Thyssen Krupp: omicidio volontario
15 aprile 2011 – La Corte di Assise di Torino ha riconosciuto l’omicidio volontario con dolo eventuale per i sette morti del rogo alla Thyssen Krupp del 2007. L’amministratore delegato della multinazionale tedesca, Herald Espenhahn, è stato condannato a 16 anni e mezzo di reclusione. La Corte ha accolto le richieste dell’accusa anche per gli altri imputati, tutti condannati a 13 anni e mezzo. Per il responsabile dell’area tecnica, la pena comminata è stata di 10 anni e 10 mesi, superiore ai nove anni richiesti dall’accusa. La Thyssen Krupp Acciai Speciali Terni Spa, chiamata in causa anche come responsabile civile, è stata condannata al pagamento della sanzione di un milione di euro, all’esclusione da agevolazioni e sussidi pubblici per sei mesi, al divieto di pubblicizzare i suoi prodotti per sei mesi, alla confisca di 800mila euro, con pubblicazione della sentenza sui quotidiani nazionali ‘La Stampa’, ‘La Repubblica’ e il ‘Corriere della Sera’.
“è una svolta epocale, non era mai successo che per una vicenda di morti sul lavoro venisse riconosciuto il dolo eventuale”, questa la prima dichiarazione del pm Raffaele Guariniello dopo la lettura della sentenza, accolta in aula da un applauso. “Una condanna – ha detto – non è mai una vittoria o una festa, però, in questo caso, può significare molto per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Credo che da oggi in poi i lavoratori possano contare molto di più sulla sicurezza e che le imprese possano essere invogliate a fare molto di più per la sicurezza”.
I sette operai morti erano al lavoro da 12 ore. La fabbrica era in dismissione ma era arrivata una nuova commessa che a Terni non si poteva fare. Allora sono ritornati in fabbrica, rientrando dalle ferie forzate. L’azienda ha rimesso in moto la macchina della produzione ma senza ricaricare gli estintori, senza cura per la sicurezza, con i telefoni guasti. L’importante era consegnare il lavoro. La linea 5 avrebbe chiuso a febbraio 2008. Cinque anni prima a Torino era andato a fuoco un treno di laminazione in un incendio durato tre giorni.
Le indagini hanno rivelato controlli dell’Asl che arrivavano con “preavviso” di due giorni, denunce dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza ignorate – da tutti – 35 violazioni in materia ignorate dall’azienda. Dopo due mesi e 19 giorni di indagini, la procura di Torino ha contestato all’AD del gruppo in Italia l’omicidio volontario con dolo eventuale. Importante anche un rapporto di Axa Assicurazioni inviato ai dirigenti Thyssen, due dei quali figurano tra gli imputati, un tassello importante nel processo. Nel “Rapporto sul deficit di prevenzione”, inviato il 26 giugno 2006, si legge: “La struttura mostra diversi pericoli connessi con grandi quantità di oli idraulici/lubrificanti, installazioni elettriche, uso di gas naturale, idrogeno e altri gas tecnici, presenza di materiali plastici, utilizzo di soluzioni corrosive”. E ancora: “Non c’è una squadra antincendio, serve inoltre una squadra di seconda emergenza”. Queste, precisa il consulente Axa, “dovrebbero comprendere da 3 a 5 pompieri per turno, totalmente addestrati”. In riferimento alle linee, si afferma: “è stato notato che in queste linee alcuni sistemi elettrici sono in cattive condizioni: cavi scoperti e/o scollegati …”.
Infine, si raccomanda l’istituzione di un sistema di spegnimento anche nella linea 5, descritta come non conforme alle indicazioni tecniche dell’assicurazione. Malgrado tutto ciò, Espenhahn accetta il rischio di infortuni, anche mortali, decidendo di posticipare gli investimenti necessari per le misure antincendio, ben sapendo che di lì a poco è stata programmata la chiusura di tutto lo stabilimento. Il risparmio che scaturisce dalla studiata e consapevole decisione di Espenhahn è, a dir poco, notevole. Ma nel novembre 2008, e cioè prima dello scadere di un anno dalla tragedia – come promesso da Raffaele Guariniello – il giudice per le indagini preliminari, Francesco Gianfrotta, rinvia a giudizio per omicidio volontario con dolo eventuale Harald Espenhahn. Per gli altri cinque imputati, l’accusa è di omicidio colposo plurimo con l’aggravante della previsione dell’evento e omissione volontaria delle dovute precauzioni.
