La repressione sfida la resistenza nonviolenta nel Sahara Occidentale

Stephen Zunes

I Sahrawi si sono impegnati in proteste, scioperi, celebrazioni culturali e in altre forme di resistenza civile focalizzata su temi come politica educativa, diritti umani, rilascio di prigionieri politici, e diritto all’auto-determinazione. Hanno anche aumentato il costo dell’occupazione per il governo marocchino e la visibilità per la causa sahrawi.

L’8 novembre 2010, le forze d’occupazione marocchine hanno attaccato una tendopoli di ben 12.000 abitanti del Sahara Occidentale alle porte di Al Aioun, al culmine di una protesta della popolazione indigena sahrawi, durata alcuni mesi, contro la politica di discriminazione nei loro confronti e per denunciare le drammatiche condizioni economiche. Non solo l’intensità repressiva è stata senza precedenti, lo è stata altrettanto la reazione popolare: in un drammatico abbandono delle proteste quasi integralmente nonviolente degli ultimi anni, la popolazione locale si è rivoltata contro gli occupanti, dandosi a tumulti e incendi diffusi. Al momento di queste note, i particolari sono ancora poco chiari, ma sottolineano il bisogno urgente di sostegno da parte della società civile globale a questa popolazione che lotta con metodi nonviolenti per il proprio diritto di auto-determinazione e per sfidare i governi occidentali che sostengono il governo responsabile della repressione.

Il Western Sahara è un paese poco popolato situato sulla costa atlantica dell’Africa del Nord-Ovest. Tradizionalmente abitato da tribù arabe nomadi, collettivamente note come Sahrawi e famose per la loro lunga storia di resistenza alla dominazione esterna, il paese fu occupato dalla Spagna dal tardo 1800 fino alla metà degli anni 1970. Il nazionalista Fronte Polisario lanciò una lotta armata per l’indipendenza contro la Spagna nel 1973, e Madrid alla fine promise al popolo dell’allora ancora Sahara Spagnolo un referendum per il destino del territorio entro la fine del 1975. Pretese irredentiste del Marocco e della Mauritania furono presentate alla Corte Internazionale di Giustizia, che decise a favore del diritto dei sahrawi all’auto-determinazione. Una speciale Missione esplorativa ONU s’impegnò in un’indagine quello stesso anno, riferendo che la vasta maggioranza dei sahrawi era per l’indipendenza sotto la guida del Polisario, non per l’integrazione con il Marocco o la Mauritania. Sotto pressioni degli USA, che non volevano l’ascesa al potere del sinistrorso Polisario, la Spagna rinnegò la sua promessa di referendum concordando invece sulla partizione del territorio fra Marocco e Mauritania, paesi pro-occidentali.

All’ingresso delle forze marocchine nel Sahara Occidentale, gran parte della popolazione fuggì in campi profughi nella vicina Algeria. Il Marocco e la Mauritania respinsero una serie di risoluzioni unanimi del Consiglio di Sicurezza ONU che chiedevano il ritiro delle forze straniere e il riconoscimento del diritto sahrawi all’auto-determinazione. Nel frattempo, USA e Francia, pur avendo votato a favore di tali risoluzioni, bloccarono l’ONU nell’attuarle. Intanto il Polisario – che era stato scacciato dalle parti Nord-Occidentali del paese più popolate – ne dichiarò l’indipendenza come Sahrawi Arab Democratic Republic. Grazie in parte agli algerini che gli fornirono quantità importanti di attrezzature militari e di sostegno economico, i guerriglieri Polisario combatterono efficacemente contro entrambi gli eserciti occupanti. La Mauritania fu sconfitta nel 1979, e concordò di cedere il proprio terzo del Sahara Occidentale al Polisario, ma i marocchini si annessero pure quella restante parte meridionale del paese.

Il Polisario allora concentrò la sua lotta armata contro il Marocco e entro il 1982 riuscì a liberare l’85% del proprio paese. Nel corso dei quattro anni seguenti, tuttavia, le sorti della guerra furono rovesciate a favore del Marocco con sostanziosi aumenti del sostegno USA e francese alla sforzo bellico marocchino: forze USA, in particolare, fornirono un importante addestramento all’esercito marocchino nelle tattiche anti-insurrezionali e lo aiutarono nella costruzione di un muro che teneva il Polisario fuori da gran parte del paese. Intanto il governo marocchino incoraggiò con successo l’immigrazione in Sahara Occidentale di migliaia di coloni marocchini con generosi sussidi d’alloggio e altri benefici. Sicché questi nei primi anni ’90 superavano i nativi sahrawi rimasti in un rapporto di oltre 2:1.

Un cessate-il-fuoco nel 1991 era parte di un accordo che avrebbe comportato il ritorno dei profughi sahrawi nel Sahara Occidentale e il successivo referendum con supervisione ONU sul destino del territorio. Però né il rimpatrio né il referendum ebbero luogo, per l’insistenza marocchina di far valere anche il voto dei propri coloni e di altre tribù marocchine con presunti legami tribali con il Sahara Occidentale. Per uscire dall’impasse il Consiglio di Sicurezza ONU nel 2004 approvò una risoluzione che avrebbe permesso ai coloni marocchini di votare anch’essi nel referendum dopo 5 anni di autonomia. Il Marocco però rifiutò anche questa proposta, con la presumibile rassicurazione che francesi e americani avrebbero di nuovo minacciato il veto a qualunque risoluzione che imponesse sanzioni o altre forme di pressione sui marocchini per un compromesso.

