Guerra senza umani – Barbara Ehrenreich

Per essere un libro sulle “passioni di guerra” tutte umane, il mio lavoro del 1997 “Blood Rites” (Riti di sangue, Feltrinelli, Milano 1998, ndt) termina con una nota stranamente inumana, dove suggerisco che, qualsiasi qualità umana la guerra esorti – onore, coraggio, crudeltà, e così via – potrebbe essere utile smettere di pensare alla guerra in termini esclusivamente umani. Dopo tutto, certe specie di formiche si fanno la guerra, e i computer possono simulare “guerre” rappresentandole su schermo senza alcun intervento dell’uomo.

Più in generale, quindi, dovremmo definire la guerra come un modello auto-replicante di attività che possono o meno richiedere la partecipazione umana.

Per quanto riguarda l’essere umano, sappiamo che è in grado di diffondersi geograficamente ed evolversi rapidamente – qualità che, come ho suggerito in maniera un po’ fantasiosa, fanno della guerra un successore metaforico degli animali predatori, che come prima cosa hanno plasmato gli uomini in combattenti.

Una quindicina di anni dopo, queste riflessioni non sembrano più così vaghe ed astratte. La tendenza, alla fine del XX secolo, sembra essere ancora un uso massiccio di esseri umani in guerra – dagli eserciti da decine di migliaia di elementi del diciottesimo secolo, alle centinaia di migliaia del diciannovesimo, fino ai milioni di elementi delle guerre del ventesimo secolo.

È stata la portata sempre maggiore della guerra che in origine ha richiamato l’esistenza dello stato-nazione come una unità amministrativa capace di mantenere grandi eserciti e infrastrutture – per la tassazione, la produzione di armi, trasporto, ecc. – che richiedono. La guerra è, e ci aspettiamo che sia, il più grande progetto collettivo che l’essere umano abbia mai intrapreso. Ma si è evoluto rapidamente nella direzione in cui l’essere umano ha un ruolo sempre più marginale.

Un fattore che ha portato a questo cambiamento è stato l’emergere di un nuovo tipo di nemico, i cosiddetti “attori non appartenenti allo stato”, ovvero insurrezioni popolari e reti internazionali di combattenti, nessuna delle quali probabilmente ha truppe numerose ed arsenali costosi da mantenere. Di fronte a questi nuovi nemici, impersonati in al-Qaeda, gli eserciti enormi di stati-nazione sono piuttosto inefficaci, sono ingombranti nel dispiegamento, difficili da manovrare, e da un punto di vista domestico, troppo dipendenti da una popolazione che sia disposta, ed in grado, di combattere, o che almeno lo siano i suoi figli.

Eppure, così come i cadetti dell’esercito degli Stati Uniti, a dispetto della realtà militare, continuano a ostentare spade e uniformi militari, i nostri leader, sia militari che politici, tendono ad aggrapparsi all’idea di guerra come ad un grande sforzo, come durante la Seconda Guerra Mondiale. Solo lentamente, e con una certa riluttanza quasi fobica, i leader dei maggiori paesi hanno cominciato a capire che questo approccio militare sarà presto obsoleto.

Consideriamo la più recente guerra degli Stati Uniti contro l’Iraq. Secondo l’allora presidente George W. Bush, il casus belli fu l’attacco terroristico dell’11 settembre. Il legame tra l’evento terroristico e il nostro nemico prescelto, l’Iraq, è stato impercettibile a tutti, esclusi gli intellettuali più scrupolosi a Washington. Diciannove uomini hanno dirottato degli aeroplani e si sono schiantati contro il Pentagono e il WTC – 15 Sauditi, nessun Iracheno – e noi dichiariamo guerra all’Iraq?

Nella storia militare non ci sono altri precedenti di una simile sfrenata ritorsione. Le analogie più vicine vengono dall’antropologia, che fornisce abbondanti casi di società in scala ridotta dove la morte di qualsiasi membro, per qualsiasi motivo, deve essere “vendicata” con un attacco contro un villaggio o una tribù scelti a caso.

Perché l’Iraq? Le ambizioni imperialiste dei Neocon sono state invocate per la spiegazione, così come la sete di petrolio americana, o anche come un complesso di Edipo di George W. Bush verso il padre. Senza dubbio c’è qualcosa di vero in tutte queste spiegazioni, ma la scelta dell’Iraq rappresentava anche una risposta disperata e irrazionale a una situazione militare di assoluta confusione per Washington.