Intervista a Franco Colombo e Bruno Thieme, consulenti tecnici di parte civile – Medicina Democratica
Abbiamo cominciato andando a parlare con il procuratore generale della Repubblica, perché il pubblico ministero stavano tirando in lungo. La causa era complessa: ci sono sei società coinvolte, molte persone, le toghe tergiversavano. Poi il lavoro nostro, quello di consulenza, è di fatto iniziato con il sopralluogo del 4 maggio 2009. Il primo contatto con questa realtà lavorativa è stato traumatico; abbiamo visto il luogo dove si è sviluppato il rogo del 6 dicembre 2007, ma abbiamo visto anche al di là di quella zona, abbiamo visto il resto dell’impianto. È stato atroce. Poi abbiamo, ovviamente, passato qualche giorno in cancelleria, collezionando e fotocopiando documenti, per renderci conto dell’accaduto, delle situazioni di lavoro all’interno della fabbrica. Abbiamo poi incrociato quello che abbiamo visto, quello che abbiamo letto, con le testimonianze, i colloqui con i lavoratori e con la nostra esperienza. Abbiamo ricostruito il ciclo produttivo che veniva seguito, ne abbiamo messo in evidenza le carenze dal punto di vista del progetto oltre che dell’organizzazione del lavoro. Alla fine abbiamo raccolto tutte queste osservazioni nelle nostre relazioni. Abbiamo osservato, per esempio, che non erano state prese misure di sicurezza su quelli che sono i componenti del “triangolo del fuoco” (combustibile, comburente, calore, nda), a partire dal combustibile: la carta che veniva inserita fra i laminati e che scorreva con la linea. Se ci fosse stata sicurezza, ci sarebbe stato un sistema automatico per bloccare la linea, invece la carta andava avanti anche con l’incendio. Abbiamo anche scoperto che l’innesco, dovuto alla lamiera che sfregava contro la struttura e che ha provocato le scintille che hanno poi incendiato la carta e l’olio – il famoso innesco – si è avuto anche perché c’erano carenza a livello di progetto, con l’aspo [cilindro rotante usato per avvolgere o svolgere il laminato] che a fine corsa portava il nastro a urtare o da una parte o dall’altra, perché c’era un’interferenza con la carpenteria della linea. Una carenza già di progetto: se anche il rullo scorreva perfettamente centrato e lasciava un certo spazio da una parte e dall’altra, il collettore sull’aspo non aveva margine e se il carrello [il nastro raccolto] derivava da una parte o dall’altra, il collettore andava a sfregare con la lamiera. Questo è stato il prodotto dell’ultima memoria che abbiamo presentato tramite gli avvocati la settimana scorsa, in una delle ultime udienze.
E poi c’è il problema di un altro combustibile, costituito dall’olio di laminazione, che poteva essere eliminato per la maggior parte lasciando raffreddare i coil [il nastro di acciaio raccolto o disteso] e quindi dando tempo all’olio che impregnava la carta di scolare, da una parte o dall’altra, di uscire dai fori sulla carpenteria. Questo sarebbe stato previsto, infatti, le carpenterie avevano delle canaline di raccolta dell’olio, sulla destra sulla sinistra. Canaline che però risultavano pulite, perché negli ultimi tempi si lavorava “just in time”: il laminato veniva portato alla lavorazione direttamente sulla linea, senza passare per processi di raffreddamento che avrebbero consentito anche di scolare. Così, siccome una parte dell’olio andava avanti nella linea comunque e si raccoglieva nei punti in cui gocciolava, si mettevano dei convogliatori nei punti di raccolta. Per convogliare quest’olio all’esterno della linea e non lasciarlo sulla traiettoria, per evitare che andasse per terra – e, infatti, una pozza si era formata sotto la direttrice dell’aspo due, e questo è stato uno degli elementi che hanno fatto sviluppare l’incendio – sarebbe bastato dare una pendenza del pavimento diversa, dall’interno verso l’esterno, per far sì che quest’olio scendesse subito in canaline. Non era così. Sono espedienti semplici, insomma, ma molto efficaci dal punto di vista della sicurezza.
