La pedagogia di Gandhi

Angela Dogliotti

Antonio Vigilante, La pedagogia di Gandhi, Edizioni del Rosone, Foggia, 2010

Le Edizioni del Rosone hanno pubblicato un testo sulla pedagogia di Gandhi che si compone di un saggio curato da Antonio Vigilante e di una antologia di testi gandhiani sul tema dell’educazione.

Il saggio introduttivo è un ampio commento alla pedagogia di Gandhi, inquadrata nel più vasto contesto della cultura indiana, da un lato, e nella visione del mondo di Gandhi, dall’altro.

Opponendosi alla tendenza anglista, che punta ad occidentalizzare l’India, Gandhi propone un modello che si ispira alla tradizionale educazione indiana , che mette al primo posto la conoscenza religiosa e la formazione del carattere, finalizzate alla liberazione dall’illusione del mondo, attraverso l’addestramento al dominio dei sensi (tapascharya) e la rinuncia. In questa prospettiva gli anni dedicati alla formazione sono dunque in periodo di ascesi e di perfezionamento spirituale (bramacharya).

Collocata in tale contesto, la concezione educativa gandhiana emerge chiaramente nelle sue caratteristiche essenziali di continuità rispetto la cultura tradizionale indiana e di innovazione.

Gli elementi di innovazione, in parte ripresi da alcuni riformatori indiani come Swami Vivekananda e in parte legati all’influenza che sulla formazione di Gandhi ebbero le idee di Tolstoj, Ruskin e Thoreau, si possono individuare nei seguenti punti:

– l’educazione non solo riservata alla casta dei Brahmani e dei soldati (Kshatrya), ma rivolta a tutti, donne comprese;

– la coeducazione dei sessi;

– la ricerca della verità e della liberazione dalla violenza attraverso la non resistenza al male e – l’attivazione del potere personale di ciascuno;

– la valorizzazione del lavoro manuale;

– la concezione unitaria e relazionale che lega il bene dell’individuo al bene comune;

– la finalità “politica” dell’educazione: l’autogoverno di sé è propedeutico alla capacità dell’India di sapersi autogovernare, sottraendosi al dominio inglese.

– forza d’animo, coraggio, ed energia morale si sviluppano dunque in un programma che fonde politica, etica e spiritualità.

Gandhi sperimenta queste sue idee negli Ashram, comunità di vita e di addestramento all’azione nonviolenta. Il satyagrahi, opponendosi a una situazione di violenza, sa di agire in conformità a profonde leggi morali dell’essere che non possono consentire al male di trionfare se non in modo temporaneo, perché il mondo non è affidato al caso ma è governato da un Dio buono.

E ciò che fa di un uomo un satyagrahi è il sacrificio, esercitato nell’insieme delle pratiche di rinuncia al possesso, al piacere e alla violenza, che risvegliano l’energia spirituale e ristabiliscono il Dharma (ordine, bene, giustizia) .

Qui emergono anche le ombre che l’autore ben evidenzia nell’atteggiamento pedagogico di Gandhi: il suo rigorismo lo porta a stabilire spesso un rapporto di tipo autoritario con i suoi discepoli.

Il nodo centrale, come far rispettare le regole senza usare violenza, viene affrontato scegliendo l’autosacrificio: il maestro (o il satyagrahi) digiuna e in questo modo costringe il discepolo a sottomettersi al suo volere. Ma questa, commenta l’autore del saggio, non è una soluzione. Essa infatti fa emergere in tutta chiarezza la violenza morale che simili atteggiamenti dell’educatore hanno su chi è educato: in questo modo infatti l’errore del discepolo ricade sul maestro e ciò accresce il senso di colpa del discepolo, producendo una violenza coercitiva che conduce a dipendenza psicologica. “È difficile immaginare un sistema disciplinare che possa essere più deleterio per lo sviluppo libero, sano e creativo di un essere umano” (pag.89).

La pedagogia di Gandhi è anche messa a confronto con quello del suo contemporaneo Tagore: mentre l’educazione gandhiana svaluta l’aspetto intellettuale in favore di quello manuale e insiste sulla formazione morale religiosa, poiché fine dell’educazione è diventare persone di carattere, risolute nella ricerca della verità e nella pratica del bene, per Tagore il fine di una vera educazione è quello di far crescere persone che siano in armonia con il mondo; egli concepisce la spiritualità come cura più che come negazione di sé e l’ educazione deve promuovere la libertà che è costruzione della propria individualità, in armonia con gli altri e con l’ambiente.

Il clima della scuola di Tagore a Santiniketan è sereno e gioioso, sono bandite non solo le punizioni fisiche ma anche le pressioni psicologiche; mentre Gandhi impone una pratica rigoristica che richiede una disciplina ferrea.

Il saggio contiene anche acute riflessioni critiche sul metodo nonviolento, soprattutto quando si applica in contesti di conflitti interpersonali o interculturali.

Riportando l’esempio del conflitto tra Gandhi e Santok, una donna dell’Ashram Sabarmati, che trovava difficile accettare nell’Ashram gli intoccabili, perché le sembrava una decisione trasgressiva rispetto ai principi religiosi condivisi e indiscutibili, e che Gandhi “risolve” mandandola a Madras, a imparare l’arte della tessitura, un lavoro tradizionalmente riservato agli intoccabili, Vigilante commenta: quando si tratta di opporsi a chi difende i propri interessi, più che le proprie ragioni, ricorrendo alla violenza, il metodo nonviolento può essere spesso efficace,ed è sempre privo di contraddizioni interne. Ma che dire quando i due contendenti, in assoluta buona fede, difendono entrambi le loro ragioni ricorrendo al metodo nonviolento? E’ una situazione paradossale, dalla quale Gandhi è uscito- ed è difficile immaginare una soluzione diversa- con un puro atto di autorità (pag.117).

Nel capitolo specificatamente dedicato all’ educazione nell’Ashram, l’autore si sofferma poi a descrivere il modello educativo gandhiano fondato sull’integrazione delle tre H, le tre dimensioni della mano (hand, lavoro manuale), cuore (heart, educazione del carattere), testa (head, educazione intellettuale), sino al Nai Talim piano di educazione nazionale elaborato nella conferenza di Wardha del 1937, parte essenziale del programma costruttivo per l’indipendenza dell’India.

Il saggio si conclude con un interessante capitolo sull’eredità della pedagogia gandhiana in Italia che Vigilante individua nell’educazione aperta di Aldo Capitini, nella maieutica reciproca come strumento di empowerment di Danilo Dolci e nell’importanza della parola e della trasformazione nonviolenta del conflitto in don Lorenzo Milani.

Infine, tra le inattualità positive della pedagogia gandhiana Vigilante sottolinea come, nell’attuale situazione di crisi della scuola italiana, dovuta alla fragilità della concezione di cultura come mezzo di affermazione sociale, Gandhi potrebbe aiutarci a pensare la cultura nell’ottica del servizio, sulla scia del motto milaniano “Cercasi un fine: dedicarsi al prossimo”, tanto inattuale quanto essenziale per rivitalizzare ogni progetto degno di chiamarsi educativo.

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