Abbiamo affrontato un nemico senza stato – diffuso geograficamente, senza uniformi né bandiere, invulnerabile all’invasione della fanteria e ai bombardamenti, apparentemente in grado di rigenerarsi a spese minime. Dal punto di vista del Segretario alla Difesa Donald Rumsfield e dei suoi compari alla Casa Bianca, tutto questo non andava bene.

Dal momento che gli Stati Uniti erano abituati a combattere altri stati-nazione – le entità geopolitiche con bersagli identificabili come capitali, aeroporti, basi militari, e depositi di munizioni – dovevamo trovare una nazione-stato da combattere, o come dice Rumsfeld, un “ambiente ricco di bersagli”. L’Iraq, gonfiato da presunte “arme di distruzione di massa”, è diventato il sostituto designato di un nemico che si rifiuta di giocare al nostro gioco.

Gli effetti di questa guerra atavica si stanno ancora contando: in Iraq, dovremmo includere le morti civili, stimate attorno alle centinaia di migliaia, la distruzione delle infrastrutture civili, e lo scoppio di devastanti violenze settarie che, come abbiamo imparato dalla dissoluzione della Jugoslavia, possono facilmente seguire la morte o la rimozione di un dittatore nazionalista.

Ma gli effetti della guerra per gli Stati Uniti e i suoi alleati potrebbero essere quasi tragici. Invece di punire i terroristi che hanno attaccato gli Stati Uniti, la guerra sembra esser riuscita ad aumentare il reclutamento di forze irregolari, giovani uomini (e in alcuni casi donne) disposti a morire, pronti a commettere nuovi atti terroristici o di vendetta. Insistendo nel combattere uno stato-nazione scelto a caso, gli Stati Uniti non possono che aumentare le minacce da non-stati.

Eserciti poco maneggevoli

Qualunque cosa si pensi su quello che gli Stati Uniti e i suoi alleati abbiano fatto in Iraq, molti leader nazionali stanno cominciando a riconoscere che le convenzioni militari stanno diventando, nel senso strettamente militare, quasi ridicolmente anacronistiche. Non solo sono inadatte per sconfiggere le insurrezioni, le piccole bande di terroristi e i combattenti irregolari, ma i grandi eserciti sono semplicemente troppo scomodi da disporre in tempi brevi.

Nel gergo militare, sono appesantiti nel rapporto “denti-coda”, una misura del numero di combattenti effettivi rispetto al personale di supporto e l’equipaggiamento richiesto. Sia i falchi che i liberal-interventisti desiderano realizzare un ponte aereo che porti decine di migliaia di soldati in luoghi molto distanti in una sola notte, ma questi soldati dovranno essere preceduti o accompagnati da tende, mense, furgoni, attrezzature mediche, eccetera. Il “sorvolo” dovrà essere concesso dai paesi vicini; spazi aerei ed eventuali basi dovranno essere costruite; dovranno essere creati e difesi i rifornimenti, e tutto questo può richiedere mesi per la realizzazione.

La lentezza di questa massa militare enorme è diventata una fonte costante di frustrazione per i leader civili. Irritata dall’esitazione del Pentagono di mettere “piede sul suolo” bosniaco, l’allora Segretario di Stato Madeline Albright fece questa famosa domanda al Segretario della Difesa Colin Powell: “A cosa ci serve questa meravigliosa forza militare se non la usiamo mai?”. Nel 2009 l’amministrazione Obama ha proposto senza pensarci un aumento delle truppe in Afghanistan, seguito da un ritiro entro un anno e mezzo, il che richiedeva che alcune truppe iniziassero a fare le valige appena arrivati. Ai militari americani ci sono voluti due mesi per organizzare il trasporto di 20.000 soldati ad Haiti in seguito al terremoto del 2010 – e dovevano viaggiare per sole 700 miglia, per una missione di soccorso umanitario, non una guerra.

Un’altra cosa che fa arrancare i grandi eserciti è la crescente riluttanza delle nazioni, in particolare quelle più democratiche, a rischiare un gran numero di vittime. Non è più accettabile guidare uomini in battaglia sotto minaccia o chieder loro di badare a se stessi in territorio straniero. Una volta che migliaia di soldati sono stati gettati in un “teatro”, devono essere poi difesi dalla gente del posto potenzialmente ostile, un progetto che spesso finisce per sostituire la missione originale.

