L’Apartheid è vivo e sta bene

Jake Lynch

C’è un luogo dove i neri nativi vengono ancora cacciati dalla propria terra e messi nelle riserve; dove il lavoro è remunerato non con salari ma carte annonarie da spendere in supermarket di proprietà dei bianchi; dove i servizi pubblici si scialano con i già ricchi ma si negano ai più poveri a meno che acconsentano a trasferire il proprio diritto di nascita.

Sedici anni dopo la fine dell’apartheid, i tassi di incarcerazione degli indigeni d’Australia assomigliano all’ incarcerazione dei neri nel SudAfrica governato dalla minoranza bianca. Gli Aborigeni costituiscono appena il 2.5% della popolazione nazionale, ma rappresentano quasi un quarto di tutti i carcerati. Nel Northern Territory, l’Australia dell’outback, remota e selvaggia, resa famosa dai film su Crocodile Dundee del commediografo Paul Hogan, la proporzione degli aborigeni sotto chiave giunge a un incredibile 83%.

Il soggiogamento storico della popolazione indigena d’Australia cominciò con l’arrivo dei coloni europei nel 1788. Vicino a dove abito sul North Shore superiore di Sidney c’è l’ultimo sito collegato con la cosiddetta ‘prima flotta’ rimasto non sviluppato. Una targa d’ottone nella boscaglia ricorda una ricognizione guidata dal governatore Arthur Phillip, accampatasi qui in cerca di terra agricola atta a stabilirvi una colonia.

Fino ad allora, ovviamente, gli Aborigeni erano riusciti a nutrirsi per decine di migliaia d’anni in una terra dal clima erratico e dai suoli esili e asciutti. Aumenta l’amara ironia che ora migliaia dei loro discendenti si trovino con redditi “gestiti” dai discendenti di quegli stessi coloni e delle successive ondate di sopraggiunti – elemosinati con carte annonarie intese espressamente a procurare loro cibo fresco, anziché pagati normalmente in contanti.

Fa parte della Risposta Nazionale all’Emergenza nel Territorio del Nord – nota a tutti come l’Intervento – per cui i gestori d’affari governativi hanno assunto poteri draconiani sulle comunità aborigene e acquisito affitti obbligatori di terre locali aborigene, cosa data per necessaria onde permettere l’edificazione di abitazioni popolari, senonché finora il totale di case costruite nonostante un bilancio di 670 milioni di dollari australiani su due anni è di … quattro (escluse la cinquantina di abitazioni costruite appositamente per i gestori d’affari stessi).

L’Intervento fu lanciato sotto il precedente governo guidato dalla Coalizione Liberal-Nazionale dichiaratamente di centro destra, ma è continuato invariato con l’attuale governo laburista in carica dal 2007. Nel ciclo elettorale triennale australiano ciò vuol dire che altre elezioni sono imminenti, e i ministri hanno risposto alle critiche con un esercizio fasullo di ‘consultazione’, che pretende di mostrare che va tutto bene, e con emendamenti tesi a portare l’Intervento in linea con la legge australiana sulla Discriminazione Razziale (Race Discrimination Act, RDA).

Il che tuttavia comporterà un livellamento verso il basso, non verso l’alto, dei diritti: qualunque pretendente del Northern Territory a benefici statali sarà immediatamente soggetto a vederseli portati via e trasformati invece in un sussidio su una Carta degli Essenziali. E la nuova legislazione sull’Intervento, da dibattersi a Canberra fra poche settimane, omette un fattore cruciale: non c’è nulla che permetta agli Aborigeni di usare l’RDA per obiettare ad alcuna delle sue clausole, privando così il supposto mutamento di qualunque significanza.

L’Intervento fu suggerito da un rapporto del governo del Northern Territory su abusi sessuali infantili nelle comunità aborigene, intitolato I piccoli sono sacri. Poco tempo prima il programma Four Corners dell’ABC, in un raro esempio d’iniziativa giornalistica a questo proposito, aveva esposto la pruriginosa verità: CSA (Child Sexual Abuse) non è più diffuso presso gli Aborigeni di quanto lo sia presso gli australiani in genere. Il governo ha finanziato solo 20 protettori infantili per tutto il Territorio, e soltanto uno attualmente a tempo pieno. Nessuno è stato perseguito per abusi sessuali infantili dall’inizio dell’Intervento.

L’arrivo in zone aborigene di funzionari governativi è stato assecondato dal dispiegamento di militari, e ci sono davvero echi abbondanti della propaganda che ha accompagnato vari altri “interventi umanitari” recenti. La Jugoslavia fu bombardata per proteggere i kosovari albanesi: non importa che, quando la NATO attaccò nel 1999 con la cosiddetta “Operation Allied Force”, quasi tutti gli sfollati erano tornati a casa – prima che i bombardamenti stessi provocassero un esodo di massa.

