L’arte del giornalismo di guerra – Mwaura Kaara

Riflettendo su come i media e le industrie belliche spesso si alimentano reciprocamente a fini politici e commerciali, Mwaura Kaara considera le prospettive per il “giornalismo di pace” che “presenta la verità senza pregiudizi o partigianerie”.

Sto sperimentando l’ospitalità norvegese da due settimane. Per orientarmi nel nuovo ambiente, ho fatto parte del gruppo che organizzava la celebrazione dell’80° compleanno di Johan Galtung.  Galtung è uno dei figli celebri della Norvegia e un’autorità nel campo degli studi per la pace. Ha scritto più di 1.000 articoli e pubblicato oltre 150 libri sull’argomento, tenuto molte conferenze in tutto il mondo ed è stato consulente di molti governi su questo tema importante. Per me questa è un’occasione notevole, e non ho potuto fare a meno d’ammirare il coraggio di un uomo che non ha solo sviluppato delle teorie, ma ha anche saputo sognare un mondo migliore. Le celebrazioni del suo 80° compleanno si sono svolte nell’ambito di un seminario sulla pace per una riflessione critica non solo sulla sua vita e le sue opere, ma anche sul più ampio concetto di pace nel contesto del nostro mondo. Questo mi ha permesso di riflettere sulla questione complessiva della pace in relazione alla realtà che si tocca con mano, cercando di capire perché ci sia la guerra, che cosa la perpetua, come ci poniamo nei suoi confronti.

PERCHE’ C’È LA GUERRA?

Non è facile trattare il concetto di guerra. Per capire perché esista, bisogna guardarne in dettaglio le cause – e purtroppo non c’è consenso sul perché e come le guerre avvengano. Varie teorie e approcci sono stati proposti dalla sociologia, dalle teorie genetiche ed evoluzioniste (l’aggressività determinata geneticamente per massimizzare la sopravvivenza), dalle teorie comportamentiste (la guerra come comportamento appreso), dalle teorie razionali (massimizzazione dei profitti), da varie teorie economiche (avidità, relativa depravazione, cattiva situazione economica, interessi dell’industria degli armamenti), da varie teorie politiche (squilibri di poteri, istituzione dello stato, sistemi politici repressivi specialmente in presenza di rapidi mutamenti, mancato accesso al potere, cicli di pace e guerra, istituzione dell’apparato militare), teorie ecologiche (squilibri ecologici e ridottta disponibilità di risorse), teorie culturali (etnicità o nazionalismo) e teorie cognitive (atteggiamenti e credenze). [1]

Si è ancora più in disaccordo su come superare le guerre. Coloro che considerano l’economia come la causa prima – o direttamente sotto forma dell’industria degli armamenti e di altri profittatori della guerra, o come risultante del sistema capitalista e consumista in generale – vedono la soluzione in un diverso sistema economico mondiale. Quelli che sostengono una posizione di realismo politico fanno notare che le democrazie hanno più o meno smesso di combattersi, e perciò suggeriscono di lavorare alla governance internazionale con norme democratiche. Quelli che considerano la psiche dell’essere umano individuale e le sue carenze come la radice del problema sostengono che gli individui devono essere al centro, essi devono cambiare per primi, mutare i propri atteggiamenti verso la violenza e verso la vita perché avvenga il cambiamento generale.

Ciò che questo scenario esprime chiaramente è che a prescindere dalla scuola di pensiero alla quale si aderisce, c’è una forza motoria centrale in tutti i casi per salvaguardare degli interessi. Il perpetuarsi delle guerre è il risultato della spinta alla salvaguardia di interessi personali, che rende più difficile le trattative collettive. Per coloro i quali credono che il potere in definitiva sia della gente e non dei governi, la ricetta è: avanti con le insurrezioni popolari e la disobbedienza civile. [2]

COME SI PERPETUANO LE GUERRE?

Come sottolineato, le guerre sono il risultato di una spinta per salvaguardare interessi personali, escludendo possibili trattative collettive. A tal fine, si manipola la psiche dei civili sostenendo che la guerra è l’unica e migliore soluzione.

Il celebre politologo David Easton postulava che ‘la politica è l’imposizione di valori da parte di un’autorità’. Come è possibile allora che viviamo in una condizione di relativo benessere in un ambiente di guerre che infuriano?

La politica e le guerre sono state trasformate in intrattenimento provocando un collasso mentale che permette di creare una società dominata dall’intrattenimento – che non si affatica granché a pensare – piuttosto che impegnata nell’indagine critica. Si capisce allora perché si è creata una relazione simbiotica fra l’industria dei media – focalizzata nello sfornare idee al maggior offerente – e le formazioni politiche.

L’intrattenimento favorisce una coscienza passiva, una disponibilità a ‘sospendere l’incredulità’ allo scopo di generare svago. I funzionari governativi si comportano come prestigiatori per illudere il pubblico e distrarne l’attenzione dalle informazioni reali che intendono nascondere.

