La “guerra al terrorismo” e la lotta per il contesto

Jake Lynch

George W. Bush esplicitamente equiparava la sua cosiddetta guerra al terrorismo alla sfida generazionale posta dalla guerra fredda, ma non riuscì mai a convincere che avesse la medesima portata.

Nel dicembre 2001, poco dopo l’attacco dell’11 settembre, tre istituzioni autorevoli – il Pew Research Centre, la Princeton Survey Research Associates e il quotidiano International Herald Tribune – unirono le proprie forze per un interessante sondaggio. Identificarono 275 persone influenti in politica, media, affari e cultura, in 24 paesi e chiesero loro se credessero che i loro compatrioti considerassero l’attacco come qualcosa che l’America s’era cercata, in altri termini, una risposta alle sue politiche estere militari ed economiche e i loro effetti percepiti sulla vita della gente. Tale visione – che la scrittrice e vincitrice del Premio per la Pace di Sydney, Arundhati Roy, chiama il “lato contestuale” dell’ “aspra linea di faglia che non perdona e percorre tutto il discorso contemporaneo sul terrorismo” – era condivisa da ampie maggioranze in Medio Oriente, meno ampie altrove e complessivamente al 58%.

Se accettiamo che non si possano dissociare atti di violenza politica dal contesto, che possano essere spiegati, se non giustificati, dall’esperienza comune di fattori identificabili della vita quotidiana, ha senso parlare di reazioni diverse dalla guerra. Infatti, mesi dopo, nel marzo 2002, i capi di 50 paesi poveri si riunirono a Monterrey, Messico, per premere su una maggiore azione collettiva tesa al raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio posti dall’ONU per dimezzare la povertà globale entro il 2015, e i relatori stabilirono tutti un nesso diretto fra tale progetto e la minaccia di terrorismo.

“Nella scia dell’11 settembre, esigeremo fermamente che sviluppo, pace e sicurezza siano inseparabili”, dichiarò il presidente dell’Assemblea Generale ONU Han Seung-soo. “Parlare di sviluppo è parlare anche di lotta intensa e determinata contro il terrorismo” disse il presidente peruviano Alejandro Toledo. Le citazioni sono prese da un rapporto sull’avvenimento da parte dell’agenzia stampa Associated Press, che iniziava appunto con una riga di contesto: “I dirigenti delle nazioni povere hanno ammonito le loro controparti dei paesi ricchi che se vogliono un mondo privo di terrorismo, dovranno pagarlo”.

A ridosso dell’incontro di Monterrey, le cifre rilasciate dalla Conferenza ONU su Commercio e Sviluppo mostravano quanto i paesi più poveri venissero lasciati indietro proprio aprendo i loro mercati su richiesta delle istituzioni finanziarie internazionali. “Abbiamo visto uno sganciamento fra il motore del commercio e quello dello sviluppo nei paesi in via di sviluppo durante i due decenni scorsi” fu il verdetto del Funzionario superiore agli Affari Economici UNCTAD, Richard Kozul-Wright. La liberalizzazione del commercio globale, un asse portante del neo-liberismo, stava esacerbando l’ineguaglianza e l’ingiustizia, appunto le tematiche più salienti nel contesto che Roy e altri hanno riconosciuto all’attacco dell’11 settembre e incidenti successivi.

La povertà dell’Atlantismo

L’America è un tipico esempio di concetto “polisemico”; qualunque ricostruzione della sua storia, politica o valori deve essere una narrativa plurale. La stessa abbondanza della produzione culturale USA vuol dire che possiamo ciascuno costruire la nostra versione distintiva entro una scorta illimitata di idee e immagini, adombrata nei versi evocativi di Paul Simon: “siamo venuti tutti a cercare l’America”. Anatol Lieven divide la molteplicità del corpo sociopolitico USA in due ampi affluenti storici: da un lato, i suo “credo civico”, che comincia con le parole iniziali della Costituzione, “Noi, il popolo”, e dall’altro, un militarismo “Jacksoniano”.

Per quanto siano utili le formulazioni di Lieven per concettualizzare forme rivali di nazionalismo, le reazioni USA al conflitto nell’attuale congiuntura sono state in effetti esterne a entrambe tali correnti, lanciandosi invece in quelle imprevedibili della globalizzazione sospinta dalle multinazionali. L’autore William Pfaff, i cui libri appaiono in innumerevoli compendi di relazioni internazionali, ha usato una rubrica regolare per rievocare la Grande Trasformazione operata sul capitalismo dall’era industriale, che “strappò dalle loro radici locali i mercati economici legati a comunità sin da tempi molto precedenti a quelli medievali e che si erano evoluti attraverso i bisogni e gli adattamenti di tali comunità e dei loro vicini più prossimi”.

Questa fu “l’epoca che provocò il socialismo” e vari sforzi di “riportare valori umani nella vita economica”. Col tempo, questa nuova versione di capitalismo era stata “civilizzata, o addomesticata a metà, fino al sopraggiungere della globalizzazione”, dopo di che “la tecnologia fu di nuovo usata entusiasticamente per distruggere il capitalismo esistente ripetendo i due crimini d’assassinio che avevano distrutto l’economia pre-capitalista: l’uso della tecnologia per espandere i mercati così ampiamente da smantellare le normative nazionali e internazionali esistenti, e, in secondo luogo, per mercificare nuovamente il lavoro”.

