Il sangue del sud – Recensione di Francesca Putzolu

Giordano Bruno Guerri, Il sangue del sud, Mondadori, Milano 2010

Il libro di Giordano Bruno Guerri, ricco di un’accurata documentazione, rilegge le vicende del Risorgimento restituendo al lettore una visione storica scevra dalla retorica “dell’esaltazione acritica di un patriottismo parolaio”. E’ un’interessante riflessione su come si è ottenuta l’unità d’Italia, sugli errori, sulle strategie sbagliate e sulle storiche piaghe che sono all’origine della “questione meridionale “.

Lungo 17 avvincenti capitoli, si snoda un percorso che porta il lettore negli avvenimenti del tempo, un periodo che va da metà ottocento, con una concisa descrizione dei moti che sconvolsero l’Italia, al 1870, quando si compierà l’annessione dello Stato pontificio e la sconfitta definitiva del brigantaggio.

L’enfasi viene posta, nella prima parte del libro, sulla vera disunità come dal titolo del capitolo primo, tra classe dirigente e popolo, sempre agognato ma mai al fianco dell’elite intellettuale che, in varie forme, perseguiva il sogno dell’unità nazionale. Un popolo la cui povertà era il denominatore comune, oltre al profondo attaccamento alla figura del Papa e una diffusissima superstiziosa religiosità sostenuta dalle encicliche che condannavano duramente laicismo, liberalismo e libertà civili, nonché conseguentemente libertà di stampa e di coscienza.

Nonostante ciò, le idee e le speranze che la rivoluzione francese avevano acceso formarono numerosi rivoli che precipitarono verso un unico fiume, irrorando sementi che trovarono il terreno su cui attecchire. Mazzini, Catteneo, Gioberti, Rosmini, Pisacane, Cavour, Garibaldi, Pio IX, Carlo Alberto, Vittorio Emanuele II, Franceschiello e Maria Sofia, sono gli interpreti repubblicani e monarchici, guelfi e ghibellini, come li definisce l’autore, di una gran parte del dramma: un palcoscenico sul cui sfondo, come nel coro classico della tragedia, i popoli sfruttati esprimono la loro inascoltata esigenza di giustizia e pane, mentre nella scena si rappresenta la lotta per l’indipendenza, per la Costituzione e per l’unità della penisola. All’interno di uno schema in cui si collocano le popolazioni da una parte e i patrioti dall’altra, emergono le scelte dei Savoia, dei generali, dei ministri, dei Papi, dei re, usi a considerare lo stato un proseguimento dei loro domini dinastici su cui imporre tasse, balzelli, leggi speciali da far rispettare con la forza, pena la fucilazione, come la famigerata legge Pica del 1863 dimostra.

Al ”tessitore d’Italia” è riservato un capitolo avvincente. Personaggio straordinario, Camillo Benso conte di Cavour, ”accantonata la teoria” fu capace di modificare la realtà e conseguire l’unità e l’indipendenza del paese”. L’autore lo descrive dall’aria sarcastica e dall’intelligenza luciferina, un uomo del fare, un libertino scapolo impenitente (ricorda qualcuno a noi vicino?). Ma al fare di Cavour i piemontesi devono la ricchezza della piccola regione. Riformista e liberista, trasformò il Piemonte secondo il modello degli stati più avanzati d’Europa. Fa pensare però il capitolo terzo in cui Giordano Bruno Guerri ci offre degli elementi sulla complessità dell’economia del Sud. E’ vero che le masse contadine erano diseredate, ma il Regno delle due Sicilie possedeva una riserva aurea di 445,2 milioni, ampiamente depredati da “un sistema di trucchi finanziari” a favore dei Savoia. Inoltre il Sud divenne mercato dei prodotti del Nord. A Napoli i Borboni avevano favorito scuole e conservatori musicali. Un capitolo questo che, nella costruzione generale del libro può essere considerato come l’esordio della complessità della “conquista”. Inizia a smantellare lo stereotipo del Nord ricco e del Sud arretrato, dove una nuova classe sociale, la borghesia latifondista, aveva incrementato la produzione dell’olio, della vite, dei cereali. I contadini restarono comunque in stato di miseria, di servitù. La riforma agraria, che suscitò le prime adesioni verso l’impresa dei Mille poiché promessa da Garibaldi, non venne mai affrontata.

