Carnefici e vittime – Recensione di Francesca Putzolu
Marcella Ravenna, Carnefici e vittime. Le radici psicologiche della Shoah e delle atrocità sociali, Il Mulino, Bologna 2004
Il 22 febbraio 1944 uomini e donne di ogni età furono caricati sui convogli che partivano da Fossoli (Carpi) e condotti ad Auschwitz, fra questi, unici sopravvissuti Primo Levi, Leonardo Debenedetti e il padre dell’autrice, Eugenio Ravenna, a cui venne sterminata l’intera famiglia.
Il testo si rivolge ai giovani e alle persone interessate a comprendere i fenomeni sociali distruttivi e ciò che rende possibili azioni malvagie, tese alla soppressione deliberata di milioni di persone inermi. E’ un contributo per tutti coloro che lavorano e si impegnano a favorire rapporti improntati alla dignità e alla cooperazione reciproca.
La questione del perché le norme, quel complesso di modi di pensare e sentire che gli individui ritengono giusti e appropriati, e “inducono generalmente a proteggere i propri simili, perdono la loro funzione guida”, è l’interrogativo che dà l’dea di fondo a questo volume.
La complessa analisi delle motivazioni che spingono le persone a compiere atrocità verso altri gruppi sociali, penetra nei meccanismi mentali e nei processi cognitivi che costruiscono le nostre mappe ed elaborano la nostra conoscenza del mondo. Essa conduce il lettore nella sfera delle relazioni all’interno dei gruppi di riferimento, verso i gruppi esterni e nelle dinamiche interpersonali. E’ una intensa presa di consapevolezza che i conflitti che generano esclusione, maltrattamenti e soppressione fisica del ”nemico”, non dipendono dalla ineluttabilità del male assoluto, dalla irrazionalità o psicopatologia di chi lo attua, ma piuttosto dal risultato di una serie di processi in cui si intrecciano contesti culturali e sociali che possono contribuire, a seconda dei casi, all’ inclusione o all’ esclusione.
La categorizzazione, cioè la modalità di padroneggiare l’ambiente sociale se da una parte ci aiuta a orientarci, dall’altra implica una semplificazione delle informazioni che tende all’associazione dei singoli agli stereotipi dominanti. Ci conduce inoltre a enfatizzare le differenze e a consolidare gli elementi di appartenenza al proprio gruppo. Al suo interno si fortifica l’identità sociale positiva e pertanto vengono esclusi o sono oggetto di violenza ed emarginazione coloro i quali hanno attributi che li differenziano dagli altri. Vengono meno il senso di fiducia, di reciprocità e di valori condivisi.
L’autrice approfondisce in maniera dettagliata l’analisi della delegittimazione nelle relazioni che conducono inevitabilmente ai conflitti di intergruppi e fra singoli individui.
Dopo una introduzione in cui si delineano i temi fondamentali dell’indagine, il testo si articola su due parti che approfondiscono: l’una i processi psicologici e le condizioni dell’esclusione morale, e l’altra il corso e le conseguenze dell’esclusione.
La presa di distanza dall’altro che diventa facile bersaglio di azioni in grado di danneggiarlo, è resa possibile da forze situazionali e da motivi, per semplificare, che in certe condizioni eliminano le norme che generalmente vietano il danno. Su tale terreno si amplificano i sentimenti di ostilità sostenuti dall’ideologia, dalla percezione di minaccia, nonché dal ruolo delle caratteristiche delle disposizioni dell’individuo nell’organizzare il suo senso di giustizia, le sue percezioni del mondo e i conseguenti comportamenti.
In tal senso il libro è uno strumento di comprensione non solo dello sterminio degli ebrei, ma anche di fenomeni più recenti e passati, a cui l’autrice fa riferimento: l’attacco alle Twin Towers, la guerra in Afghanistan, e le stragi in Vietnam.
Ciò che però è rilevante nel testo è l’attenzione al cattivo, a colui che è l’attore sociale del danno.
Il disimpegno morale che sfocia nella disattivazione della norma e delle azioni inibitorie dell’aggressività, è un processo che, dalle prime fasi dello sviluppo, porta a strutturare la personalità come autoritaria e dominante i cui comportamenti facilmente si orientano verso atti discriminatori nei rapporti interpersonali e di gruppo.
Tale disimpegno, a livello di ristrutturazione di categorie cognitive, è supportato dalla giustificazione del danno, dal linguaggio che rende accettabile condotte dannose, dall’autoassoluzione, dalla mancanza di assunzione di responsabilità, dalla diffusione delle responsabilità, nonché da strategie di disumanizzazione della vittima.
Quali sono i bisogni e le caratteristiche di chi danneggia? Una scarsa stima di sé, una costante sensazione di minaccia che opera in vari sensi: la fuga o l’aggressione, il sadismo, l’eccitazione e un bisogno di potere.
