Palestine for dummies – Davide Zivieri

Ero inquieto, volevo vedere più mondo”, scrisse Chatwin, “ma il mondo – aggiunsi sulla mia Moleskine – mi lasciava sempre più inquieto”. E questo fu un motivo sufficiente per andare a zonzo per quell’intricato dedalo di frontiere e posti di blocco che disegna la geografia spezzata delle comunità palestinesi. Attraversarle provoca sempre un po’ di tensione e il video diario di viaggio racconta anche queste disavventure (sul canale di YouTube: Palestine for dummies). Con un passaporto internazionale è però possibile visitare la Cisgiordania in tutta sicurezza: un privilegio che spendo volentieri per capire cosa si nasconde al di là del muro. Perdersi per le città e le colline desertiche è una perfetta scusa per farsi offrire i molti caffé che accompagnano le cordiali quanto contradditore indicazioni, tanto la meta è l’incontro. Guardando con i propri occhi è sufficiente un momento per capire l’asimmetria dei rapporti di potere. Ordinati quartieri israeliani recintati da filo spinato sulle cime delle colline della Cisgiordania; posti di blocco come all’entrata di uno stadio; un muro di cemento alto tre metri: ecco cosa significavano quei fiumi di parole ascoltati al telegiornale. È proprio questa triste realtà, ostile al diritto, che palesa l’ingiustizia nei gesti più quotidiani, quella raccontata in questi appunti di viaggio, come un sacchetto di pane setacciato al metal detector.

È molto più difficile superare il muro che gli israeliani “innalzano quando si passa da un discorso umanitario a considerazioni politiche” dichiara Ran Yaron, attivista israeliano per la pace impegnato con Physician for Human Rights (PHR). Ogni sabato un gruppo di medici volontari, ebrei ed arabi israeliani, offre visite gratuite nei centri sanitari palestinesi che soffrono di una strutturale mancanza di specialisti. Ma “il problema principale della salute in Palestina rimane, in una parola, l’occupazione”, racconta Moustafa Barghouti, fondatore della Medical Relief Society.

Ai cittadini israeliani è proibito entrare nei Territori Palestinesi, sebbene 450.000 coloni abitano negli insediamenti sparsi per la Cisgiordania e molte sono le presenze militari israeliane che controllano il territorio: “non vogliono che si veda che gli arabi non hanno il coltello tra i denti, le corna e la coda, e non sono tutti terroristi” afferma decisa un’ottantasettenne infermiera volontaria di PHR. “Sono un fuorilegge” ammette sorridendo Rapahel Walden, chirurgo cardiovascolare: un medico israeliano clandestino nei Territori Palestinesi è uno specchio dello scandalo che subiscono i palestinesi nei Territori del loro futuro Stato. Allo stesso modo offrire aiuto umanitario non è una soluzione, bensì un modo per segnalare la gravità delle scelte politiche dell’occupazione e permettere un’occasione d’incontro tra le due comunità.

Per Iris, una giovane studentessa di medicina, è la prima volta da questa parte del muro senza la divisa, che è pronta ad indossare di nuovo come riservista. “Occorre fare una scelta precisa. Se fossi un israeliano proverei vergogna per questo sistema di Apartheid” risponde Barghouti alle contraddizioni vissute dai cittadini israeliani che vorrebbero un paese diverso, ma trovano nel ricorso alla forza armata l’unica soluzione per assicurare il proprio diritto alla sicurezza. Una lunga chiacchierata con alcuni giovani universitari di Tel Aviv non dirime la questione: amare il proprio paese implica il servizio militare. Chi non la pensa nello stesso modo, come gli obiettori di coscienza di Breaking the Silence, incorre in una pena detentiva e viene spesso accusato di essere naif, se non addirittura un traditore.

Le associazioni israeliane sono ben accolte in Palestina sempre e quando prendano una posizione chiara contro l’occupazione: viceversa si assisterebbe a un processo di “normalizzazione” della situazione attuale. Molti elementi dell’occupazione sono considerati ormai abituali, ma non per questo sono sintomi di quella normalità a cui tutti anelano. Entrambe le comunità desiderano la pace, ma la normalità non può essere quella dei bambini palestinesi di At-Tuwani scortati dall’esercito israeliano per proteggerli dai coloni. Rivendicare quella quotidianità non è l’adattamento rassegnato alla legge del più forte, ma un vero e proprio esercizio di resistenza nonviolenta.

Gli abitanti del villaggio di Bi’lin, insieme a pacifisti internazionali, ogni venerdì protestano contro il tracciato del muro che sta accerchiando il villaggio e togliendo loro l’accesso ai campi di olivi. “Le mie tasse pagano questa occupazione, e non ho altro modo per far sapere al mio governo che non sono d’accordo” dichiara Roy Wagner, un giovane anarchico israeliano presente alla manifestazione.

Il processo di pace langue impantanato negli interessi della comunità internazionale e le violazioni del diritto sancite dalle risoluzioni ONU rimangono impunite, come risulta dai documenti ufficiali. Eppure questa posizione in favore del diritto internazionale espone all’accusa di antisemitismo. La campagna di boicottaggio verso i prodotti israeliani fabbricati nelle colonie mira a dichiarare sbagliata l’occupazione, ma “se combatti contro l’occupazione allora sei un terrorista”. Difficile trovare spazi di contestazione e critica senza chiudersi su posizioni dicotomiche a favore dell’una o l’altra posizione politica, dimenticando che le vittime affollano entrambi i fronti e chiedono giustizia. Ma questo conflitto, dichiara Aaron di Parent Circle, padre di un soldato ucciso nella guerra in Libano impegnato nel dialogo per la riconciliazione, “non è una partita di calcio. Non si tratta di essere tifosi di una parte o di un’altra”. Occorre piuttosto cercare di capire i vissuti delle persone: per questo “nessun documentario né nessun libro può sostituire un viaggio” conclude Moustafa Barghouti.

E così eccomi in viaggio. Negare la realtà che curiosi i miei occhi fotografano, rifugiandosi nelle feste sul lungomare di Tel Aviv o nei locali in stile francese di Gerusalemme Ovest, o nei gioielli architettonici e storici del centro storico, continua a lasciarmi inquieto. La coscienza civica israeliana che destruttura la narrazione egemonica che il proprio governo impone anche ai media internazionali è la chiave dell’incontro possibile tra due comunità che vivono una accanto all’altra schiacciate nella paura e nella sfiducia. “Non faccio tutto questo per pulirmi la coscienza, faccio semplicemente quello che posso” dichiara Ran. Con la coscienza dei propri limiti, ma spinto da quest’insaziabile inquietudine, vicino a chi, per costruire la pace, prova a cambiare sé stesso e ad incontrare l’altro.

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