La fame, il patibolo, la guerra – Recensione di Nanni Salio

Danilo Zolo, Tramonto globale. La fame, il patibolo, la guerra, Firenze University Press, Firenze 2010

Nella lunga introduzione a questo suo ultimo lavoro, preceduto da molti altri nei quali ha sviluppato argomenti che qui ritroviamo in un’ampia sintesi, Danilo Zolo conclude con un periodo nel quale esprime tutto il suo profondo pessimismo:

“Il tramonto è globale: i diritti umani, la democrazia, la pace stanno irrimediabilmente tramontando tra le fitte nubi della globalizzazione e delle guerre terroristiche che trascina con sé, e che impediscono di intravedere il filo di luce di una possibile aurora. Trionfano la fame, il patibolo e la guerra. Il pessimismo globale è senza alternative. Il pessimismo è la saggezza degli uomini coraggiosi che amano intensamente la vita propria e degli altri, guardano la morte in faccia e non sanno che farsene del paradiso. Sono cristiani senza dio.” (p. 48)

Questa tesi viene sviluppata nei tre capitoli successivi in cui si articola il libro, rispettivamente sui diritti umani, criticati come una ideologia occidentale in declino; sulla crisi della democrazia passata dallo stato sociale a quello penitenziario e infine sul fallimento del pacifismo istituzionale delle Nazioni Unite con l’avvento della guerra globale.

Nel primo capitolo è messa in discussione la pretesa universalità dei diritti umani secondo la concezione occidentale prevalentemente individualista, quando invece esiste un’ “ampia gamma di civiltà e di culture i cui valori sono molto lontani dall’individualismo europeo”. (p.62)

Zolo mette in evidenza la progressiva ineffettività, o efficacia decrescente, della politica dei diritti umani, man mano che si passa da quelli di prima generazione (civili) a quelli politici, sociali, e ai cosiddetti “nuovi diritti”, e analizza criticamente anche la Carta di Nizza elaborata dall’Unione Europea. Oltre a un insieme di critiche più formali, ma non per questo meno stringenti, Zolo evidenzia un punto, a nostro parere cruciale: “la lacuna più vistosa riguarda il tema del ripudio della guerra come negazione radicale del diritto… una Carta dei diritti rischia di apparire gravemente incoerente se per un verso afferma il diritto alla vita… e per un altro non riconosce … il diritto di rifiutarsi di prendere parte ad attività belliche che non siano strettamente difensive…”

Questo tema meriterebbe di essere ampliato affrontando la questione dei modelli di difesa non offensivi e propriamente nonviolenti, compresa l’ipotesi della formazione di Corpi Civili di Pace. L’evidente contraddittorietà tra il diritto alla vita e la giustificazione della guerra può trovare una soluzione positiva solo se si è in grado di affrontare la trasformazione dei conflitti con metodologie nonviolente. È questo un capitolo che Zolo non affronta, ma a nostro parere risulta indispensabile se non ci si vuole limitare alla critica e arenarsi di fronte alle difficoltà.

Nel secondo capitolo, Zolo affronta la crisi della democrazia, sia rappresentativa sia partecipativa, con il venir meno dei partiti di massa e la nascita di elite oligarchiche che utilizzano cinicamente lo strapotere dello strumento televisivo. A tutto ciò si deve aggiungere la crisi dello Stato sociale che aveva tentato di tutelare i diritti sociali (lavoro, istruzione, salute).

In parallelo alla crisi e allo smantellamento dello Stato sociale, si osserva la crescita di una “società penitenziaria” allo scopo di controllare ogni possibile forma di devianza e di ribellione. Carcere, tortura legalizzata, pena di morte, esclusione, sono le nuove categorie in crescita alimentate da politiche di paura che generano una artificiosa insicurezza sociale.