L’Iraq fu attaccato per liberare il suo popolo da un dittatore avvezzo ad abusi d’ogni sorta, e centinaia di migliaia di iraqeni la pagarono con la vita e altri milioni con l’essere cacciati di casa, per lo più per sempre. L’ Afghanistan fu invaso per proteggere gli afghani dai taliban, innescando così una guerra che continuerà sicuramente finché le truppe degli invasori guidate dagli USA verranno infine costrette ad andarsene, con un enorme costo umano nel corso della guerra, il tutto con una prova esilissima di coinvolgimento dell’Afghanistan negli attacchi dell’11 settembre, pretesto originario.

Un’espressione attribuita al comandante in campo americano, generale Stanley McChrystal, durante il recente attacco NATO alla città di Marjah, è particolarmente interessante. Disse che una volta sgombrati i talebani, c’era “un governo pronto a dispiegarsi”, con personale e risorse disponibili per fornire i servizi tanto attesi dalla gente. In ciò c’è una variante della cosiddetta teoria della “pace liberale”, secondo la quale le liberal-democrazie non entrano quasi mai in guerra fra loro, quindi ciò di cui i paesi con conflitti cronici hanno bisogno è che vengano impiantate le istituzioni che caratterizzano la liberal-democrazia: sotto minaccia delle armi, se necessario.

Un intervento amministrativo altamente intrusivo, sostenuto da truppe, ha spazzato via forme locali di democrazia e di attività economica e sta tentando di imporre dall’alto modi di essere e di fare gravemente estranei agli interessati. Potrebbe essere una descrizione sia della Risposta Nazionale all’Emergenza sia della guerra in Afghanistan; una somiglianza non puramente per coincidenza. David Rieff vede nell’ esortazione a intervenire per motivi “umanitari”, un’estensione della “missione civilizzatrice” con auto-investitura dell’imperialismo, mirata a trascinare i popoli minori nella modernità:

“I fautori contemporanei dell’umanitarismo di stato condividono qualcosa della stessa fede che una combinazione di alti intenti morali, forza militare, imposizione di un buon governo, e tutela benigna (le “razze minori aldilà della legge” di Kipling corrispondono agli “stati falliti” di oggi) potrebbe essere una forza per migliorare l’umanità”.

Così, in Afghanistan, le tradizioni locali di processi decisionali consensuali incarnate nelle jirga e nelle shura, sono state sgominate dall’imposizione dall’esterno di un presidente onnipotente come partner di donatori occidentali. Il governo risultante si è dimostrato corrotto e inefficiente, e gli afghani che hanno fatto esperienza di entrambi, possono tranquillamente preferire in carica i taliban. Soraya Sarhaddi Nelson, capo ufficio a Kabul della Radio Nazionale Pubblica, riferiva:

“Alcuni residenti sono guardinghi. Si lamentano che l’ultima volta che il governo è stato in carica a Marjah due anni fa, ufficiali di polizia corrotti terrorizzavano i residenti. Un trattorista, tal Faqir Mohammad, diceva che i taliban avevano portato la pace a Marjah e che generalmente non interferivano nelle faccende della gente, aggiungendo che i residenti ne erano contenti. Al confronto i funzionari di polizia a Marjah rubavano soldi e motociclette alla gente ed erano implicati nei rapimenti”.

E chi ha in appalto il dispiegamento del governo portatile del gen. McChrystal, secondo un resoconto di questo fine-settimana sull’Independent, mio vecchio giornale, sono “stati costretti a ritirarsi ancor più dietro mura di protezione e perimetri di sicurezza con armamento pesante. La sicurezza fa lievitare i costi, rendendo più difficile l’interazione con i comuni afghani e rallentando i progetti di ricostruzione”.

Nel Northern Territory, frattanto, l’Intervento ha voluto dire l’abolizione del Programma di Sviluppo dell’Impiego Comunitario, che procurava posti di lavoro e prospettive per gli Aborigeni locali. Patrick Dodson, un capo aborigeno non del Territorio del Nord bensì della gente Yawuru di Broome, Australia Occidentale, accettando il Premio della Pace di Sydney nel 2008, lamentava che le iniziative di Canberra abitualmente aggirassero – e quindi svilissero – i capi indigeni locali, negando loro l’autorità di attuare i cambiamenti necessari.

