Conflitto e povertà: la scienza economica della violenza – The Economist

I paesi poveri sono tali perché violenti o violenti perché poveri?

Ieri toccava all’Afghanistan e al Congo. Oggi alla Costa d’Avorio e alla Libia. La violenza, pare, è sempre con noi, come la povertà. E sembrerebbe che ciò sia tutto quel che c’è da dire: la violenza è male, ed è peggio nei paesi poveri, li rende più poveri.

Ma il World Development Report [Rapporto sullo Sviluppo Mondiale] la pubblicazione ammiraglia della Banca Mondiale, fa pensare che ci sia molto di più da dire. La violenza, sostengono gli autori, non è solo una causa fra molte della povertà: sta diventando quella primaria. I paesi in preda alla violenza ne vengono spesso intrappolati; sono quelli che non sfuggono alla povertà. Questo ha implicazioni profonde sia per i paesi poveri che tentano di darsi un assetto, sia per quelli ricchi che cercano d’aiutare.

Molti pensano che lo sviluppo sia principalmente ostacolato da quella che è nota come “trappola della povertà”. I contadini non comprano fertilizzanti pur sapendo che ciò produrrebbe un raccolto migliore. Se non c’è strada, pensano, il loro raccolto così abbondante non farà altro che marcire nei campi. L’uscita da quella trappola consisterà nel costruire una strada; e se i paesi poveri non possono costruirla, dovrebbero subentrare donatori abbienti.

Eppure il Rapporto sullo Sviluppo Mondiale ritiene che attualmente il vincolo maggiore allo sviluppo possa essere, anziché una trappola della povertà, una trappola della violenza. I paesi pacifici riescono a sfuggire alla povertà—che si sta concentrando in paesi afflitti da guerre civili, conflitti etnici e crimine organizzato. La violenza e un cattivo governo impediscono loro di sfuggire alla trappola.

Legenda: Crescita che uccide: PIL pro-capite, prezzi in $ del 2005; Morti in battaglia in: Burundi, Burkina Faso


Per vederne l’impatto, si confrontino due piccoli stati africani. Fino al 1990 Burundi e Burkina Faso avevano tassi di crescita e livelli di reddito simili (vedi grafico). Ma verso la fine del 1993 in Burundi scoppiò la guerra civile dopo l’assassinio del presidente; morirono 300.000 persone nei 12 anni successivi, per lo più civili. Il placido Burkina Faso è adesso 2,5 volte più ricco.

Questo potrebbe sembrare un caso speciale. Le guerre civili fanno ovviamente dei danni, e non molti paesi ne soffrono. Sì, ma molti altri sono invischiati in una persistente, pervasiva illegalità. Il rapporto calcola che 1.500 milioni di persone vivano in paesi afflitti da violenza politica, criminalità organizzata, tassi d’omicidio eccezionalmente alti o conflitti armati a bassa intensità. Tutto questo non arriva a una vera e propria guerra civile, ma gli effetti possono essere altrettanto nefasti.

Molte di queste popolazioni sono coinvolte in cicli di violenza. Quasi tutti i 39 paesi che hanno subito una guerra civile dopo il 2000 ne avevano avuta una nel corso dei 30 anni precedenti—un dato che era molto inferiore negli anni 1960. Inoltre, forme “minori” di violenza stanno peggiorando al punto di poter essere più letali di una guerra civile. In Guatemala, vengono attualmente assassinate più persone (perlopiù da bande criminali) di quante ne venissero uccise durante la guerra civile degli anni 1980 (v. articolo).

Questo fatto è da sottolineare perché la “tradizionale” violenza di stato sta calando. Benchè la popolazione mondiale sia cresciuta dal 1990, da allora il numero di guerre interstatali e colpi di stato è diminuito—così come il numero di vittime provocate. Meno paesi soffrono di violenza su vasta scala, ma quelli coinvolti, ne soffrono ripetutamente.

Di conseguenza, chi vive in questi paesi ha una probabilità più che doppia di malnutrizione, tripla per la carenza di scuole elementari e quasi doppia di morire nella prima infanzia rispetto a chi vive in altri paesi in via di sviluppo. Essi sono anche più vulnerabili alle crisi. Le proteste durante la crisi dei prezzi alimentari del 2007-08 erano più frequenti e più inclini a diventare violente in paesi con governi più fragili.