L’autorità dello stato si fonda su una base di adesione consensuale alla realtà, il cui contenuto è lo stato stesso che cerca di controllare. [3] Ecco perché i cosiddetti ‘sondaggi d’opinione pubblica’ anziché essere una analisi fattuale basata sulla ragione sono diventati il moderno standard epistemologico, e perché le immagini – diffuse dai media – hanno ora la precedenza sulla sostanza delle cose.

I media contribuiscono a plasmare il contenuto della nostra consapevolezza generando stati d’animo, paure e reazioni di gradimento istituzionale, ruolo che essi hanno perfezionato nel corso del tempo. Dobbiamo chiederci fino a che punto la nostra comprensione della storia e dei comportamenti umani sia stata plasmata da immagini e drammatizzazioni televisive. Mediante abili rappresentazioni e costruzioni fittizie della realtà, altri orientano le nostre esperienze, incanalano le nostre emozioni e plasmano le nostre visioni della realtà. Vengono rappresentate situazioni prevalentemente di conflitto più che di cooperazione, più di violenza che di pace, più di morte che di valore della vita.

Tutto ciò mi induce a chiedere: l’industria mediatica è una estensione del sistema bellico oppure è la guerra una estensione del nostro bisogno di un’industria mediatica?

Quel che dovrebbe risultare chiaro è che i media si possono usare come mezzo privilegiato per condizionare e orientare dall’esterno il nostro pensiero. Questo è verificabile nel caso delle immagini di guerra e del sostegno che è stato dato alla guerra medesima. Ma è un risultato ottenuto indipendentemente dalla nostra volontà, frutto di una mente resa passiva da istituzioni politiche e mediatiche, al fine di sospendere il giudizio sulla realtà degli avvenimenti ai quali stiamo assistendo.

Quando ci gratifichiamo con lo svago, spostando l’attenzione dalla realtà alla fantasia, permettiamo che le nostre emozioni siano sfruttate da coloro che sono abili nel suscitare forze inconsce e ci predisponiamo nella condizione di essere manipolati da chi conduce lo show.

COME AFFRONTIAMO LA SITUAZIONE?

L’autocompiacimento dell’industria mediatica mette in discussione il giornalismo come professione e permette di classificare i professionisti in due settori: giornalismo di guerra e giornalismo di pace.

C’è una crescita numerica del gruppo che abbiamo definito giornalismo di guerra, che con la sua potenza finanziaria ha occupato il centro della scena per plasmare e condizionare il modo di pensare della nostra società. Mediante contenuti sensazionalisti, ha catturato l’attenzione della società, mantenendola in un ambito limitato mediante abile propaganda, facendole perdere i propri valori e riuscendo così a sostenere gli interessi dello status quo.

Il giornalismo di pace d’altronde, sebbene meno potente, si è attenuto ai principi del giornalismo in quanto professione. Raccontando la storia così com’è, facendo conoscere la verità, senza pregiudizi né partigianerie, si è impegnato nella ricerca di fonti attendibili per verificare e avvalorare i fatti narrati collegandoli con la realtà della vita vissuta dalla gente e individuando possibili soluzioni ai problemi.

Tutto ciò dimostra che in mezzo alla confusione c’è da qualche tempo un impulso a dare al giornalismo il valore che merita. Il dissidio è fra un giornalismo etico (giornalismo di pace) – che in realtà è il vero giornalismo – e il giornalismo corrente che si è imposto all’attenzione per servire interessi corporativi, diventando di fatto giornalismo di guerra.

Sostengo Johan Galtung nel suo appello affiché il giornalismo possa riacquistare una propria dignità professionale!

NOTE

[1] C. Schweitzer, Overcoming War: The importance of constructive alternative experiments with peace [Superare la guerra: l’importanza di esperimenti alternativi costruttivi con la pace] (celebrando l’80° compleanno di Johan Galtung), Pambazuka Press 2010.

[2] Sharp Gene, The Politics of Nonviolent Action, Porter Sargent Publisher, Boston 1973 [Traduzione italiana: La politica dell’azione nonviolenta, EGA, Torino, 3 voll. 1986-1992],

[3] E. David, “An approach to the analysis of political systems” [Un approccio all’analisi dei sistemi politici], in World Politics 9, 1957.

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Mwaura Kaara (Pambazuka News) è il coordinatore giovanile regionale per l’Africa della campagna ONU per il Millennio. Attualmente ha una borsa di studio intitolata a Ragnar Sohlman e finanziata dall’Organizzazione d’Amicizia svedese-norvegese e dalla Voksenasen insieme alla Rete Sud Nord del Programma Dag Hammarskjöld.

Traduzione di Miky Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

Titolo originale:The Art of War Journalism

http://www.transcend.org/tms/2010/11/the-art-of-war-journalism/

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