Adesso si sta formando un movimento di resistenza forte e creativo contro l’Intervento. Guidato dalla non-remissività aborigena – che praticano la tecnica chiamata l’ “andarsene” – ha già prodotto una casa di comunità, costruita in appena due settimane ad Ampilatwatja con l’aiuto del sindacato portuali, il MUA. E un movimento della società civile, il Collettivo Fermate l’Intervento, è in rapida crescita. Recentemente ha organizzato un incontro pubblico a Sydney con John Pilger, l’eminente giornalista e cineasta che l’anno scorso è stato il successore di Dodson come vincitore del Premio per la Pace di Sydney.

Pilger attirò l’attenzione sul piano governativo per il Northern Territory (NT) esposto nel documento Working Futures, per il taglio dei servizi pubblici a centinaia di comunità originarie aborigene ritenute non “economicamente sostenibili”, a favore dello spostamento dei loro abitanti in centri noti come “hub” dove avranno l’opportunità di vivere “vite normali”. Questa è una ricetta per il crollo sociale: i luoghi previsti come hub hanno alcuni dei peggiori indicatori sociali d’Australia. L’ agenda, ammoniva Pilger, era la solita: “sloggiare i tipi neri dalla loro terra” per far posto a un lucrativo sfruttamento minerario.

Questa è la più esplicita asserzione dei presupposti che ancora permeano le politiche governative, imposte tanto dal Territorio che dalle autorità federali, come una formula scolpita nella roccia: bisogna che gli Aborigeni siano assimilati al modo di vita occidentale e alle sue forme d’organizzazione politica. La professoressa Larissa Behrendt, eminente studiosa di diritto aborigena, che intervenne a quello stesso incontro, notava che il NT aveva surrettiziamente cambiato la base d’allocazione dei fondi scolastici, dal numero di studenti iscritti a quello dei frequentanti: un modo d’accelerare i cicli di declino nelle scuole basate sulle comunità aborigene, e solo uno di una miriade di trame insidiose analoghe.

A parte la squadra del Four Corners, quasi tutte le risposte mediatiche d’opinione prevalenti sull’Intervento – come per il ruolo dell’Australia nella guerra afghana – sono state quasi comicamente supine. Quando l’ONU inviò un relatore per esaminare le lamentele sulla sospensione del RDA e l’accantonamento dei capi indigeni, le sue critiche furono riferite insieme a smentite indignate del ministro per gli Affari Indigeni Jenny Macklin e del suo predecessore dell’era Howard, Mal Brough. Furono citati uno o due noti capi aborigeni, ma non ci fu un’ indagine basata su fonti sul campo, onde permettere ai lettori e al pubblico di valutare autonomamente le sue critiche.

L’emittente pubblica ABC generalmente mostra la profonda impronta di anni d’interferenza e intimidazione politica: una tempestiva “esclusiva” nel programma notturno Lateline aveva ammannito denunce sensazionali di una congrega per l’abuso sessuale infantile nelle comunità aborigene – proprio quando venne proposto inizialmente l’Intervento. La sua fonte, un anonimo “giovane lavoratore”, fu successivamente screditata, notava Pilger, dal governo e dalla polizia del NT. Quando un documentario sul canale ABC2 propose un semplice filmato che evidenziava una gamma di risposte sull’Intervento da parte degli Aborigeni con loro parole, causò un feroce litigio e i programmatori furono costretti a trasmettere una dichiarazione fuorviante per “bilanciarlo”.

Vale la pena rivisitare il verdetto del professor James Anaya, il relatore speciale sui diritti indigeni inviato dall’ONU: “Queste misure apertamente discriminano i popoli Aborigeni. Contravvengono al loro diritto di auto-determinazione e stigmatizzano comunità già stigmatizzate”. E’ significativo che le identifichi come una trasgressione agli impegni legalmente vincolanti presi dall’Australia verso la comunità internazionale: “La reazione all’emergenza è incompatibile con gli obblighi dell’Australia ai sensi della convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale”.

Questo rende l’Intervento una questione che riguarda tutti. Bisogna che all’Australia si mostri che non può impegnarsi verso il mondo esterno su qualunque argomento senza badare alla sua soluzione soddisfacente e sostituire le attuali politiche con un approccio consultivo e di sostegno nei confronti delle comunità aborigene, basato sulla giustizia sociale. Informatevi ulteriormente nel sito www.stoptheintervention.org e scrivete alla vostra sede locale dell’Alta Commissione Australiana. Come ha detto l’arcivescovo Desmond Tutu, veterano della lotta anti-apartheid, stare zitti di fronte all’oppressione non è restare neutrali, ma mettersi dalla parte dell’oppressore.


TRANSCEND Media Service – TMS PEACE JOURNALISM

Titolo originale: Apartheid Is Alive and Well

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

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