Poi c’era l’altro combustibile, costituito dalle perdite dell’olio idraulico dell’impianto. C’erano rabbocchi giornalieri. Il giorno precedente l’incidente si era intervenuti per tre volte per rabboccare il serbatoio della linea principale, perché era andato al di sotto del minimo livello. Non si faceva più manutenzione per evitare queste perdite. Se poi si fosse voluto intervenire anche in termini di prevenzione primaria, questi oli potevano essere sostituiti con altri prodotti lubrificanti che si usano in ambienti confinati, come le miniere. Ma anche questo era un ambiente confinato, e questa sostituzione non è stata assolutamente fatta. Noi per esempio abbiamo selezionato un tipo di fluido, ce ne possono essere altri, ma uno con le caratteristiche fisiche del glicole etilenico, per esempio, quello che si usa come antigelo il motore dell’auto. Non sono prodotti particolarmente complicati da individuare. Questo è un altro degli argomenti. Quindi, a livello di prevenzione primaria – cioè per non fare arrivare sulla linea componenti combustibili – si potevano fare molte cose. Ma anche a livello di limitazione del danno – e cioè per intervenire sull’incendio già sviluppato, e di incendi se ne sviluppavano anche uno al giorno, anche uno a turno – sarebbe bastato mettere dei rilevatori di temperatura anomala e impianti di spegnimento d’acqua, che sono le cose più semplici, più banali se si vuole. Quindi, anche a livello di limitazione del danno non è stato fatto nulla. Anzi perfino quegli interventi che erano stati previsti sono stati via, via, derubricati, spostati dal piano di investimenti di Torino al piano di investimenti della linea di Terni. E il fatto che fossero sempre i lavoratori a fronteggiare gli incendi – perché non c’era nulla di automatico, quindi era sempre il lavoratore davanti al fuoco, che si trattasse di un piccolo o di un grande fuoco – è testimoniato dall’enorme quantitativo di estintori. Tant’è che il responsabile della sicurezza aziendale vantava il fatto che da quando aveva avuto questo ruolo di responsabilità gli estintori erano passati da 200 a 400. Questo vuol dire che c’era consapevolezza che il rischio d’incendio fosse molto elevato e si è intervenuti solo sul numero di estintori. Ma questi non erano per nulla controllati. Un testimone ha affermato che il suo estintore nel mentre dell’intervento, era già parzialmente scaricato. Tant’è che un’azienda esterna interveniva ogni 10 giorni per ricaricare gli estintori. Noi abbiamo suggerito nella nostra perizia, a titolo di esempio, una cosa estremamente banale, che nel rapportino di fine turno fosse anche inserita una tabella che indicava la posizione degli estintori, indicando quali fossero quelli carichi, quali quelli scarichi. Il turno montante prendeva così subito consapevolezza della situazione degli estintori. In più, negli ultimi mesi, anche il personale che aiutava il capo turno e che pare avesse la funzione di sostituire questi estintori scarichi non aveva più la possibilità di farlo perché era impegnato a fare altro. Infatti, il capoturno Marzo, una delle vittime, risponde all’operaio che gli dice che gli inceneritori vanno sostituiti: “Chi ci mando?”. Diciamo che non solo a livello di prevenzione primaria ma anche a livello di prevenzione secondaria, per limitazione del danno, non è stato fatto alcun intervento.
Noi abbiamo cercato di ricostruire quello che è accaduto, abbiamo preso visione dei luoghi. Abbiamo proiettato una ricostruzione filmata che ha mostrato uno spaccato di realtà che altrimenti sarebbe rimasta fuori del processo. Siamo stati gli unici a produrre un video che documentava la situazione al di fuori di quello della Thyssen Krupp, che ricostruiva quel ciclo che sembrava fosse un orologio svizzero. Invece, il passaggio per gli operatori fuori dalla linea era di un metro scarso con scalette, interruzioni, non c’erano vie di fuga e il nastro scorreva a velocità da 20 a 40 metri al secondo. In alcune sezioni dell’impianto, dove il nastro andava in accumulo, in entrata o in uscita, andava anche a qualche decina di metri in più al secondo. Gli operai erano distribuiti sull’impianto, uno di loro stava all’interno del cosiddetto “pulpito principale”, la sala di controllo cui facevano capo le principali funzioni. Era lui che dava il via all’avviamento delle procedure di ingresso, a mettere in produzione la linea, era lui che regolava forno. Poi c’era un addetto al controllo finale del nastro che stava in un box nei pressi dell’aspo avvolgitore da dove controllava che quello che si avvolgeva fosse ben lavorato, senza difetti. Poi c’era un turnista che era quello che azionava il carroponte: prendeva con la gru i rotoli che arrivavano e li portava alla laminazione e riprendeva quelli finiti per portarli al deposito, o ad altre diverse lavorazioni, all’interno o all’esterno della linea. C’erano inoltre due addetti proprio sulla linea, lunga 200 metri. Questi caricavano i coil in arrivo, controllavano i bagni elettrolitici di decapaggio, le pompe, controllavano i rulli, facevano la pulizia della carta che andava molto spesso dispersa – la carta veniva messa nell’ultimo passaggio della laminazione tra una spira e l’altra per evitare che l’acciaio si rigasse, che le spire venissero a contatto l’una sull’altra rovinandosi in superficie. I bagni elettrolitici, per la pulizia della superficie, stavano a valle delle spole di svolgimento. Una volta svolti c’era anche un passaggio in forno a circa 1100 °C per far sì che si sistemasse il reticolo cristallino, che si ritornasse alle condizioni strutturali precedenti la laminazione. Dopo il bagno chimico, c’erano delle vasche d’acqua di lavaggio e tubazioni di riciclo dell’acqua. Era un sistema articolato che andava curato su 200 metri, ecco. Ma dal punto di vista delle operative fondamentali questo ciclo ere semplice rispetto a un ciclo chimico, per esempio, che ha delle complessità maggiori. Senza banalizzare nulla, ma le fasi di lavorazione non erano molto complicate, e quindi doveva essere facile avere attenzione sui rischi.