Potremmo non essere in grado di articolare con chiarezza quello che le truppe americane avrebbero dovuto fare in Iraq o in Afghanistan, ma senza dubbio una parte del loro lavoro è di “proteggere le forze armate”. In quello che potrebbe essere considerato l’opposto di una “missione strisciante”, invece di espandersi, la missione ora ha la tendenza a svolgere un ruolo di auto difesa.

Alla fine, i grandi eserciti dell’era moderna, con sistemi d’armamento sempre più costosi, diventano un peso economico inaccettabile per gli stati-nazione che li supportano – un fardello che potrebbe mettere a repentaglio gli stessi militari. Consideriamo quello che è successo all’unica superpotenza militare del mondo, gli Stati Uniti. Al momento, l’ultima stima del costo delle guerre in Iraq e Afghanistan è di 3.200 miliardi di dollari, mentre la spesa totale dell’esercito americano è uguale a quella di altri 15 paesi messi assieme, ed è pari a circa il 47% delle spese militari mondiali.

A questo si deve aggiungere il costo della cura dei feriti e dei veterani, che cresce velocemente così come il progresso della medicina permette alla maggior parte dei feriti di sopravvivere. L’esercito degli Stati Uniti è stato al riparo dalle conseguenze della sua stessa proliferazione grazie a un supporto politico bipartisan che lo ha magicamente tenuto fuori dai tagli di budget, anche se il debito pubblico si sta gonfiando a livelli giudicati insostenibili.

La destra in particolare ha fatto una campagna senza tregua contro il “big government”, a quanto pare senza accorgersi che i militari sono un pezzo consistente di questo colosso. Nel dicembre del 2010 ad esempio, un senatore repubblicano dell’Oklahoma tuonava contro il debito nazionale con questa dichiarazione: “Siamo davvero in guerra. Ora combattiamo su 3 fronti: Iraq, Afghanistan, e lo tsunami finanziario [derivato dal debito] che ci sta minacciando”. Solo di recente abbiamo alcuni legislatori affiliati al Tea Party che hanno rotto con la tradizione e hanno dichiarato la loro volontà di tagliare le spese militari.

Come il Warfare State è diventato Welfare State

Se la spesa militare è ancora per la maggior parte sacrosanta, sempre più tagli alla spesa sono richiesti per diminuire il “big government”. Allora quello che rimane è tagliare la spesa interna, specialmente i programmi sociali per i poveri, che non hanno i mezzi per finanziare i politici, e troppo spesso neanche l’incentivo al voto. Dagli anni di Reagan in poi, il governo degli Stati Uniti ha tagliato dozzine di programmi che aiutavano il sostegno di sottopagati e disoccupati, inclusi i sussidi per la casa, assicurazioni sanitarie statali, trasporto pubblico, sussidi ai genitori single, aiuti per le tasse scolastiche, e progetti di sviluppo economico cittadini.

Anche le infrastrutture – ponti, aeroporti, strade e gallerie – usate da ogni tipo di persona sono stati lasciati a livelli di abbandono pericoloso. Manifestanti anti-guerra tristemente fanno notare, anno dopo anno, che i soldi usati per le nostre armi high-tech, la nostra rete mondiale di oltre 1.000 basi militari, e i nostri vari “interventi”, potrebbero essere usati per i bisogni interni della popolazione. Ma senza alcun risultato.

L’attuale sacrificio del welfare domestico a vantaggio della “prontezza” militare rappresenta un’inversione di tendenza storica. Fin dall’introduzione di grandi eserciti nell’Europa del XVII sec, i governi hanno generalmente capito che sottopagando e affamando le proprie truppe – e le persone che li riforniscono – c’è il rischio di avere le armi puntate dalla parte contraria a quella suggerita dagli ufficiali.

Infatti, i moderni stati assistenziali, per quanto inadeguati, sono in piccola parte il prodotto della guerra – ovvero il tentativo del governo di placare i soldati e le loro famiglie. Negli Stati Uniti ad esempio, la Guerra Civile ha portato all’istituzione dei benefici per le vedove, il predecessore al welfare con i suoi aiuti ai single con figli a carico. Fu il bellicoso leader tedesco Otto Von Bismarck che per primo istituì l’assicurazione sanitaria nazionale.