Sta aumentando il divario fra i due gruppi di paesi. Quasi tutti hanno ridotto la mortalità infantile dal 1990. Ma gli stati con conflitti armati l’hanno ridotta solo del 19% rispetto al 31% altrove. Nessun paese povero e violento ha raggiunto un solo Obiettivo di Sviluppo del Millennio fra quelli indicati dall’ONU nel 2000. Empiricamente, conclude il rapporto, i paesi afflitti da violenza su vasta scala perdono quasi l’1% nella riduzione della povertà all’anno.

Ma forse questi paesi sono violenti perché sono poveri, anziché poveri perché violenti? Fino a un certo punto ciò è vero. Come disse una volta un capo ribelle in Sud Sudan, la vita è così a buon mercato che “ribellarsi conviene”. La crescita presumibilmente ridurrebbe l’incentivo a combattere. Per verificare l’importanza della ricchezza, gli autori del rapporto domandarono, in una mezza dozzina di paesi, perché i giovani si aggreghino alle bande e ai gruppi ribelli. La quota maggiore, circa due quinti, citò come motivo principale la disoccupazione; solo un decimo disse perché credeva alla causa (ma questo valeva invece come motivo principale per metà dei militanti di gruppi islamisti in Mali e Cisgiordania).

Ma se anche la povertà sia una causa di violenza, non è la sola. Importa anche la legittimità del governo. Il rapporto cerca di separare gli effetti dal reddito considerando paesi con reddito analogo e identificando quelli che eccellono per governance. Ne risulta che i paesi con buona governance hanno verosimilmente patito molto meno dei loro pari di conflitti civili o tassi di omicidi elevati negli anni fra il 2000 e il 2005. Forse non sorprende scoprire che la Libia ha un punteggio più basso negli indicatori che misurano la responsabilità del governo e le lealtà tribali, rispetto all’Egitto o alla Tunisia—il che potrebbe spiegare la piega che vi ha preso la primavera araba. Si scopre che più un governo è personale, più è difficile cambiare.

Le implicazioni di quest’analisi sono ampie. Primo, il rapporto sostiene che si dovrebbe considerare la prevenzione della violenza con priorità ben più alta di quanto non si faccia ora, mentre invece gli Obiettivi del Millennio, che guidano e misurano lo sviluppo, non citano neppure questioni come la giustizia e la sicurezza personale.

Poi, si dovrebbe imparare dal gran numero di prove che permettono di capire cosa fare per ridurre la violenza. Elemento chiave è il rapido ripristino della fiducia popolare nel governo. Questo si può ottenere facendo sì che un numero ragionevole di parti in conflitto firmino un accordo di pace o altro interrompendo comunque la prassi in corso, come fece il Ghana nel 2003. I governi hanno anche bisogno di segnalare immediatamente le buone intenzioni facendo nomine credibili (come fece la Nigeria scegliendo il proprio nuovo commissario elettorale). E hanno bisogno di qualche risultato alla svelta, come nuovi posti di lavoro. Ma, come dice il rapporto, “l’assistenza allo sviluppo è più facile da ottenere per la politica macroeconomica, la sanità o l’istruzione…che per la creazione di posti di lavoro”.

Terzo, gli estranei dovrebbero smettere di trattate i nuovi conflitti armati come se fossero guerre tradizionali fra stati o civili, con ruoli ben definiti per diplomatici, soldati e operatori di diritti umani o assistenziali. La gente – dice il rapporto – deve agire insieme, anche se non è facile immaginare che gran parte dei cooperanti collaborino serenamente con un ufficiale di polizia o dell’esercito.

Infine, ci vuole più pazienza, molta di più, da parte della gente. Dal 1985, i paesi che hanno ottenuto i risultati nelle riforme hanno impiegato 27 anni per ridurre la corruzione a livelli accettabili. Tra coloro che sono coinvolti nella ricostruzione dopo il conflitto armato, pochi sono disposti ad aspettare tanto. Haiti ha cercato di creare un governo efficace in 18 mesi. Naturalmente, senza riuscirci. La morale è che i paesi della primavera araba avranno probabilmente di fronte transizioni multiple, non solo una. Purtroppo è forse più facile chiedere pazienza essendo un economista della Banca Mondiale che il capo di un paese impaziente o violento minacciato dalla propria gente o dai rivali.

14 aprile 2011
Traduzione di Miky Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

Titolo originale: Conflict and poverty
http://www.economist.com/node/18558041/p

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