Se non ci sarà pace nel Caucaso non ci sarà pace in Europa – Elvira Augello e Simona Defilippi

Intervista a Massimo Bonfatti, Presidente dell’associazione di volontariato per la solidarietà “Mondo in cammino”.

Abbiamo incontrato Massimo Bonfatti, presidente dell’Associazione ‘Mondo in Cammino’, che dal 2005, e più precisamente a seguito della strage di Beslan, che tanto seguito ha ottenuto nei mezzi di comunicazione anche italiani, si occupa di Caucaso e che ha sviluppato numerosi progetti nella zona. Le parole di una persona che conosce così a fondo la situazione ci aiuteranno sicuramente a saperne di più sul Caucaso e su alcune questioni legate ai territori che ne fanno parte.

In cosa si differenzia l’associazione ‘Mondo in cammino’ rispetto ad altre?

La nostra è una piccola associazione fatta di volontari, di gente che si impegna. Spesso si pensa che dietro alla realizzazione di progetti ci sia il supporto e l’utilizzo di tanti soldi e di organizzazioni importanti. Noi cerchiamo nel nostro piccolo di attuare iniziative nel miglior modo possibile. La realtà del Caucaso è molto complessa. Quello che ci differenzia rispetto ad altre associazioni, anche internazionali, che hanno i nostri stessi obiettivi è che noi siamo presenti sul posto. Ci sono molte associazioni in Italia che si occupano di diritti civili, che si interessano al Caucaso, come ad esempio il “Comitato per la pace nel Caucaso” e “Anna Viva” ma sono associazioni che urlano, e non intendo in senso negativo del termine, il bisogno del rispetto dei diritti civili. Ma alzano la voce qua, in Europa, senza andare effettivamente laggiù. Recarsi nel Caucaso cambia completamente la prospettiva e ciò che puoi denunciare qua, là non puoi farlo per motivi oggettivi.

Perché avete deciso di rischiare così tanto andando fisicamente lì?

Quello che noi cerchiamo di fare è di ‘mettere un piede’ affinché la porta non si chiuda così quando e se un domani ci fosse la possibilità di aprire quella porta noi in qualche modo possiamo aprirla. Inoltre, vogliamo essere gli occhi e le orecchie di una situazione difficile per poter diffondere all’esterno informazioni alla gente che ha bisogno e vuole sapere.

Forse andando avanti con gli anni si diventa più sensibili e probabilmente può sembrare retorico, ma impegnarsi in situazioni di estrema complessità e mancanza di diritti è un messaggio di speranza.

Qual è la situazione laggiù?

La situazione in Cecenia, per quanto poco se ne parli, è pericolosa, non solo per la mancanza di diritti civili, ma lo è anche per chi si occupa di dare delle possibilità di vita normale e civile, ad esempio, ai bambini. Una nostra collaboratrice Zalema Sadulaieva, l’11 Agosto dell’anno scorso è stata prelevata dal suo ufficio ed è stata assassinata. I suoi genitori hanno chiesto rifugio politico perché minacciati e sono dovuti andare in Francia. Sono moltissime le difficoltà che devono affrontare i volontari.

Quali sono le principali problematiche da affrontare?

Sono tante. Principalmente nei paesi dell’ex Unione Sovietica c’è difficoltà a capire il volontariato perché laggiù pensano che chi ha deciso di impegnarsi in quelle zone è perché ha forti interessi. Gli occidentali, inoltre, sono considerati delle spie. Questo ad esempio è uno dei motivi per cui abbiamo fatto uno stage a tre nostre collaboratrici per far capire loro soprattutto la cultura del volontariato.

E’ molto complicato anche il sistema ‘di relazione’, di organizzazione della loro società. Il Caucaso è composto da diverse etnie al punto che nel governo c’è il ministro per le nazionalità: sono circa 70 quelle rappresentate in Cecenia la maggior parte di nazionalità caucasiche. Ogni nazione è strutturata sul concetto del clan. Ogni clan ha le sue regole, si oppone agli altri. Il nazionalismo prende il sopravvento sulle politiche di integrazione.

E’ davvero difficile lavorare, realizzare qualcosa. Bisogna agire con le istituzioni che chiedono di procedere a loro modo.

Credo comunque che l’importante è esserci, dare un senso al futuro e offrire prospettive positive a chi vive là per non farle sentire abbandonate.

Realizzare progetti nei territori dell’ex Unione Sovietica, in Bielorussia ti fa capire che la realtà non è quella che ti trovi di fronte o quella che credevi che fosse quando eri in Italia a valutare o pianificare le cose da fare. Lì, ogni mattina le regole del gioco possono mutare perché ci può essere una disposizione del ministero che cambia completamente la legislazione e tu hai lavorato per ottenere determinate cose e poi invece devi ricominciare dall’inizio.

In zone così “delicate” come quelle del Caucaso, lavorate da soli o vi appoggiate ad associazioni locali? E a chi sono dirette principalmente le vostre azioni?