Infine, nel terzo capitolo si documentano non solo le difficoltà di riforma del sistema delle Nazioni Unite, ma anche la progressiva e sistematica violazione del diritto internazionale da parte soprattutto delle grandi potenze, in primo luogo gli USA, che si nascondono dietro l’ossimoro delle guerre umanitarie. Il caso del Kossovo, che ha visto la partecipazione attiva anche dell’Italia, è emblematico, e ha fatto scuola, sino all’attuale guerra in Libia.

Dopo questa veloce carrellata, si può ben capire il pessimismo espresso da Zolo, sin dall’introduzione e ribadito a conclusione del suo lavoro. (Per tenersi aggiornati suggeriamo di seguire la “Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale” Jura Gentium nel sito www.juragentium.unifi.it )

Ma tutto ciò non basta. Oltre alla diagnosi, la denuncia, e la prognosi assai riservata, occorre completare il lavoro proponendo una terapia.

Per questo occorre rivolgerci ad altri autori, oltre a quelli cari a Zolo e da lui più volte citati: Ernesto Balducci (che con il suo libro “La terra del tramonto”, sembra anticipare il titolo di quello di Zolo) e Norberto Bobbio. Entrambi non compresero a fondo le conseguenze della prima guerra del Golfo, nel 1991, giudicando con leggerezza la decisione delle Nazioni Unite, foriera nel corso degli anni successivi di quegli sviluppi che Zolo denuncia con vigore.

Per individuare una terapia si può iniziare con un suggerimento dato da Johan Galtung: “il taoismo ci dice che c’è yin-yang nello yin e nello yang”. Lati più luminosi nella globalizzazione e lati più bui nel diritto. “E, via via, nei singoli aspetti yin e yang c’è dello yin e dello yang, ad infinitum. Una misura di maturità è quanti livelli analitici del genere si padroneggiano.” (https://serenoregis.org/2011/05/america-la-splendida-johan-galtung/ ). Contestualmente, ci può aiutare anche un libro di Rebecca Solnit che costituisce quasi un controcanto a quello di Zolo, sin dal titolo: “Speranza nel buio. Guida per cambiare il mondo”. (Fandango, Roma 2005). Citando F. Scott Fitzgerald, la Solnit sostiene che “Il banco di prova di un’intelligenza di prim’ordine è la capacità di tenere due idee oppste in mente nello stesso tempo e di conservare la capacità di funzionare”, riecheggiando la massima taoista della complessità, della imprevedibilità, dell’incertezza e delll’ignoranza epistemologica in cui siamo immersi.

Se da un lato possiamo interpretare questi nostri tempi all’insegna del “tramonto globale”, che Galtung ha affrontato in modo specifico e analitico per quanto riguarda gli USA nel suo “The Fall of the US Empire – And Then What? Successors, Regionalization or Globalization? US Fascism or US Blossoming?”, (Trascend University Press, Kolophobn Press 2009), dall’altra dobbiamo esplorare le alternative. E’ quanto propone di fare Rebecca Solnit ripercorrendo e ricordando successi e insuccessi dei movimenti alternativi, per la pace, l’ambiente, la giustizia sociale, a partire dagli anni 1980 sino alla nascita della “seconda potenza mondiale” con le grandiose manifestazioni contro la guerra culminate il 15 febbraio 2003.

Perché questi movimenti, caratterizzati da grande frammentarietà ed eterogeneità possano avere successo, almeno su singoli obiettivi parziali, occorrono alcune condizioni.

Primo: uniti e diversi. I risultati ottenuti in alcune occasioni sono frutto di una grande unità fra molteplici soggetti, come si è verificato anche nei referendum su acqua e nucleare il 12-13 giugno 2011 in Italia.

Secondo: è necessario avere un progetto unitario su un obiettivo concreto sebbene limitato, realizzabile a breve termine, come per esempio il bando dei test nucleari in atmosfera, lo smantellamento degli euromissili in Europa, il bando delle mine antiuomo, la chiusura delle centrali nucleari, la non privatizzazione dell’acqua.