La Seconda Guerra Mondiale ha dato il via a benefici per l’educazione e sostegni al reddito per i veterani Americani e ha portato, nel Regno Unito, a un welfare piuttosto generoso, comprendendo l’assistenza sanitaria gratuita per tutti. Nozioni di giustizia ed equità sociale, o almeno il timore di insurrezioni della classe operaia, hanno certamente fatto la loro parte nello sviluppo del welfare durante il XX secolo, ma allo stesso tempo c’era una motivazione pragmatica da parte dei militari: se una popolazione giovane viene cresciuta per poi essere arruolata, questa dovrà essere in salute, ben nutrita e ragionevolmente istruita.

Negli Stati Uniti, il progressivo inaridimento dei programmi sociali, che potrebbero nutrire le truppe future serve, ironicamente, per giustificare l’aumento delle spese militari. In assenza di un programma federale per il lavoro, i rappresentanti del Congresso sono diventati feroci sostenitori dei sistemi di armamenti che il Pentagono stesso non usa più, fino a che la fabbricazione di queste armi può fornire lavoro per alcuni dei loro elettori.

Con la diminuzione dei fondi per l’educazione superiore, il servizio militare diventa un’alternativa meno triste per un giovane lavoratore rispetto ai lavori sottopagati che lo aspetterebbero. Gli Stati Uniti hanno ancora un welfare civile che consiste in gran parte in programmi per anziani (Medicare e Social Security). Per molti giovani americani, comunque, così come per i vecchi veterani, l’esercito è il welfare – e una fonte, sebbene temporanea, di lavoro, alloggio, assistenza sanitaria ed istruzione.

Alla fine comunque, l’incapacità degli Stati Uniti di investire in risorse umane – spendendo per la sanità, istruzione, ecc. – mette in pericolo lo stesso esercito. Durante la Prima Guerra Mondiale, gli esperti di salute pubblica rimasero sconvolti nello scoprire che un terzo dei coscritti veniva scartato perché fisicamente non idoneo al servizio militare, era troppo debole o invalidato dagli incidenti sul lavoro.

Diverse generazioni dopo, nel 2010, il Segretario all’Istruzione degli Stati Uniti ha riferito che “il 75% dei giovani americani, tra i 17 ed i 24 anni, non possono arruolarsi nell’esercito perché non hanno preso il diploma, hanno precedenti penali o non sono adatti fisicamente”. Quando una nazione non è più in grado di generare abbastanza giovani idonei al servizio militare, quella nazione ha due scelte: può, come alcuni generali in pensione stanno sostenendo, reinvestire nel suo “capitale umano”, soprattutto nella salute e nell’istruzione per i poveri, oppure rivalutare seriamente il suo approccio alla guerra.

Nebbia di Guerra (Robotizzata)

Dato che le attitudini anti-governative della destra nella politica americana escludono la prima ipotesi, gli Stati Uniti hanno sviluppato una forma di guerra meno intensiva. Questo in Afghanistan e Iraq può dimostrare di essere il sistema definitivo: se questi conflitti non danno vantaggi geopolitici, hanno certamente fatto da laboratorio per le future forme di guerra impegnando meno personale, o almeno meno personale governativo.

Un primo passo in questa direzione è stato l’uso sempre maggiore dei contractors forniti da aziende private, che può essere visto come una rinascita dell’uso di mercenari come nei tempi passati. Sebbene la maggior parte delle funzioni appaltate alle compagnie private – tra cui il servizio di ristorazione, lavanderia, trasporto, e costruzione – non implicano il combattimento, sono però molto pericolose, dato che certi contractors hanno il ruolo di sorvegliare i convogli e le basi militari.

I contractors sono uomini e donne che sanguinano e muoiono, e i numeri che sorprendono sono proprio quelli delle loro morti. Durante i primi sei mesi del 2010 in Afghanistan e Iraq, per la prima volta le morti del personale privato hanno superato quelle dei militari. Ma il Pentagono ha ben poca responsabilità, se non addirittura nessuna, per l’addestramento, l’alimentazione e la cura dei contractors privati. Se ferito fisicamente o psicologicamente, il contractor americano deve, come qualsiasi altro lavoratore civile infortunato, riferirsi al Workers’ Compensation, quindi l’impressione è quella di un “esercito usa e getta”. Dal 2009 la tendenza alla privatizzazione è andata così avanti che il numero dei contractors ha superato il numero delle truppe americane in Afghanistan.