I processi dell’influenza sociale nella obbedienza distruttiva sono ampiamente trattati e arricchiti con i riferimenti agli esperimenti di Milgram e di Zimbardo sulla prigione simulata, in cui l’ottica situazionista mostra la tendenza degli individui a modificare i loro vincoli morali a seconda dei contesti. Questa interpretazione degli psicologi sociali e politici ha fornito, negli ultimi anni, un prezioso contributo anche alla comprensione dello sterminio degli ebrei, confermando la posizione di Hannah Arent a proposito della personalità di Eichmann: non un mostro, ma un uomo senza immaginazione, cosiddetto normale.
Sono pure riportati gli studi dell’italiano Sighele che analizzò, negli ultimi anni dell’Ottocento, il comportamento delle folle, dove deindividuazione, contagio, suggestionabilità, compongono la “mente di gruppo” in cui i pensieri e la volontà del singolo tendono a dissolversi. Anche Freud trova il suo spazio nel meccanismo dell’identificazione a condotte di personalità dotate di autorità e leaderismo.
D’altra parte l’autrice lascia spazio alla speranza. Avvenimenti storici mostrano come il senso di responsabilità possa prevalere sulla cieca obbedienza. E’ il comportamento degli abitanti del villaggio di Chambon tra il 1940 ed il 1944. Essi prestarono aiuto alle persone perseguitate che avevano trovato rifugio in quella parte della Francia. Vennero accolti e protetti mentre la polizia arrestava 13.000 ebrei e li deportava nei campi di sterminio. La tenacia e l’uniformità del comportamento di tutti i membri del villaggio, trovarono nel parroco un referente di indiscusso coraggio, moralità e determinazione. In questo caso agì quella che viene definita “l’ordinarietà del bene”.
Un approfondito riferimento alla psicologia interculturale di Triandis, ci riporta ai nostri tempi e alle diversità degli elementi che costituiscono il percorso di appartenenza alle proprie società.
In Occidente l’autorealizzazione, il successo e la competizione, sono alla base della formazione individualistica. In questo quadro il sé costituisce l’elemento fondamentale, ”centro dinamico della consapevolezza”, della propria identità tesa alla valorizzazione dell’autonomia personale, e si definisce piuttosto rispetto a quello che fa più che all’appartenenza di gruppo. In realtà sociali etnicamente diverse, comunità africane, asiatiche, ecc, prevale la cultura collettivista. Questi riferimenti sono il supporto a quanto il contesto contribuisca a creare le diverse modalità di lettura del mondo circostante. Esse possono determinare inclusione o esclusione, cooperazione o violenza. Possono anche sviluppare sentimenti di sicurezza e di modalità pacifiche di risoluzione dei conflitti.
Nel capitolo quinto della parte seconda, l’attenzione si sposta al concetto di male e alle sue numerose interpretazioni.
Un articolato excursus storico parte dalle mitologie arcaiche, con le raffigurazioni dualistiche di bene e di male, fino al Dio unico del Vecchio Testamento. L’ineluttabilità del male non troverà risposta se non nella fede in una vita ultraterrena.
E’ nel Nuovo Testamento che si ricompone l’alleanza di Dio con l’Uomo, attraverso il sacrificio di Cristo. S Agostino, riprendendo il pensiero di Platone, riaffermerà la responsabilità umana nella costruzione del proprio destino. Ma bisogna arrivare a Voltaire, a Rousseau e quindi a Marx per ridisegnare il concetto di male e la fiducia nella possibilità dell’uomo di rovesciare le condizioni sociali e materiali che generano il danno.
Il Novecento, però, mostrerà che il percorso è assai impervio. I regimi totalitari hanno il volto feroce del male assoluto. Quel volto che interromperà le relazioni tra individui e li trasformerà in masse amorfe, senza diritti e garanzie. Il mito del male puro ha delle immagini stereotipiche conferendogli una connotazione di immutabilità. Così il buono e inerme viene attaccato dal cattivo, guidato da una implacabile ostilità verso il bene e si introduce come una forza aliena nel mondo delle persone buone e virtuose. Nella vita quotidiana il mito del male assoluto trova nel razzismo il suo terreno fertile.
Il riferimento agli studi di Baumeister riconducono l’attenzione alla violenza nella vita quotidiana, ma in base alla prospettiva della vittima. Essa però ha un grado di perdita di sé maggiore nonché uno stato di sofferenza e impotenza superiori del carnefice.