Abbiamo un’associazione partner a Groznyi, che si chiama “Salviamo la generazione” (“Spasiom Pokolenje”); lavoriamo con loro per dare un senso di speranza soprattutto ai bambini. La situazione dei bambini là è tragica, perché ci sono bambini vittime di mina, ci sono bambini che hanno perso i genitori per via dei due conflitti precedenti e quindi hanno problemi di ordine psicologico, e poi ci sono tutti i problemi legati alle conseguenze della guerra. Questa associazione si chiama “Salviamo la generazione”, è nata cinque o sei anni fa e mi è stata consigliata dal candidato al Premio Nobel che avevo incontrato in Italia qualche anno fa. Quando sono andato a Groznyj mi sono messo in contatto con loro e abbiamo fatto venire già una volta dei bambini vittime di mina, per dare un segno di speranza.

Ci parli di qualche progetto tutt’ora attivo che c’è ora in piedi in Cecenia?

Un altro progetto che esiste in Cecenia è stato pensato proprio un paio di mesi fa. Avevo conosciuto nell’ultimo viaggio una rappresentante di “Assitenza civile”, un’associazione che si occupa di dare aiuto alla popolazione, anche in campo di diritti. La presidente si chiama Svetlana Gannushkina. Digitando il suo nome su un motore di ricerca si vede che è una delle più importanti donne che difende i diritti umani. E’ stata nel 2005 tra le 100 donne candidate al premio Nobel. Stiamo cercando di presentare un progetto, la cui bozza è stata data alla Chiesa Valdese, sperando che conceda qualcosa dell’8X1000. Il progetto si chiama “Un libro per i bambini ceceni”.

Quando immaginiamo la Cecenia non dobbiamo immaginarla come un territorio dove la guerra è generalizzata. Ci sono delle zone di pianura, che vanno di più verso la Russia, che quasi non sono state toccate. L’area che va da Groznyj verso la montagna è stata una zona molto dura, perché lì si nascondevano i ribelli e la conformazione orografica permette di portare avanti queste azioni. Nei villaggi sono state distrutte le scuole e le biblioteche quindi noi cerchiamo di riportare i libri nelle biblioteche perché i bambini in qualche modo non siano analfabeti, perché l’analfabetismo è la sacca o dei guerriglieri, o dei poliziotti di Kadirof. L’effetto poi è uguale: si trovano in un futuro uccisi, o come poliziotti o come irredentisti (non so se chiamarli terroristi perché la situazione è molto complessa). Ci sono bambini che proprio per mancanza di libri non sanno leggere, quindi cercheremo di rifornire di libri le biblioteche con l’associazione “Assistenza Civile”, ma con questo progetto partiremo più avanti.

Quando e come avete iniziato a interessarvi del Caucaso?

Abbiamo cominciato ad occuparcene nel 2005. Eravamo un gruppo di volontari. Alcuni di noi lavoravano per Legambiente, altri per alcune associazioni che si occupavano dell’accoglienza dei bambini di ?ernobyl. Il primo settembre 2004 è successa la presa della scuola di Beslan con gli ostaggi, che si concluse con una strage e con 370 morti. A livello mediatico è ancora una tragedia che ha colpito molto e che ha portato all’attenzione di un gran numero di persone il Caucaso, Tuttavia è strano che a distanza di così pochi anni parlando di Beslan non si ricorda tanto, mentre la tragedia di Cernobyl è rimasta molto più nella memoria, ne hanno dato nome anche a un virus informatico. Anche se poi, in realtà, nessuno sa cosa sia effettivamente Cernobyl è rimasto, Beslan non molto o comunque non ad un numero vasto di persone. Quando parlo di Ossezia, ancora peggio. Molti mi chiedono “Ma l’Ossezia cos’è? ah si qualcosa ho visto” anche se realmente non ricordano molto. Quando successe la tragedia di Beslan ci siamo chiesti che cosa potevamo fare. L’unica nostra esperienza era quella dell’accoglienza.

Volevamo tenere viva l’attenzione sul quella parte del mondo, mettere le nostre esperienze e tutta la nostra competenza. A marzo 2005,con un altro mio collaboratore ci siamo recati là cercando di capire la realtà del luogo. Abbiamo deciso di far venire i bambini della città cercando di coinvolgere il dramma dell’intera città coinvolgendo, quindi, ostaggi e non.

Come vi vedono le istituzioni? E perchè avete scelto proprio il Caucaso come area di intervento?

Laggiù ci vedono come occidentali, ci chiedono quali sono i nostri interessi e ci credono spioni, agenti segreti di qualche stato, di qualche associazione che opera contro la Russia, contro Putin, contro il governo.

Come diceva Natalya Khusainovna Estemirova, che è stata uccisa l’anno scorso a Luglio e che era l’erede di Anna Politovskaia, è una molto grave non rendersi conto che la Cecenia, il Caucaso del Nord è Europa. Finché non ci sarà pace nel Caucaso non ci sarà pace in Europa. Il Caucaso vive un equilibrio difficile e precario in cui la situazione può scoppiare da un momento all’altro. Quando questo succederà sarà coinvolta in qualche modo tutta la nostra comunità. Inoltre, bisogna prendersi carico anche dei problemi altrui perchè sono anche un po’ problemi nostri.

Dato che non ci possiamo occuparci di tutto il mondo abbiamo scelto lo spazio post sovietico. Siamo nati occupandoci delle conseguenze del disastro di ?ernobyl e nel tempo abbiamo esteso il nostro interesse al Caucaso.

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