Un approccio alternativo è quello di eliminare, o ridurre drasticamente, la dipendenza dalle persone per l’esercito. Questa proposta sarebbe stata impensabile solo poche decine di anni fa, ma le tecnologie impiegate in Iraq e Afghanistan hanno spogliato l’essere umano del suo ruolo. I droni, manovrati negli Stati Uniti occidentali, distanti anche 7.500 miglia, stanno rimpiazzando i piloti umani.

Videocamere posizionate sui droni sostituiscono gli scout umani per le informazioni. I robot disinnescano le bombe per le strade. Quando le forze americane hanno invaso l’Iraq nel 2003, non avevano con sé nemmeno un robot; dal 2008 ce ne sono 12.000. Solo una manciata di droni fu usata nelle fasi iniziali dell’invasione; oggi, l’esercito americano ne ha oltre 7.000, dal famoso Predator ai piccoli Raven e Wasp usati per la trasmissione di immagini e video dei fatti che avvengono sul campo. Macchine da guerra molto strane sono in costruzione, come ad esempio uno sciame di letali “insetti cyborg” che potrebbero rimpiazzare la fanteria umana.

Questi sviluppi non sono certo limitati agli Stati Uniti. Il mercato globale della robotica militare e dei veicoli senza pilota è in rapida crescita, comprende Israele, un pioniere nel campo, Russia, Gran Bretagna, Iran, Sud Corea e Cina. Secondo alcuni resoconti la Turchia si sta organizzando con una forza robotica per attaccare i ribelli curdi; Israele spera di pattugliare il confine con Gaza con robot “see-shoot” che abbatteranno non appena individuate le persone percepite come trasgressori.

Non è facile predire quanto l’automazione della guerra potrà sostituire la presenza umana. Da una parte gli umani hanno il vantaggio di avere una maggiore supervisione visiva. Nonostante decenni di ricerche nel campo dell’intelligenza artificiale, i computer non possono fare certe semplici distinzioni che gli esseri umani possono fare in una frazione di secondo, ad esempio determinare se una mucca di fronte a un fienile sia un’entità separata o parte integrante del fienile.

Così, finché non c’è nessun incentivo a evitare la morte di civili, gli esseri umani devono essere coinvolti nell’elaborazione delle informazioni visive che portano, ad esempio, alla selezione dei bersagli dei droni. Finché non migliorerà la vista dei computer, gli esseri umani continueranno ad avere un ruolo nella guerra, se non come cani guida.

D’altra parte, il cervello umano non riesce a elaborare tutti i dati che gli confluiscono, soprattutto perché le nuove tecnologie moltiplicano questi dati. Nello scontro di grandi eserciti tradizionali, sotto una pioggia di frecce e proiettili, i combattenti umani spesso venivano travolti e si confondevano, una condizione attribuita alla “nebbia di guerra”. La nebbia sta diventando sempre più spessa. Gli ufficiali dell’esercito americano, ad esempio, danno la colpa al “sovraccarico di informazioni” per l’uccisione di 23 civili afghani nel febbraio 2010, e il New York Times ha riportato che:

“Per i militari il flusso di dati è aumentato; dall’attacco dell’11 settembre, il numero di informazione raccolte da droni telecomandati e da altre tecnologie di sorveglianza è cresciuto del 1600 per cento. Sul campo le truppe usano sempre più dispositivi palmari per comunicare, ottenere indicazioni e impostare le coordinate dei bombardamenti. Gli schermi dei jet sono così pieni zeppi di dati che certi piloti li chiamano “drool buckets” (secchi per la saliva), perché dicono che lo sguardo gli si perde dentro quei monitor pieni di numeri.”

Quando i dati sensoriali che arrivano al soldato vengono amplificati da un flusso di altri dati trasmessi istantaneamente da videocamere remote e motori di ricerca, non c’è altra scelta che rimpiazzare la scarsa interazione cervello-software degli umani con un sistema robotico di risposta istantanea.