“Vittima e oppressore sono nella stessa trappola, ma è l’oppressore che l’ha approntata” e non sono intercambiabili, ed entrambi hanno bisogno di rifugio. Non tutti ma i più per tutta la vita (Primo Levi 1986). ”Con questa riflessione l’autrice ritorna, nel capitolo sesto, a focalizzare l’attenzione sull’autore del danno ma sul versante dell’esperienza del sé e delle sue modificazioni. Riporta alcune analisi di E.Staub basandosi sul fatto che il persecutore, nel maltrattare, cambia l’idea che ha su se stesso e sugli altri. Cambiamenti influenzati dalle credenze condivise dal gruppo, dal rinforzo del principio di una prospettiva comune, dal mutuo sostegno, da intolleranza a ogni forma di dissenso e dalla venerazione verso il leader. Tali sono i casi dei terroristi e dei torturatori.
I meccanismi che riducono l’autocontrollo nei comportamenti violenti riconducono alla rigidità del modo di pensare, allo stato di stress, alla mancanza di abilità di autocontrollo, non sufficientemente sviluppate nel corso della socializzazione, all’influenza del gruppo, alla mancanza di consapevolezza sui principi etici e alle future conseguenze.
“Accettare che le vittime siano maltrattate e compiere azioni che producono danni all’inizio limitati, generano nei carnefici modificazioni psicologiche che rendono probabili azioni distruttive”. L’esperienza dannosa diventa parte normalizzata delle categorie mentali attenuando, se non eliminando, il senso di colpa.
In questo contesto, gli spettatori del danno assumono un ruolo estremamente rilevante in quanto possono influenzare la percezione degli eventi e orientarli verso forme di empatia, prendendosi cura degli altri, o di indifferenza attraverso la propria passività rinforzando il comportamento dell’autore del danno.
L’ultima parte sviluppa gli effetti di azioni violente sulla mente delle vittime, nelle risultanze degli studi e nelle ricerche psicosociali.
L’approccio iniziale riconduce alle relazioni della quotidianità e parte dagli studi che si sono concentrati prevalentemente sullo stigma come difetto del carattere, in cui la persona è ritenuta responsabile della propria condizione, sottolineando le conseguenze negative sulla formazione di una identità svalutata e sull’autostima.
Cita a proposito gli esperimenti di bimbi neri negli USA a cui venivano date, per i loro giochi, bambole nere e bianche e loro sceglievano le bianche. Chi è stato oggetto di discriminazione è probabile che sviluppi sentimenti di inferiorità o di scarso valore personale.
Interessante è l’intreccio con il senso di fallimento, per cui se penso di non avere alcuna possibilità di raggiungere un obiettivo, non ho nessuna ragione di tentare. In sintesi, le persone stigmatizzate pagano un grado di sofferenza non solo perché subiscono le opinioni degli altri ma creano anche per se stesse attese disfunzionali.
I contributi di due psichiatri, R. Lifton e R. Laufer, sulle caratteristiche del sé traumatizzato in casi di violenze estreme come le guerre, e le difficoltà dei reduci a ricomporre le loro esperienze di vittime nella vita ordinaria, mostrano come avvengano i processi di disgregazione del sé. In primo piano rimane la concezione della morte e della vulnerabilità del corpo. “Si tratta di un’esperienza difficile da assimilare per la repentinità con cui incombe nella vita quotidiana, poiché si associa a una esperienza estrema e considerata prematura. Il sé della guerra obbliga a un sistema adattivo che produce una traumatica discontinuità interiore.
Rilevante rimane nella vittima il senso di sopravvissuto, la ridotta vitalità emozionale, la frammentazione di sé, le mutilazioni corporee, la disconnessione umana, e la sindrome da stress postraumatico, caratterizzata da una infinità di altri scompensi e senso di isolamento. Studi supportati dalle analisi psichiatriche, non solo sui sopravvissuti al lager, ma sui reduci del Vietnam, sui pazienti cambogiani, sui bambini salvadoregni, mostrano comunque i limiti della indagine dell’esperienza traumatica in chiave individualistica.
Martin Baro, psicologo latino-americano, assassinato dalle truppe governative del Salvador nel 1989, sottolineò l’aspetto collettivo del trauma, radicato nelle relazioni sociali distorte. Occorre intervenire sulle condizioni che hanno generato il trauma e non solo sulla vittima.
La conclusione di questo prezioso testo induce l’autrice a diverse riflessioni: la speranza che si intensifichino gli studi aperti dagli psicologi sociali; la necessità di formare giovani studiosi maggiormente motivati ad approfondire le indagini in questo ampio settore; l’impegno a creare le condizioni per lo sviluppo di persone autonome, favorire relazioni positive con gli altri e sentimenti di connessione, promuovere il cambiamento sociale
Il riferimento all’auspicio dell’intellettuale Etty Hillesum, uccisa ad Auschwitz nel 1943, chiude questo interessante studio.
“Dai campi stessi di sterminio dovranno incoraggiarsi nuovi pensieri, e nuove conoscenze dovranno portare chiarezza oltre i recinti di filo spinato… e forse sulla base di una comune ricerca di chiarezza su questi oscuri avvenimenti, la vita sbandata potrà di nuovo fare un cauto passo avanti.”
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