Terzo: logistica, organizzazione, comunicazione. Di fronte abbiamo concentrazioni enormi di potere nel complesso militare-industriale-corporativo, scientifico-mediatico, che lavora a tempo pieno con somme stratosferiche e quantità enorme di personale. I movimenti debbono attrezzarsi per lavorare con continuità, con un minimo di attivisti a tempo pieno, strutture indipendenti dalle forze politiche e quindi non ricattabili, capillare utilizzo delle reti informatiche e di forme di comunicazione a basso costo, unificando le molteplici, ripetitive e spesso inutili pubblicazioni di singole associazioni.

Quarto: continuità e perseveranza nell’azione. Non basta avviare una iniziativa per essere certi del successo. Spesso occorrono anni di lavoro, superare momenti di caduta e di disimpegno e riprendere la lotta e l’iniziativa, anche con azioni di disobbedienza civile e di nonviolenza attiva, senza aver paura del prezzo da pagare: il carcere.

Quinto: addestramento. Se l’azione di massa non si ferma solo ai primi gradini della lotta nonviolenta, si debbono prevedere momenti organizzati e condotti con una regia unitaria non occasionale, che deve passare a forme via via più incisive di lotta. I manuali di Gene Sharp (che non sono solo i brevi pamphlet diventati famosi dopo la “primavera araba”, ma comprendono la trilogia della “Politica dell’azione nonviolenta”, che abbiamo contribuito a tradurre e pubblicare venticinque anni fa) sono un indispensabile strumento di formazione.

Queste sono condizioni “necessarie, ma non sufficienti”. Nessuno è in grado di prevedere l’esito finale di una lotta, ma non possiamo nemmeno limitarci alla denuncia, per quanto circostanziata, e cadere nella depressione del pessimismo cosmico.

Contrariamente alla tesi sostenuta e divulgata da Margaret Tatcher e fatta propria anche da molti esponenti politici convertitisi frettolosamente al neoliberismo, dopo la caduta degli dei del comunismo reale, ci sono alternative. All’acronimo TINA (There Is Not Alternatives) di tatcheriana e reaganiana memoria, dobbiamo contrapporre l’acronimo TARA (There Are Real Alternatives, nonché titolo di un libro di Gene Sharp scaricabile al link www.aeinstein.org/organizations/org/TARA.pdf . E TARA è anche una straordinaria figura di divinità femminile del pantheon buddhista, anticipatrice di alcune delle rivendicazioni che il movimento delle donne ha saputo realizzare nel corso del tempo.

L’alternativa è quella alla quale lavorano miriadi di persone e di piccoli gruppi per far uscire l’umanità dal vicolo cieco della follia del capitalismo neoliberista. Essa consiste nel progettare, praticare e avviare la transizione dall’ attuale modello di sviluppo basato sulla crescita, l’avidità e la distruttività illimitate a un modello centrato sull’economia nonviolenta prefigurata da Gandhi e dai suoi epigoni. Contemporaneamente, si lavora alla transizione dall’attuale modello di difesa, che in realtà è di offesa e sviluppa capacità distruttive e di violenza crescenti, a un modello basato sulla trasformazione nonviolenta dei conflitti, dal micro al macro.

Un secolo fa, in un piccolo e provocatorio libricino (Hind Swaraj, ripubblicato nel 2010 dalle Gandhi Edizioni di Pisa con il titolo: Vi spiego i mali della società occidentale), Gandhi delineò le premesse di queste transizioni, che oggi stiamo lentamente realizzando.

I processi evolutivi e di cambiamento sociale sono complessi e le “astuzie della storia” seguono percorsi imprevedibili, che si presentano quando meno ce lo aspettiamo: yin e yang sono costantemente in azione, anche se sovente sfuggono alla nostra percezione.

Il vento della “primavera araba” suscitato dalle donne e dai giovani sta lambendo anche l’altra sponda del Mediterraneo e spira persino negli Stati Uniti.

Come amava ripetere Aldo Capitini “la nonviolenza è il varco della storia”. Organizziamoci, indignamoci, protestiamo, disobbediamo, ribelliamoci, liberiamoci per far sì che l’umanità intera riesca ad attraversare questa soglia epocale.

 

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