Resistenza popolare non armata

Come avvenuto durante gli anni 1980 sia in Sud Africa sia nei territori palestinesi occupati da Israele, il fulcro della lotta libertaria per il Sahara Occidentale è passato dalle iniziative militari e diplomatiche di un movimento armato in esilio a una resistenza popolare prevalentemente non armata all’interno, con giovani attivisti nel territorio occupato e perfino in parti del Marocco del sud popolate da sahrawi che hanno affrontato le truppe marocchine in dimostrazioni di strada e altre forme d’azione nonviolenta, nonostante il rischio di fucilate, arresti di massa, e torture. Sahrawi di varia estrazione sociale hanno partecipato a proteste, scioperi, celebrazioni culturali, e altre tecniche di resistenza civile focalizzate su temi come la politica educativa, i diritti umani, il rilascio di prigionieri politici, e il diritto all’auto-determinazione. Hanno anche aumentato il costo dell’ occupazione per il governo marocchino e la visibilità per la causa sahrawi. Effettivamente la resistenza civile ha contribuito, cosa forse principale, a formare un sostegno al movimento sahrawi fra le ONG internazionali, i gruppi di solidarietà e perfino marocchini che ne condividono gli obiettivi.

La comunicazione via Internet è diventata un elemento chiave nel movimento sahrawi, con chat rooms pubbliche che si sono trasformate in centri vitali per l’invio di messaggi relativi alla incipiente campagna di resistenza ai sahrawi della diaspora e agli attivisti internazionali. Nonostante tentativi dei marocchini di distruggere tali contatti, la diaspora ha continuato a fornire sostegno finanziario e d’altra natura alla resistenza. Benché ci siano state lamentele provenienti dall’interno del territorio secondo cui il sostegno al movimento da parte della vecchia generazione dirigente del Polisario non era adeguato, sembra che ora nel suo insieme il Polisario si sia reso conto di aver giocato praticamente tutte le sue carte con la firma di una tregua e l’aver subito il rifiuto marocchino della soluzione diplomatica attesa in contropartita. Pertanto è cresciuta la consapevolezza che la sola vera speranza d’indipendenza deve venire dal territorio occupato in sinergia con gli sforzi di solidarietà della società civile globale. Ci sono state alcune piccole vittorie, come la riuscita campagna che ha portato la leader della resistenza nonviolenta sahrawi Aminatou Haidar a ottenere il premio per i diritti civili Robert F. Kennedy 2008, o l’aver costretto le autorità marocchine a rimangiarsi l’ordine di espellerla nel dicembre 2009 che l’aveva indotta a uno sciopero della fame durato 30 giorni, con conseguenze quasi letali.

Dopo l’uso della forza da parte delle autorità marocchine per spezzare la serie di ampie e prolungate dimostrazioni nel 2005-2006, la resistenza optò quindi per lo più per proteste minori, alcune programmate e altre spontanee. Una tipica protesta cominciava all’angolo di una strada o piazza srotolando una bandiera sahrawi mentre le donne cominciavano a ululare e la gente scandiva slogan indipendentisti; all’arrivo di soldati e polizia di lì a pochi minuti, la folla si disperdeva alla svelta. Altre tattiche hanno compreso il volantinaggio, i graffiti (stigmatizzando anche le case dei collaboratori), e celebrazioni culturali con particolare enfasi politica. Tali azioni nonviolente, ampiamente sostenute dalla gente, sembrano essere state il frutto di iniziative più individuali che coordinate di resistenza civile. Eppure, l’uso regolare di una violenta repressione da parte del governo marocchino per soggiogare le proteste nonviolente a guida sahrawi fa pensare che le si consideri una minaccia al controllo marocchino.

Uno degli ostacoli alla resistenza interna è che i coloni marocchini superano la popolazione indigena di oltre il doppio e più ancora nelle città principali, rendendo più problematiche certe tattiche efficaci di lotte analoghe. Per esempio, sebbene potrebbe essere efficace uno sciopero generale, il gran numero di coloni marocchini insieme alla minoranza sahrawi che si oppone all’indipendenza colmerebbero facilmente i vuoti risultanti dal venir meno dei pur numerosi lavoratori sahrawi. Benché ciò possa essere mitigato da crescenti sentimenti indipendentisti fra i coloni del Marocco meridionale d’etnia sahrawi, una tale prospettiva presenta sfide che non sono state affrontate in lotte prevalentemente nonviolente e simili in altre terre occupate – fra cui Timor-Est, Kosovo, e territori palestinesi.