Come avvenne la conquista è un altro intreccio di episodi di piani sovrapposti e contrastanti, di sottili strategie politiche in cui personaggi come Giuseppe Garibaldi possono passare da eroi a traditori, da strumenti del disegno di Cavour a pericolosi nemici da gambizzare. Defezioni di generali dagli eserciti dei borboni a quelli garibaldini e viceversa, classi dirigenti locali che, rassicurate nel possesso dei loro beni, cercavano la protezione dell’esercito sabaudo per difendersi dalla furia delle vendette delle classi oppresse, resero l’unificazione d’Italia un susseguirsi di violenze e di brutalità inimmaginabili.

La speranze di libertà e soprattutto del possesso di un po’ di terra si infransero non appena i contadini capirono che qualsiasi legittima richiesta era una minaccia per l’ordine pubblico pena la fucilazione.

La Conquista è il titolo del quinto capitolo, in cui l’autore, con ricchezza di fonti storiche, ci conduce progressivamente dallo sbarco dei Mille fino allo scioglimento dell’esercito delle camicie rosse per proseguire attraverso numerosissimi episodi di vera e propria guerra civile. Il sovrano Francesco è tracciato con una certa umanità. Egli appare come una figura sicuramente di potere, ma dolorosa, afflitta dal destino incerto che incombe sui sudditi e suo malgrado in guerra nonostante avesse perseguito la pace con tutte le potenze europee. Egli consegna Napoli, ma i sabaudi si accaniscono nella fortezza di Gaeta dove si rifugia con la regina, donna di grande tempra e coraggio. Gaeta non smetterà di ricordare le morti e le sofferenze di quel luttuoso episodio.

Arresti, fucilazioni sommarie, campi di prigionia in cui si moriva di stenti e torture. Una lista di soprusi che non accendono un minimo barlume di simpatia verso lo spietato esercito sabaudo. L’autore chiarisce bene, l’esercito era formato anche da meridionali, camicie rosse che serviranno alla sconfitta della lotta contro il brigantaggio.

Nella seconda parte del libro, dal capitolo ottavo al diciassettesimo, con tutta la forza della violenza, delle passioni, dei delitti, della riscossa sociale, della vendetta, della libertà dallo straniero, fanno la comparsa sulla scena i briganti con i loro numerosi seguaci, quasi veri eserciti, e le strategie da precursori della resistenza sul campo. Conoscitori dei luoghi, macchie, monti, fitte foreste (un po’ di malinconia viene al lettore ripensando alla bellezza di quei paesaggi che ormai briganti ben peggiori hanno distrutto) aggredivano sparute pattuglie piemontesi e, via via, sempre più numerosi eserciti.

Spietati e coraggiosi allo stesso tempo, furono interpreti delle speranze di riscossa e di resistenza al nemico invasore dopo la sconfitta degli eserciti regolari borbonici.

L’antistoria del Risorgimento e del brigantaggio, sottotitolo al più significativo “Il sangue del sud”, è già un primo passo verso gli avvenimenti su cui lo scrittore vuole porre l’attenzione. E di sangue ne venne sparso molto nel fare gli italiani, soprattutto nel sottomettere quella parte di masse misere che abbondavano nel Sud, verso le quali i Savoia e anche alcuni padri del Risorgimento come Massimo d’Azeglio, ebbero a dire che facevano paura come “mettersi a letto con un vaioloso”. Pregiudizi e razzismo erano il collante delle scelte politiche, una vera “enciclopedia del disprezzo” la definisce l’autore. C’è da dire, a uno sguardo più ampio, che tutte le potenze europee impegnate nella conquista coloniale motivavano i loro stermini disumanizzando l’altro, un razzismo biologico che ben rendeva note anche a Cavour le strategie adottate dagli inglesi in Africa e in India: fucilazioni e carneficine.

