Il mare di mezzo – Francesca Putzolu

Recensione del volume di Gabriele Del Grande, Il mare di mezzo, Infinito Edizioni, Roma 2010

Gli oppressi, gli sfruttati, i deboli, le cui storie si intrecciano tra speranze deluse, periodi di detenzione, pestaggi e morti dispersi in mare, con i pochi fortunati che riusciranno a raggiungere l’Italia o altre mete, sono gli interpreti dell’appassionante libro “Il mare di mezzo”. Il nostro Mare Mediterraneo, dove si confrontarono tra lunghe guerre e altrettanti lunghi periodi di pace, culture e popoli diversi, oggi continua a essere teatro di una tragedia le cui radici affondano nel passato di una ingiustizia che si ripete come un costante rituale.

Lo sguardo attento dell’autore (fondatore di Fortress Europe, http://fortresseurope.blogspot.com) è accompagnato da una profonda sensibilità per le vicende delle singole persone, per la loro quotidianità di affetti, di relazioni, di studi, di lavoro, oltre che per l’intreccio con gli avvenimenti sociali e politici del momento e le sue nefaste conseguenze, che spingono verso progetti di fuga di cui non si conosce la sorte. Nonché per la loro rabbia, le sconfitte e le rivolte. Intrecciando la sua vita alle loro, egli ci mostra una umanità che ci assomiglia, che come noi vive di progetti, di relazioni, di speranze. Così per l’algerino Ikram, nato in Francia ma rientrato col padre in Algeria, che dopo il rifiuto del visto dell’ambasciata, tenta l’attraversata con altri cinquantasette passeggeri su piccole imbarcazioni, poi scomparso in circostanze misteriose. L’ostinata speranza del fratello è la volontà di scoprire la verità. Altrettanto coinvolgente è la descrizione delle lotte degli operai di Redeyef in Tunisia, la cui produzione di fosfati è una delle più grandi del mondo, e le ritorsioni del governo di Ben Alì nel 2008. Linea dura contro sindacalisti, familiari e giornalisti. Alcuni scappano, altri muoiono, altri ancora riescono ad arrivare in Italia nei centri di Lampedusa e Gradisca, a cui però il governo rifiuta di dare asilo politico, spingendoli alla fuga e alla clandestinità. Il libro rivela la linea dura del ministro Maroni, la violazione del diritto nazionale e internazionale. E’uno specchio su migliaia di vite umane di cui nessuno ha più notizia. E’ una denuncia sulla resistenza delle autorità libiche, tunisine, egiziane e italiane a fornire informazioni sulle sorti degli scomparsi. Le accuse di abusi e violenze delle autorità tunisine si intrecciano con il meticoloso lavoro degli avvocati per cercare la verità e le responsabilità.

Egli stesso non è gradito in Tunisia e spesso deve muoversi con grande cautela per non correre rischi e non vedere il suo lavoro vanificato dai servizi segreti.

La sua è inoltre un’attenta e approfondita inchiesta sui luoghi di “detenzione” dei clandestini, centri di identificazione e di espulsione in Italia e delle vere e proprie carceri in Libia. Soggetti a ogni sorta di violenza, essi trascorrono lunghi periodi in stato di detenzione, senza colpa alcuna se non l’essere clandestini o profughi o richiedenti asilo politico. Descrive le rivolte nei 13 centri italiani, scioperi della fame, fughe, atti di autolesionismo, pestaggi della polizia nel 2009 dopo la legge 94 che innalzò da due a sei mesi i limiti di detenzione delle persone sprovviste di documenti di identificazione. Ma è in Libia che si perpetua “l’orrore“ di vite spezzate e violentate. Tramite i racconti delle vittime, le loro fragili e brevi comunicazioni a qualche cellulare nascosto ai controlli, egli ci apre un sipario di crudeltà e abbandono. Ci descrive la strage di Ganfuda, carcere di detenzione in Libia in cui scoppia una rivolta finita nel sangue e di cui si parlò nell’Unità il 2 settembre del 2009.

Il libro è un’inchiesta attenta e appassionata che rivela la sensibilità dell’autore sulla natura degli uomini, la generosità di capitani che affrontano le onde e il vento per salvare i naufraghi e la paura di chi scappa e di chi li abbandona al mare.

È dedicato alle ansie dei padri, fratelli e sorelle che cercano i loro familiari partiti dalla Somalia, dall’Eritrea, dalla Tunisia, dall’ Egitto non rassegnati al silenzio sulle sorti di centinaia di uomini, donne e bambini che affrontano il mare e spesso vi muoiono.

Le comunicazioni dei migranti con i loro cellulari sono frequenti all’inizio dei viaggi per farsi poi sempre più incerte e vaghe. Le loro speranze si aggrappano a chiamate verso centri di soccorso marittimo, chiedono aiuto, vanno alla deriva, senza acqua né cibo. Sul gigantesco palco del Mediterraneo si alternano, magistralmente descritte, le migliaia di storie di vite di giovani e vecchi, donne e uomini, somali, eritrei, algerini, tunisini, che scappano da governi terribili, da paesi in guerra, da persecuzioni, da vite senza dignità e futuro. Ma il coro, come nella tragedia greca, che aveva un ruolo di interprete delle vicende, di coscienza collettiva, oggi è muto, è indifferente.

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