentrata sullo sguardo – esemplare l’analisi di una sequenza di “Schindler’s list” – che rappresenta la coscienza di chi poteva sapere ma ha preferito non guardare, non affrontare il dramma, non prenderne coscienza.

Accettare e superare la nostra “ombra”, dunque, i nascosti semi della violenza, con la consapevolezza che le loro radici sono dentro di noi, come splendidamente esemplifica l’artista polacco Libera, costruendo, in una sua opera, un lager fatto di Lego. La quotidianità, la banalità del male, una delle radici profonde del pensiero occidentale.

 


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