Il brigantaggio, o meglio gli eserciti guidati da briganti famosi, che divennero i difensori della causa borbonica e del papato, si estesero a macchia d’olio. La chiesa diede a essi una legittimazione nobilitante per poi togliere loro il sostegno quando i giochi erano fatti.

Come il leggendario Carmine Crocco, che dagli esordi come sottufficiale dell’esercito garibaldino passò a sposare la causa borbonica. Carismatico e oratore efficace si presenta come “l’uomo forte della restaurazione e il difensore dei poveri”. Chiavone -per la grande chiave della casa appesa al collo- che in Ciociaria e oltre, assunse il ruolo di difensore del re e del Papa. Stanare i briganti che erano sostenuti dalla popolazione necessitò di numerosissimi soldati e di grandi mezzi, infatti dove non potevano le armi, le fucilazioni sommarie, le stragi, gli incendi, poterono le ingentissime taglie messe sulle loro teste.

Accanto ai feroci racconti sui briganti, suscitavano morbose curiosità le notizie di selvagge brigantesse, dalla condotta altrettanto sanguinaria. E’ interessante come l’autore riequilibri lo stereotipo con una più approfondita attenzione alle condizioni di miseria e di emarginazione che spesso non davano loro scampo. Erano tempi duri di grande sofferenza. Francesca Lagamba, Nicolina Licciardi, Maria Capitanio di San Vittore, Arcangela Cotugno, Elisabetta Blasucci, e tante altre, dalle vite non diverse dai loro compagni, per audacia, capacità di adattamento a vivere nei boschi e coraggio verso gli eserciti sabaudi.

Fra il sangue sparso per la causa anche i piemontesi, i soldati, soffrivano e morivano come mosche, spesso ignari di dove venivano mandati, aggrediti da febbri perniciose e tifoidee e in più con la frustrazione di combattere banditi, lavoro poco dignitoso a cui non erano preparati. Così barbarie, assassini e ferocia furono le armi con cui si confrontavano.

Le conclusioni del libro non offrono giudizi definiti, ma pongono piuttosto questioni ancora irrisolte che sono poi i grandi quesiti di oggi: federalismo e centralismo. L’autore conclude che comunque degli errori del passato bisogna far tesoro e che la storia continua a essere una grande maestra di vita. I contadini continueranno per ancora un ventennio per poi fare una scelta disperata. Così compaiono sullo sfondo i segni premonitori dell’esodo, o, come a mio parere sarebbe meglio dire, della grande diaspora che porterà circa 27 milioni di “italiani” a lasciare la “patria” ingrata per dare intelligenze, braccia e sangue in America.

1 commento
  1. giancarlo o.
    giancarlo o. dice:

    posso solo complimentarmi con la signora Francesca e con Guerri per aver segnalato questo dramma, di cui pochi italiani sono al corrente.E mi risulta che i maestri dellle scuole del Sud Italia non sono autorizzati a parlarne cosi come Guerri elenca i fatti, perchè — l'imperativo dominante — è onorare i Savoia, Cavour e Garibaldi ecc. Loro sono gli eroi: la storia vera non interessa nessuno e nessuno si chiede il perchè sono nate la cinque mafie che ormai spadroneggiano in Italia e altrove. Venerdi 21.10.2016 il magistrato di Catanzaro Gratteri ha parlato di mafie, a La7 a Ottoe e mezzo dalla Gruber.Ascoltatelo .http://www.la7.it/otto-e-mezzo/rivedila7/otto-e-mezzo-21-10-2016-196226

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