Guerra senza Umani

Una volta impostata l’automatizzazione della guerra è difficile da fermare. Gli esseri umani si aggrappano al loro posto “nel ciclo delle cose” per quanto possono, insistendo sul fatto che le alte decisioni – se andare in guerra e contro chi – debbano essere riservate ai leader umani. Ma è precisamente ad alti livelli che il processo decisionale potrebbe aver bisogno di automazione. Un capo di stato deve considerare una miriade di fattori: analogie storiche, informazioni di intelligence satellitare, e deve valutare la disponibilità di potenziali alleati. In più, come il nemico automatizza il suo esercito, o nel caso di un “non-state actor“, che si adatta semplicemente al nostro livello di automazione, il tempo per una risposta effettiva sarà sempre minore. Perché non ci affidiamo a dei supercomputer? È difficile da immaginare una macchina intelligente che, in risposta agli attacchi del 11/9, decida di invadere l’Iraq.

Così, dopo almeno diecimila anni di lotte – di terra bruciata, villaggi rasi al suolo, città razziate, cadaveri ammucchiati, così come tutti i grandi poemi epici della letteratura umana – dobbiamo affrontare la possibilità che l’istituzione della guerra potrà non avere più bisogno di noi. I desideri umani, specialmente per la disponibilità sempre minore di risorse sulla Terra, continueranno a istigare guerre, ma né il coraggio né la sete di sangue degli uomini verranno portati sul campo di battaglia.

I computer valuteranno le minacce e calibreranno le risposte; i droni individueranno i nemici; i robot potrebbero agire per le strade di città ostili. A parte la singola battaglia o lo scontro minore, anche le decisioni su come combinare l’attacco e il contrattacco, o se usare una nuova tecnologia letale, potranno essere cedute a menti aliene.

Questo non dovrebbe sorprenderci. Proprio come la guerra ha plasmato le istituzioni sociali degli uomini per millenni, così li ha messi da parte, proprio come la tecnologia militare in continua evoluzione li ha resi inutili. Quando la guerra si faceva con spade e uomini a cavallo, veniva favorito il ruolo delle élite aristocratiche guerriere. Quando le armi usate in combattimento diventarono a lungo raggio come archi o fucili, le vecchie élite hanno dovuto inchinarsi al potere centrale dei re, che, a loro volta, sono stati annullati dalle forze di democratizzazione scatenate dai nuovi grandi eserciti.

Anche il patriarcato non può dipendere dalla guerra per la sua sopravvivenza nel lungo periodo, dal momento che le guerre in Iraq e Afghanistan hanno, almeno all’interno dell’esercito americano, stabilito il valore delle donne come combattenti. Nei secoli, le qualità umane richieste per combattere – potenza muscolare, virilità, intelligenza, giudizio – sono diventate via via obsolete o sono state cedute alle macchine.

Cosa è successo allora alle “passioni di guerra”? Esclusi atti individuali di martirio, la guerra rischia di perdere il suo lustro e la sua gloria. L’analista militare P.W. Singer ha citato un capitano dell’aeronautica pensieroso sul fatto che l’uso di nuove tecnologie “vorrà dire che uomini e donne coraggiose non rischieranno più la vita in combattimento”, solo per rassicurare se stesso del fatto che “ci sarà sempre bisogno di anime intrepide in volo”.

Forse, ma a un discorso del 2010, ai cadetti dell’Air Force Academy, un sottosegretario delle difesa ha dato la “cattiva notizia”: molti di loro non avrebbero guidato aeroplani, dato che sono sempre più privi di equipaggio. La guerra continuerà a essere fatta contro gli insorti per “scovare” istallazioni militari, centri di comando, e città di stati canaglia. Potrà continuare ad affascinare i suoi sostenitori, proprio come nei videogiochi, ma non ci saranno parate trionfali per degli insetti killer robotici, non ci saranno racconti epici su aeroplani telecomandati, non ci sarà nessun monumento ai robot caduti.

E proprio in questo può risiedere la nostra ultima speranza. Con il declino dei grandi eserciti e il possibile rimpiazzo da parte delle macchine, potremmo finalmente vedere che la guerra non è solo un’estensione delle nostre esigenze e passioni, nobili o non. Nemmeno sembra essere un test per il nostro coraggio, abilità, o unità nazionale. La guerra ha una sua dinamica – e nel caso suoni troppo antropomorfico – ha i suoi truci algoritmi da risolvere. Dato che ha sempre meno bisogno di noi uomini, forse potremmo finalmente scoprire che nemmeno noi abbiamo più bisogno di lei. Possiamo lasciarla alle formiche.

 

11.07.2011, Fonte: http://www.counterpunch.org/ehrenreich07112011.html

20 luglio 2011, Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di REIO http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=print&sid=8649

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