Un mutamento nella strategia del Marocco

Nonostante questo, la resistenza civile sembra aver anche indotto un mutamento nella strategia del Marocco di mantenere il controllo del territorio ricco di minerali. Benchè il piano d’autonomia marocchino presentato nel 2006 per il territorio non tocchi in sostanza la responsabilità legale del Marocco nel riconoscimento del diritto dei sahrawi all’auto-determinazione (si veda il mio articolo su Open Democracy “More Harm Than Good” [Più male che bene], http://www.opendemocracy.net/article/more_harm_than_good ), costituisce tuttavia un’inversione della storica insistenza marocchina che il Sahara Occidentale sia parte del Marocco tanto quanto le altre province poiché ne riconosce una specifica entità distinta. Negli ultimi anni le proteste nel Sahara Occidentale hanno cominciato a destare una certa consapevolezza in ambito marocchino, specialmente fra gli intellettuali, gli attivisti di diritti umani, i gruppi pro-democrazia, e alcuni islamisti moderati – da tempo sospettosi della linea del governo in vari settori – sul fatto che non tutti i sahrawi si considerino marocchini e che esiste un’autentica opposizione indigena al dominio marocchino.

Nel territorio occupato si dà la preferenza ai coloni marocchini e ai collaboratori per gli alloggi e gli impieghi e la popolazione indigena non riceve virtualmente alcun vantaggio dalle ricche pescherie e dai ricchi depositi di fosfati del paese. Per reazione è emersa una nuova tattica la scorsa fine estate, con l’erezione a cura degli attivisti sahrawi di una tendopoli a circa 15 kilometri fuori El Aioun, ex-capitale coloniale e principale città del territorio occupato. Giacché viene brutalmente repressa ogni sorta di protesta volta all’auto-determinazione, all’indipendenza, o all’attuazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU, i dimostranti evitarono con cura appelli provocatori del genere, chiedendo invece null’altro che giustizia economica. Ma anche questo era troppo per la monarchia marocchina, risoluta a schiacciare questa sfida nonviolenta di massa. I marocchini strinsero l’assedio a inizio ottobre, attaccando i veicoli che trasportavano alimentari, acqua e forniture mediche al campo, col risultato di varie decine di feriti e la morte di un quattordicenne. Infine, l’8 novembre, i marocchini attaccarono l’accampamento, scacciandone i protestatari con gas lacrimogeni e idranti, picchiando chi non scappava abbastanza in fretta, in una sarabanda che ha indotto l’incendio e il saccheggio di case e botteghe di sahrawi, con le truppe d’occupazione che arrestavano o sparavano a sospetti attivisti, centinaia dei quali sono scomparsi dopo lo scoppio delle violenze.

Il Marocco è stato in grado di eludere i suoi obblighi di diritto internazionale verso il Sahara Occidentale in buona parte perché Francia e Stati Uniti hanno continuato ad armare le forze d’occupazione marocchine e bloccato l’attuazione delle risoluzioni al Consiglio di Sicurezza ONU che esigono che il Marocco permetta l’auto-determinazione o anche solo lo stazionamento di ispettori di diritti civili disarmati nel paese occupato. Ora quindi, il potenziale di azione nonviolenta dei cittadini di Francia, Stati Uniti e di altri paesi che permettono al Marocco di mantenere l’occupazione è almeno altrettanto importante della resistenza nonviolenta sahrawi. Mobilitazioni esterne di questo tipo hanno avuto un ruolo di primo piano nel costringere Australia, Gran Bretagna, e Stati Uniti a porre fine al loro sostegno all’occupazione indonesiana di Timor-Est.

Nonostante 35 anni d’esilio, guerra, repressione e indifferenza internazionale, il nazionalismo sahrawi è forte nella giovane generazione almeno quanto nella vecchia, come pure la loro volontà di resistere. Il tempo necessario perché la loro lotta per l’autodeterminazione abbia successo dipende probabilmente da quanto la società civile globale saprà impegnarsi nella solidarietà internazionale.


Stephen Zunes – Open Democracy

Stephen Zunes è professore di Studi Politici e di Studi sul Medio Oriente all’Università di San Francisco dove svolge la funzione di presidente della commissione consultoria del Centro Internazionale sui Conflitti Nonviolenti. Il suo libro più recente (in cooperazione con Jacob Mundy) è Western Sahara: War, Nationalism, and Conflict Irresolution [Sahara Occidentale: guerra, nazionalismo e non risoluzione del conflitto], Syracuse University Press, 2010.

Titolo originale: Upsurge in Repression Challenges Nonviolent Resistance in Western Sahara

http://www.transcend.org/tms/2010/11/upsurge-in-repression-challenges-nonviolent-resistance-in-western-sahara/

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis


 

1 commento
  1. Giancarlo Saccani
    Giancarlo Saccani dice:

    Bell'articolo, chiaro e utile.

    Nel momento in cui la repressione dell'esercito marocchino si fa più dura, è molto importante sottolineare il carattere prevalentemente nonviolento della resistenza saharawi, spontanea, non strutturata, ma sentita ed efficace.

    Sarebbero essenziali attenzione e supporto da parte dei nonviolenti, soprattutto europei, con campagne di pressione su Francia e Spagna.

    Rispondi

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