Bisogna infine tener conto che la linea era installata in una campata lunga 370 metri, priva di vie di uscita che non fossero i portoni all’ingresso e all’uscita. Portoni che in quella notte erano chiusi e non erano apribili, perché erano azionati elettricamente dalla stessa alimentazione elettrica della linea. Per cui, tolta corrente alla linea cinque, i portoni non si aprivano più. Hanno dovuto attraversare tutte le altre campate per arrivare lì, attraverso un varco fra la linea quattro e la linea cinque.
Le vittime sono state sette e non i soliti cinque del turno perché quella sera uno di loro era un neo assunto, così se ne era fermato uno in più per assisterlo, perché altrimenti non ce l’avrebbero fatta. E poi c’era Marzo, che era capoturno quel giorno e aveva ricevuto la responsabilità di capoturno della produzione, della manutenzione, capoturno dell’emergenza. Perché tutto il lavoro gravava addosso a quei 4 o 5 che erano rimasti, e quindi lui si è trovato in questa situazione. Anche lui non era nel turno ma è stata una delle vittime. Chiarisco che per questo tipo di impianto le vie di fuga devono essere una ogni 35 metri, lì erano una ogni 370 metri.
Intervista a Simone Vallese, avvocato rappresentante della FLM-CUB
Con questa sentenza è stato detto che le morti sul lavoro non debbono più essere ascritte a una colpa, una negligenza, o un’imprudenza, ma che quando si verificano fatti di questo tipo chi li commette, e in particolare l’amministratore delegato, risponde di omicidio volontario. Cioè, quando volontariamente si omettono dolosamente delle cautele e da questo derivano fatti come il rogo della Thyssen Krupp non si risponde più di omicidio colposo, come prima. È un fatto epocale. Non era mai stato affermato nella giurisprudenza italiana da quando c’è la Repubblica. È la prima sentenza. La tesi del “dolo eventuale” proposta dal procuratore Guariniello è stata accolta appieno. Questa era la Corte d’assise. Bisognerà vedere, francamente, se reggerà fino all’appello e alla cassazione.
Agli imputati, in particolare, all’amministratore delegato, il tedesco Herald Espenhahn, è stato contestato l’omicidio volontario ed è stato condannato per questo reato. Altri, a cui è stato contestato l’omicidio colposo, hanno ricevuto la condanna per omicidio colposo. Dal punto di vista del pubblico ministero, siamo andati oltre ogni più rosea aspettativa. Ci aspettavamo una via di mezzo, diciamo, fra le richieste e quello che sarebbe potuto derivare dal processo, perché questo è stato un processo difficile. Loro, gli imputati, avevano degli argomenti importanti da contrapporre ai nostri.
Adesso vedremo gli sviluppi. Per quanto riguarda le parti civili, è stato riconosciuto un diritto importantissimo a FLM-CUB di partecipare a un processo. La Corte, per quanto riguarda le parti civili, ha riconosciuto un risarcimento di un milione di euro al Comune di Torino, di 973.300 euro alla Regione Piemonte, di 500 mila euro alla Provincia di Torino e di 100 mila euro ciascuno ai sindacati Fim-Cisl, Fiom-Cgil, Uim-Uilm, Flm-Cub. Cento mila euro di risarcimento anche all’associazione Medicina Democratica. È la seconda volta che capita a FLM-CUB di partecipare un processo. È la seconda volta nella giurisprudenza italiana, prima potevano partecipare ai processi solo i sindacati che avessero all’interno dello stabilimento dei lavoratori iscritti. Ora anche il sindacato che non ha lavoratori iscritti nello stabilimento può partecipare ai processi come parte civile laddove venga leso uno dei propri interessi come per la Federazione lavoratori metalmeccanici l’interesse alla salute all’interno del luogo di lavoro. È questo il secondo principio nuovo – meno nuovo del primo – ma che si inquadra nell’ambito di una giurisprudenza nata nel 2010. Tra tutte le voci di danno, 100.000 euro a un sindacato sono una cifra elevata. La formula di sentenza per molti risarcimenti è stata decretata con “provvisionale immediatamente esecutiva”. È una ecatombe per la Thyssen Krupp che dovrà pagare tra pochissimo tempo da due a tre milioni di euro, dall’oggi al domani, immediatamente esecutivi. Non dobbiamo aspettare che la sentenza arrivi in cassazione, appena la sentenza è pubblicata e vengono depositate le motivazioni, devono pagare. Il principio della provvisoria esecutività si lega al bisogno: un ente di per sé non è come una persona che ne ha un bisogno immediato, ma ci sono tanti lavoratori lesionati che avranno subito il risarcimento.
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