I fosforescenti artefatti dei nostri stili di vita interconnessi post-moderni – email, GPS, TV satellitare – sono scaturiti dall’ America, originati almeno in parte da innovazioni da parte del complesso militare-industriale. Questa stessa tecnologia ha esteso il raggio d’azione dei mercati e amplificato i movimenti al loro interno, a un punto tale da creare le condizioni per intensificare la fatica, insieme a un’incertezza corrosiva anche per coloro che sono relativamente benestanti. Quello che si ammira tanto negli USA è il rovescio di quanto in buona parte del mondo si guarda con sospetto, risentimento, angosciato timore. Neppure al fascino dei film si può più fare affidamento puramente come fattori “attraenti”. Naomi Klein osserva che la distruzione dello stato irakeno mediante l’operazione “shock and awe” ha aperto i confini del paese così che insostituibili artefatti della sua cultura indigena sono stati asportati dai musei ed esportati, proprio mentre arrivavano rombando camionate di lettori DVD per i mercati di Baghdad. Un programmatore del Pentagono, il maggiore Ralph Peters, così caratterizzava le funzioni delle forze armate USA nel mondo post-guerra fredda:

“Non ci sarà pace. In qualunque momento della nostra vita ci saranno conflitti multipli in forme mutanti ovunque nel mondo. I conflitti violenti domineranno i titoli, ma saranno più costanti e in definitiva più decisive le lotte cultural ed economiche. Il ruolo de facto delle forze armate USA sarà di mantenere il mondo sicuro per la nostra economia e aperto al nostro assalto culturale. A tali fini faremo un bel po’ di uccisioni”.

Gli avvenimenti hanno reso visibile questa logica al punto che le relazioni con gli USA ora recano l’impronta di una terza crisi di legittimità militare, dopo quelle del Vietnam e della guerra fredda. Un’altra rassegna, commissionata dal nuovo Centro Studi sugli Stati Uniti all’Università di Sydney, ha rivelato che nel 2007, ben 48% degli australiani – generalmente considerati fra i più instancabili seguaci di Washington – erano a favore dell’adozione di una politica estera indipendente, a scapito dell’alleanza con gli USA.

Dato l’impeto a intensificare ulteriori guerre, evidenziato dall’evoluzione delle strategie mediatiche e sostenuto dalla logica delle multinazionale e dalla politica del neo-liberismo, le tensioni svelate da tali sondaggi e manifeste nei discorsi globali pubblici, verosimilmente cresceranno. Patrick Tyler ha scritto sul New York Times nel febbraio 2003, che “le enormi dimostrazioni mondiali contro la guerra di questo fine-settimana stanno a rammentarci che forse ci sono tuttora due super-potenze planetarie: gli Stati Uniti e l’opinione pubblica mondiale”.

Brian McNair, ricercatore britannico nel campo dei media, osserva:

“Mentre il desiderio di controllo dell’agenda pubblica e del potere definitorio nella costruzione di senso giornalistica è forte e sempre presente, tanto più in tempo di guerra e di percepita crisi globale, la capacità dei gruppi d’élite di gestirlo efficacemente è più limitato di quanto lo sia stato dal sorgere dei primi agenti di notizie nel sedicesimo secolo”.

Qualunque lotta per i valori umani nella vita socio-economica è agli antipodi rispetto al complesso militare-industriale USA, e ogni sforzo per sostenere o ripristinare tali valori deve ora comprendere, come preoccupazione primaria, l’opposizione alle guerre USA. La contestazione alle agende dei diffusori di notizie e i tentativi di rintuzzare l’egemonia delle lobby d’affari sulla definizione pubblica delle politiche, fanno parte della stessa trama di resistenza tessuta in precedenti generazioni dalle donne di Greenham Common e dal Nuclear Freeze Movement.

E’ ora sempre più chiaro che gli appelli all’intervento pubblico nei mercati globali per sostenere i diritti e le garanzie dei lavoratori, e il sostegno a una protratta alleanza con gli USA – la venerabile posizione atlanticista (o, da una prospettiva australiana forse pacificista) dell’opinione prevalente nei sindacati e movimenti di lavoratori del mondo ricco – non sono compatibili, bensì contraddittorie. Non si possono più dissociare le lotte l’una dall’altra.

Questo testo è un estratto da ‘Coalition of the Unwilling: the phenomenology and political economy of US militarism’, capitolo contenuto in: Lynda-ann Blanchard and Leah Chan, a cura di, “Ending War, Building Peace”, Sydney University Press, Sydney 2009.

Per ulteriori informazioni:

http://fmx01.ucc.usyd.edu.au/jspcart/jsp/cart/Product.jsp?nID=448&nCategoryID=1


COMMENTARY ARCHIVES, 27 Feb 2010 Jake Lynch

Traduzione di Miky Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

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